E anche questa benedetta prima puntata di Masterpiece è arrivata. Se ne è parlato per mesi, abbiamo tutti discusso su quanto fosse più o meno opportuno portare la scrittura in televisione in formato talent show, ma alla fine l'importante era vedere come era fatto questo Masterpiece. Per questo dico finalmente, perché altrimenti si continuerebbe a ricamare in astratto una discussione dove manca la cosa fondamentale, ovvero l'argomento di riferimento, e si finirebbe come con gli ebook, a sprecare un anno parlando di quanto è buono l'odore della carta o di quanto puzzano i libri. Masterpiece ha esordito ieri in seconda serata su Rai Tre, dopo Fazio. In attesa dei dati di ascolto, si registra un gran movimento su Twitter, con la solita cronaca istantanea imbevuta di ironia.
Intanto è bene che il sottoscritto dica subito le cose come stanno: a me la prima puntata di Masterpiece non è dispiaciuta. Avevo una gran paura riguardo al formato, all'adattamento televisivo. Il problema fondamentale da aggirare è la mancata disponibilità della materia prima da parte dei telespettatori, vale a dire l'impossibilità per chi segue di disporre dei romanzi di cui si parla. A ciò si tenta di sopperire con la prova a cui le due coppie di finalisti di serata vengono sottoposte, cioè scrivere un racconto in diretta, in trenta minuti, riguardo a un'uscita (che, ahimè, fa un po' esterna di Uomini e Donne) che dovrebbe servire a stuzzicarne un po' la fantasia degli aspiranti scrittori. La centralità, però, è tutta sulle biografie di quest'ultimi, ed è qui che gli utenti di Twitter hanno trovato di che scrivere e lamentarsi. Chi ha parlato di casi umani, chi di freak, il succo è che dall'ex-galeotto che sbarca il lunario giocando a carte all'ex-anoressica, passando per l'operaia che detesta la fabbrica, il ragazzotto col nome da donna che dice di aver avuto una vita peggio di John Fante, il tale con due ricoveri in ospedali psichiatrici e l'eroe della masturbazione, la vita dell'autore è un argomento di primo piano, sia per i giudici, sia per i telespettatori. Ma, oserei dire, si tratta di un dato abbastanza scontato, dal momento che la tanto odiata "spettacolarizzazione televisiva" su questo si basa: sulle facce.
Non disponendo dei romanzi, quindi, si cerca di insistere molto sui legami della biografia degli autori con ciò che hanno scritto, ma questo a mio parere può rivelarsi un limite vistoso. Impantanarsi nella ricerca esclusiva delle corrispondenze autobiografiche all'interno delle opere, oltre a essere un dibattito vecchio e stravecchio, nella sua forma più volgarizzata finisce per diventare una roba per impiccioni voyeuristi, suggerendo a chi guarda che la scrittura è principalmente trasmissione su carta delle proprie esperienze personali (lo è in buona parte, ma non pedissequamente), con risultati del tipo: il galeotto può e deve scrivere solo di prigione, l'operaia può e deve scrivere solo di fabbrica, l'anoressica può e deve scrivere solo di anoressia. La prova della "esterna", forse, dimostrava il tentativo di decontestualizzare gli aspiranti autori, per vedere come se la cavavano con temi al di fuori della loro esperienza-competenza, ma il risulato è stato più che deludente.
