Confesso. Sono una di quelle femminucce cui il fuorigioco va rispiegato ogni quattro anni, ogni volta che ricominciano i mondiali di calcio. Che poi non solo non ricordo le regole un quarto d'ora dopo averle ascoltate: è che non le capisco proprio. Sono l'antisport. Una che si è iscritta a pallavolo alle medie, per ragioni ancora ignote e, in un anno d'allenamento, ha imparato una cosa sola: come rompersi le dita. Una alla volta, ma tutte. Roba che solo io, lo so. Quella che comunque, di tutto il Mondiale, in genere ricorda un giocatore per squadra. Quello carino.
Sono irredimibile, pensavo fosse genetico.
E invece poi è successa una cosa. È successo, poi, che ho scoperto che anche lì, in queste cose da maschi mai cresciuti che inseguono un pallone, c'entrano un sacco di altre cose, oltre al pallone. È che io, tutto il resto, in queste cose qui, non lo avevo visto mai. Poi ho conosciuto uno che di suo sapeva amare solo questo. Uno che in una partita sapeva riconoscere la poesia, giuro, e che era capace di spiegarla come tale, e di farmela capire, finanche. L'ho capito una volta che accese il computer e cercò una puntata di Storie Mondiali di Federico Buffa. Giornalista sportivo di fama e di genio, Buffa, fino a quel momento a me più che ignoto, ça va sans dire. E nel mettermi a parte di questo suo tesoro, lui, rideva come un bambino la mattina di Natale: voleva farmi un regalo.
E adesso che lo sportivone m'ha sportivamente salutata – con un messaggio su Whatsapp, peste lo colga - mi resta Buffa. Perché nessuno ti lascia senza un suo dono, e di questa storia nata storta e finita peggio a me rimane questo: Federico Buffa, e le sue storie. Soprattutto: mi rimane come le racconta.
E poi mi rimane un libro, L'ultima estate di Berlino, scritto da Buffa a quattro mani con Paolo Frusca ed edito da Rizzoli poco meno di tre mesi fa, dalle cui pagine sento levarsi una voce, la sua, perché lui così lo ha scritto: in prima persona, parlando. Scandendo in sussussurro ogni riga, coma fa lui, riducendo la narrazione a discorso diretto, come fa lui. Mi rimangono queste pagine, e una storia che altrimenti non avrei mai conosciuto. L'arte, e la Storia, quella grande, che narrandola diventa reale. Ci vuole scienza anche per questo, e si vede che di scienza Buffa ne ha a pacchi. Che questa roba è roba sua, che avrebbe potuto scriverla a occhi chiusi, come a occhi chiusi avrebbe potuto tirare avanti d'un fiato lo spettacolo teatrale di due ore che da questo libro è stato tratto, "Le Olimpiadi del '36", in cui lui è autore attore protagonista voce narrante e presenza scenica dominante. Non so, avesse voluto fare pure il tecnico del suono, secondo me, sarebbe riuscito.
Storia di guerra e di guerre, profezia per forza di un futuro già avvenuto, l'estate berlinese del 1936 è protagonista dichiarata del racconto. Incrociate e alternate, due voci cambiano la scena come sul palco, ogni volta che cambia un capitolo. Malinconica e straziata la voce tedesca di Wolfgang Furstner, ufficiale del Führer caduto in disgrazia perché denunciato quale mezzosangue, halbjude; più scanzonata quella di Dale Fitzgerald Warren, cronista sportivo dell'Herald Tribune, al seguito dello squadrone statunitense. Quello squadrone lì, quello di Jesse Owens, giusto per dirne uno. Il nero – il negro! – che vinse tutto, ma tutto davvero, nella festa sportiva che doveva celebrare la purezza della razza ariana. Lui: la beffa. Lui che
semplicemente, non è battibile, succhia l'aria fuori dallo stadio, tiene in ostaggio centomila respiri e duecentomila occhi.
Lui che, nero, non meritò l'onore di una stretta di mano non già da Hitler e Goebbles, ma nemmeno da Roosvelt, il suo Presidente.
Questo libro è impastato di lui. Di lui e di Carl Ludwig Lutz, bianco ariano e teutonico che al collega nero riconobbe la superiorità, e regalò un consiglio. E sportivamente, segnò così la storia, con l'immagine di un'intesa meravigliosamente antitetica a ciò che la legge imponeva. Di lui, e di Kee Chung Son, il coreano cui l'Impero giapponese impose di correre per una bandiera che non era la sua, ringraziando un imperatore che non era il suo, portando addirittura un nome che non era il suo. E che non festeggiò la vittoria, perché vittoria non era, ma oppressione. E con il suo silenzio urlò l'onore di una ribellione. Perchè piccoli sono i gesti dei grandi. E i grandi non sempre parlano: certe volte corrono.
E io non lo sapevo che indossassero le scarpe sportive, gli eroi.
L'ultima estate di Berlino, Federico Buffa e Paolo Frusca, Rizzoli, 2015.
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