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Re-Kiddo: festeggiare il #RLSDay da bambini!

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Oggi non parliamo di un pirata, ma di un inventore di pirati: Robert Louis Stevenson, lo scrittore che si è inventato gente come Long John Silver. Perché ne parliamo? Perché ieri era il suo compleanno e in tutto il mondo della rete si è celebrato (e si continua a celebrare) il #RLSDay.

Leggetevi questo pezzo su Hey Kiddo, scoprirete un sacco di cose che non sapevate, comprese di baffi da scaricare e foto rarissime!

http://heykiddo.it/storie/quasi-teen/il-pirata-del-mese/robert-louis-stevenson-rlsday/

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La storia del dottor Jekyll, di mister Hyde e del Negroni (sì, il cocktail)

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Stevenson

Premessa: parlo per me ok? Poi vediamo se qualcuno si riconosce in queste parole.

Ci sono libri che sono così tanto libri, che ci appartengono fin dalla nascita. Libri che esistono, dentro di noi, da sempre; anche se non li abbiamo mai letti. Esistono, dentro di noi, come se fossero un istinto o un riflesso incondizionato. Proviamo a fare qualche esempio:

Moby Dick. Ecco Moby Dick non lo avete mai letto, forse quando eravate piccolipiccoli vi sarete imbattutti in qualche edizione illustrata ma l'edizione integrale di Melville sono certo che non l'abbiate mai letta. Eppure noi tutti conosciamo la storia della balena bianca.

E Frankenstein di Mary Shelley? Dai, non l'avete mai letto. Si, certo conoscerete a memoria il Frankenstein di Mel Brooks, che è ugualmente un capolavoro, ma è un'altra cosa, no?

Il nome della rosa? Di sicuro avrete visto il film con quel pezzo d'uomo di James Bond, ma il libro…

Insomma esistono libri, che sono così famosi, ma così famosi, che spesso li snobbiamo, perché pensiamo di conoscere già la storia, i personaggi e il finale e quindi ci facciamo l'idea che non valga più la pena leggerli. E qui, cari miei, sta l'errore.

A me è capitata la stessa cosa con un libro, di cui avevo visto la riduzione cinematografica con il mitico Jerry Lewis, quindi mi ero convinto che non avessi bisogno di leggerlo. Invece l'altro giorno l'ho letto: meraviglia delle meraviglie. Che libro ragazzi, un capolavoro.

Il libretto in questione è:

Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Robert Louis Stevenson, 70 pg – 1 ora e 35 minuti

Lo strano caso del dottr Jekyll e di mr Hyde praticamente è la triste storia di un uomo che beveva. Ma la storia già la conoscete tutti, inutile quindi che ve la racconti, no?

LO STRANO CASO DEL DOTTOR JEKYLL E MISTER HYDE e1384373873126 La storia del dottor Jekyll, di mister Hyde e del Negroni (sì, il cocktail)

Il dottor Jekyll aveva una gran passione per i cocktail. Dai che ti dai, il buon vecchio Jekyll un bel giorno inventa un cocktail che è una bomba. Ecco il dottor Jekyll in quel momento si deve essere sentito come il conte Camillo Negroni, che una volta entrando al Caffè Casoni di Firenze deve aver detto: "sapete cosa c'è? che io mi sarei anche rotto le palle di bermi sempre il solito Americano, sai cosa ti dico Fosco? (che era il barman del Casoni) che adesso, in onore degli ultimi miei viaggi londinesi, al posto del seltz ci metti una bella spruzzatina di Gin. E quello che per il conte divenne il "solito" per tutti gli altri divenne  "un Americano alla moda del conte Negroni" (meraviglia)

Insomma il Dottor Jekyll è come se avesse inventato uno strepitoso Negroni, un cocktail prodigioso che ti mandava via di testa. Il problema però stava nel fatto che il dottore cominciò ad alzare un po' troppo il gomito e, bevi che ti bevi, il dottor Jekyll mi finì alcolizzato.

Il finale è molto triste, vi avviso… si rischiano le lacrime.

Quindi, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde in definitiva è un libro sul problema del "bere" e sulle sue rovinose conseguenze, che ogni ragazzo di buona famiglia dovrebbe leggere.