Più efficace, invece, l'Elevator Pitch, vale a dire i cinquantanove secondi trascorsi in ascensore con cui i due finalisti della serata hanno dovuto convincere Elisabetta Sgarbi che il loro romanzo meritava di essere pubblicato. Ecco, spunti come questo, insieme ai commenti più interessanti dei giudici riguardo ad alcune prove (degna di nota, ad esempio, l'indicazione fatta alla finalista Romina Questa sul suo fantasy, dove la parte giudicata più interessante era quella dedicata alla fabbrica, anziché quella prettamente fantasy), mi hanno fatto riflettere su una cosa. Malgrado la tanta ironia, che tra l'altro in qualche caso tradisce il malcelato livore dei tanti altri aspiranti scrittori che o non sono stati presi a Masterpiece o schifano tutti quelli che vi partecipano (per invidia, per ideologia o per delirio di onnipotenza), questo programma può rivelarsi una visione molto utile proprio per gli esordienti, perché permette ai più ricettivi e umili di loro di porsi domande del tipo: se io fossi in ascensore con Elisabetta Sgarbi, che direi per convincerla a leggere il mio romanzo? Ci si può poi interrogare sulle proprie capacità di difendere ciò che si è scritto davanti a un esperto che lo ha letto ma non lo ha apprezzato, o si può immaginare come affrontare la prova del racconto live in trenta minuti, evitando figure come quella di Marta Zanni che, con il suo «scrivere è come fare la pipì, devo farlo da sola» ha fatto mettere le mani nei capelli un po' a tutti.
Limiti ce ne sono, principalmente l'insistenza eccessiva riservata al fattore biografico e, ma questo è un limite strutturale, l'assenza dei romanzi, anche se in sostanza ciò riproduce la condizione dei lettori in libreria, che prendono in mano un libro di cui riescono a leggere giusto la quarta, un paio di pagine per vedere se lo stile e il ritmo superano il primissimo impatto, e la nota biografica dell'autore, meglio ancora se provvista di fotografia. Questo, in sostanza, è il grande pedaggio che la scrittura paga alla televisione e che dà ragione a chi parla di casi umani. Interessante, invece, tutto ciò che mostra come un esordiente viene sottoposto al giudizio sulla base di ciò che scrive e le prove a cui può sottoporsi per difendere se stesso e la propria opera. Anche in questo caso, però, delle discussioni tra i giudici non vengono mostrate che le fasi terminali, dato che, avendo letto tutti i testi e avendo selezionato i migliori da portare in studio, essi si sono già verosimilmente confrontati nello specifico, fogli alla mano, lontano dai telespettatori.
E ora un doveroso commento sui giudici, oggetti essi stessi di un bel po' di cinguettii. Ovviamente i paragoni con altri talent show, da X-Factor a Italia's got talent, sono fioccati. Andrea De Carlo ha avuto la parte del giudice cattivo, un misto tra Rudi Zerbi e Joe Bastianich, mentre Giancarlo De Cataldo, che ha riscosso un certo successo, è stato associato a Morgan o a Elio. Più passionale Taye Selasi, un po' Simona Ventura e un po' Gerry Scotti, se proprio vogliamo continuare il gioco del paragone con le altre celebri giurie. I loro commenti, in ogni caso, sono risultati in linea con il format, perciò grande attenzione e riferimento alla vita privata degli autori, con qualche spruzzata di critica su lingua e stile. Più immediato, invece, il gemello del "coach" Massimo Coppola, ricondotto a Simone Annicchiarico proprio in virtù del suo ruolo di raccordo tra autori e giuria, oltre che di animatore dietro le quinte. Insomma, l'esordio di Masterpiece è riuscito a dribblare l'esito potenzialmente disastroso che le premesse potevano giustamente mettere in conto. Seppur ancora un po' legnosetto e sorretto dal modello degli altri talent show, il programma poteva in sostanza andare peggio e dimostrarsi un'immensa schifezza. Così non è stato, sempre a mio modo di vedere, nonostante le debolezze e i limiti. Se, al termine della prima puntata, bisogna promuovere o bocciare per approdare o non approdare alla seconda puntata, direi che Masterpiece può accedere alla sufficienza, in attesa di conferme o smentite da accertarsi lungo il percorso. Senz'altro la parte che ha messo d'accordo tutti è stata quella dei titoli di coda, con una carrellata di videomessaggi da parte di autori celebri che dispensano consigli agli scrittori esordienti. In fondo è una regola valida sempre e per qualunque mestiere: l'apprendista è bene che ascolti l'esperto. Poi, se ha davvero talento, ha tutto il tempo per superarlo.
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