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Elsa la sciamana

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Non ho amato molto Frozen, almeno non subito. Non ho sorelle particolarmente sodali e nemmeno vi ritrovavo troppo La regina delle nevi di Andersen, che ho sempre adorato.

Poi mi è nata una piccina, che si è stufata assai presto delle canzoni di Aladdin, Ariel e Belle, così mi sono dovuta aggiornare. Ho cominciato andando su YouTube per mettere la singola canzone: lei ne è rimasta ipnotizzata, io ora della fine singhiozzavo. La sentivo risuonare in me con una forza inaudita tanto che, quando Eva si è addormentata, ho fatto qualche ricerca.

Per prima cosa mi sono detta: “Sentiamo Idina Menzel come la canta”. Non credevo alle mie orecchie: non solo la voce di Serena Autieri (ripeto, Serena Autieri) mi scuoteva per l’imbarazzante potenza e vigore, ma da anglista convinta ho dovuto appurare istantaneamente che la versione originale non era all’altezza di quella tradotta. Neanche un po’.

Gli autori italiani hanno svolto un lavoro eccezionale, dimostrando di avere inteso intimamente la forza, vera, della protagonista, riuscendo a rendere tale, puntualissima, interpretazione in modo migliore, più forte, in una parola potente, nella versione nostrana del film.  

Se l’Elsa americana nonostante tutto continua a preoccuparsi dell’opinione degli altri, di mostrarsi dura, di celare le proprie vulnerabilità tentando una sfrontatezza finora sconosciuta, di farsi andare bene una realtà imposta, l’Elsa partenopea è un tripudio di potere personale straripante, che dalle vulnerabilità, dalla propria lucida sconfitta, parte e si scatena, facendo leva su un passato di cui prende consapevolmente atto solo per dimenticarlo e lasciare spazio finalmente a una volontà capace di plasmare qualunque desiderio autentico la regina custodisca dentro di sé. 

L’Elsa italiana è così speciale perché ammette di avere perso (cosa inconcepibile forse per gli americani) e perché le macerie della sconfitta diventano i gradini del nuovo castello. Inoltre è supportata magnificamente dalla ricchezza della nostra lingua, sfaccettata e ricca di luci esattamente come il ghiaccio. 

Questo aspetto mi fa pensare a un’altra opera, meravigliosa, che ha segnato un’epoca e che non smette mai di venire ri-scoperta: quella di Carlos Castaneda, di cui la canzone – e in generale il personaggio di Elsa, sembra un trattato derivato. 

Anche i suoi libri – e in particolare qui mi riferisco ai dialoghi con Don Juan Matus, lo sciamano Yaqui che lo apre alla conoscenza di se stesso e quindi alla conoscenza universale, sono stati pensati nella lingua natia dell’antropologo-scrittore (e del sapiente messicano): è inutile affermare il contrario, certe sfumature la moderna lingua inglese americana (cioè quella che tiranneggia la cultura contemporanea, l’inglese britannico tradizionale è altro) non le coglie, anzi le appiattisce e le banalizza, per andare forse incontro all’insensata e assurda voglia di ricevere consensi di quel popolo, di oggi. 

Ma tornando a All’alba sorgerò, niente e nessuno mi toglierà dalla testa che la Disney abbia assunto un consulente di tale formazione letteraria, storica, antropologica, sociologica e, perché no, spirituale, per rendere al meglio il messaggio cosmico di Elsa, un toccasana per le nostre bambine, un’azione virtuosa che mi auguro rieccheggi con foga nelle generazioni a venire.

Qualunque infiltrazione letteraria è sempre benvenuta, quando è di prima qualità è salvifica. Immaginatevi alle spalle di Elsa Don Juan Matus che le sussurra il da farsi, proprio come con il suo Carlito nei libri e, se non avete letto Castaneda, servitevi dell’immagine header di questo pezzo. Un’iconografia, tra l’altro, che non dovrebbe lasciare ulteriori dubbi sulla matrice sciamanica di cotanto personaggio. 

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