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Sul guardare o non guardare The End of the Tour

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Una premessa prima dell'articolo vero e proprio: a me pare che l'argomento stia già diventando stantio, peggio ancora, che stia crescendo su se stesso come qualcosa a metà fra un'oziosa polemica estiva, un dibattito fra impallinati wallaciani, e un argomento cool su cui avere un'opinione. Ovviamente questa premessa è pretestuosa, giacché, nello smarcarmi dal "dibattito" in questione scrivendo e pubblicando un articolo esattamente sul dibattito in questione, ecco che 1) mi butto a pesce nell'oziosa polemica estiva, 2) mi rivelo da fanboy wallaciano, e 3) butto sul piatto la mia opinione sullo hot topic del momento. Ma tant'è.

Quando ormai più di un anno fa sgattaiolò online la foto di un evidentemente fuori-posto Jason Segel nei panni di David Foster Wallace 34enne e reduce dalla composizione/pubblicazione di Infinite Jest, la reazione di quella parte della rete che si accumula fra mailing-list e archivi e si professa custode del verbo wallaciano reagì com'era prevedibile che reagisse: con disappunto e indignazione. Perché — lo si sa tutti — Jason Segel non era in realtà Jason Segel ormai da un pezzo, ma era Marshall Eriksen, ovvero Marshmallow, ovvero Big Fudge (the biggest), ovvero il goffo e adorabile avvocato sasquatch, marito di Lily Aldrin e migliore amico di Ted Mosby (sex-architect) in How I Met Your Mother. E dunque: com'era possibile affidare a Marshall Erik Jason Segel il compito di ritrarre non altri che Saint Dave, David Foster Wallace, post-icona post-postmoderna, anima in pena letteraria, James Joyce degli anni di adesso, erede di DeLillo e Pynchon, suicida per depressione e dipendenza, scrittore di crociere e aragoste, autore di quelle 577.608 parole, 1079 pagine e 200 note che formano Infinite Jest?

 Sul guardare o non guardare The End of the Tour

Un passo indietro, ovvero: di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di The End of the Tour, che è un film che uscirà negli Stati Uniti a fine luglio, e che è tratto dal libro Although of Course You End Up Becoming Yourself: A Road Trip With David Foster Wallace di David Lipsky (tradotto qui da noi dalla buona gente di Minimum Fax con il titolo vagamente self-help di Come diventare se stessi: David Foster Wallace si racconta). Il film, diretto da James Ponsoldt (habitué del Sundance Film Festival), mette in scena un roadtrip di cinque giorni fatto da Wallace e David Lipsky quando il primo stava evolvendo rapidamente a caso letterario nazionale dopo la pubblicazione di IJ, mentre il secondo (interpretato dal sempre vagamente irritante Jesse Eisenberg) lo seguiva adorante nel tentativo di scriverne un profilo per Rolling Stone e carpirne il segreto per raggiungere il pantheon letterario. Semplificando tanto il libro che il film, The End of the Tour parla della difficoltà di venire a patti con se stessi dopo un successo o un insuccesso, e del costante timore di sentirsi una frode, un inganno, un buffone sul punto d'essere smascherato.

E dunque qual è il punto della questione? Perché stanno fioccando sull'internet recensioni amare e aggressive, prese di posizione oltranziste (del tipo "Io non guarderò mai e poi mai The End of the Tour") e difese della pellicola in punta di fioretto e wordpress? Com'è che fra wallaciani (hardcore e non) ci si sta scannando nel prender posizione riguardo a un film che alla fine deve ancora uscire, e che — tutto sommato — stando al trailer uscito qualche settimana fa, e alle reazioni di pubblico e critica in occasione dell'ultimo Sundance film Festival, non sembra poi così malvagio? (trallallàltro aiuta non poco la canzonetta molto orecchiabile dei R.E.M. di sottofondo, per quanto lo sanno anche i sassi che DFW ascoltava Alanis Morissette.)

Ora, a rischio di dire una grande ovvietà, io penso che questa cosa dell'essere inquieti nel vedere Jason Segel interpretare DFW con tanto del corollario di manierismi ansiogeni eisenbergiani stia a nascondere una questione che è allo stesso tempo più ovvia, più prevedibile e più profonda. Come mi è capitato di scrivere in altre occasioni, l'opera di Wallace occupa un posto preponderante nel mio cuore di sbarbo/lettore, una posizione, in un certo senso, di intimità. Non che io possa annoverare fra le mie esperienze personali molto di ciò di cui parla DFW nelle sue opere di narrativa e saggistica, ma, se davvero la letteratura è "un antidoto contro la solitudine", allora i libri di DFW hanno segnato in maniera rilevante la mia esperienza dell'essere solo, e dell'avere a che fare con me stesso (con le ambizioni, aspettative, timori e velleità) quando mi trovo da solo. E dunque mi fa perlomeno strano vedere Wallace sul grande (gigante) schermo del cinema holliwoodiano, perché è come se una piccola parte di me lettore venisse esposta alla pubblica piazza, locandinata, platinata, dollarizzata, monetizzata, volgarizzata, venduta tramite la plastificazione dell'autore che la incarna.

Ma al di là delle mie personali inquietudini, mi sembra di intuire come la questione della bontà di The End of the Tour, della rappresentazione/falsificazione di DFW in un film d'alta tiratura, e di quella che è in fine la reificazione becera di romanzi e di autori vada a scalfire la "sacralità" (chiedo perdono per il termine drammatico) del libro e della Letteratura con la L maiuscola. E se viene meno questa particolare forma di dignità dei libri, ne escono indeboliti e volgarizzati anche quei sentimenti e quelle emozioni che noi lettori traiamo dai libri e dai nostri autori, ovvero di ciò che ci attrae in primo luogo alla lettura. Insomma, è un po' come se quel mixtape che mettemmo insieme a 19 anni per il nostro primo amore post-liceale venisse masterizzato e rivenduto a nostra insaputa come allegato alle confezioni dei Baci Perugina a San Valentino, per dire. Sarebbe strano — niente di drammatico, per carità — ma comunque un po' avvilente.

E dunque, tornando al tema dell'articolo (dal quale ho preso una lontanissima tangente ormai diverse righe addietro), non penso sia il caso di stare a girarci intorno: è ovvio che guarderò il film di Ponsoldt, che cercherò di guardarlo il prima possibile, e più volte possibile. So già che diventerà il Titanic dei miei 30 anni, un po' come E morì con un felafel in mano lo fu dei miei 25. Poco male. So che mi ritroverò a fare l'hipster involontario vantando la mia passione per DFW prima e a prescindere dal film, e che magari fingerò moderato e smorto entusiasmo davanti ai miei amici, per poi finire ad adorare segretamente sia Segel che Eisenberg. Anche qui, poco male. Alla fine, una cosa è importante: se tramite The End of the Tour qualcun altro si aggiungerà alla schiera dei wallaciani, e qualcun altro troverò con cui condividere la mia ossessione per DFW, allora saremo tutti un po' meno soli e un po' più felici, e questo alla fine è ciò che voleva fare DFW coi suoi libri.

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