Composizione dell'Americano alla moda del conte Negroni:

  • 3 cl di gin
  • 3 cl di bitter Campari
  • 3 cl di vermut rosso dolce
  • Mezza fettina d'arancia

 

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Gli scrittori americani si censurano

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Sembra che la questione delle intercettazioni della NSA − National Security Agency − negli Stati Uniti e nel resto del mondo possa avere delle conseguenze non solo nella politica ma anche nel mondo della cultura. Alcuni scrittori americani, infatti, hanno deciso di auto-censurarsi. 

Secondo un rapporto del Pen American Center, un'organizzazione americana che si batte per la libertà d'espressione degli scrittori, il 73% degli autori dell'organizzazione si dicono preoccupati di quello che sta accadendo e il 28% di loro dichiara di aver cambiato il loro rapporto quotidiano con i social-media. Non censurano le loro opere, quindi, ma il loro pensiero sul mondo e il loro intervento in quanto intellettuali.  

Nonostante le percentuali di cui si parla non siano così importanti, è interessare notare che si potrebbe scatenare un dibattito sull'importanza degli scrittori come intellettuali e su quanto possa essere importante il loro giudizio continuo sul mondo e su quello che accade tutti i giorni. In pratica, quanto è necessaria la loro presenza quotidiana, ad esempio, su Twitter? 

Se si dovesse diffondere un simile atteggiamento potremmo immaginare gli scrittori rinchiusi nei loro studi a scrivere e a interpretare il mondo solo attraverso le loro opere. Certo, se la mettiamo in questi termini si potrebbe pensare che non sempre tutti i mali vengono per nuocere e che molti scrittori probabilmente farebbero meglio a scrivere di più e a twittare di meno. È ovvio che gli scrittori non parlano sempre a sproposito e molto spesso il loro intervento dà spessore al dibattito. Siamo sicuri però che l'auto-censura non possa far bene a Breat Easton Ellis? Se non siete convinti leggete qui

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Il futuro delle librerie indie, Amazon Source e altre riflessioni

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Gorilla

Si discute spesso del futuro delle librerie indipendenti al tempo in cui internet sembra volersi imporre come mercato unificato e unificante.  Le risposte sembrano non trovarsi, e le proposte appaiono talvolta più simili alle minacce.
In questi mesi in cui tante librerie indipendenti, da Nord a Sud, ci stanno lasciando – ne abbiamo parlato qualche tempo fa qui – questo problema diventa sempre più urgente.

Ancora una volta dare uno sguardo agli Stati Uniti potrebbe rappresentare uno spunto per riflettere su quanto sta accadendo a casa nostra.

Quando si parla di ebook store on line è impossibile non parlare di Amazon, infatti è quello che sto per fare: Amazon ha lanciato il progetto Source.

Offrire alle librerie indipendenti la possibilità di vendere i vari modelli del Kindle in cambio di alcuni vantaggi è, infatti, la proposta fatta da Amazon.

Le librerie aderenti al progetto Source potranno scegliere tra due opzioni: vendere gli e-reader e i tablet con un piccolo sconto, guadagnando quindi poco dalle vendite ma ricevendo il 10% del prezzo di ogni ebook comprato su quel dispositivo; oppure potrebbero vendere i Kindle con uno sconto maggiore, guadagnando di più nell'immediato, rinunciando però a qualunque percentuale sulla vendita degli ebook.

Una cosa simile l'ha già fatta la canadese Kobo, le librerie indipendenti possono vendere il Kobo ricavandone il 5%, in seguito guadagnano tra l'8 e il 18% sulla vendita degli ebook.

Questo genere di iniziative genera pareri contrastanti. I librai indipendenti sono generalmente ostili ad Amazon in particolare e alle vendite in digitale in genere, anche a causa di certi comportamenti che si stanno diffondendo relativi all'abitudine di acquistare on-line, come lo showrooming.

A quanto pare il progetto non sta riscuotendo un grande successo, per ora solo JJBooks ha accettato di inserirsi nel programma pilota.
Il primo ordine non comporterà alcun rischio per i negozianti al dettaglio, i prodotti invenduti verranno riacquistati da Amazion fino a sei mesi dopo il primo ordine, senza penali.

Secondo il Vice-Presidente Russ Grandinetti, questa iniziativa rappresenterà una svolta per i lettori che potranno acquistare libri digitali senza abbandonare le loro amate librerie indipendenti. I librai indipendenti non se la bevono però; a quanto pare, non pensano che entrare nel business di un colosso come Amazon possa aiutarli a risollevare le sorti della loro attività.

Il problema della chiusura delle librerie è sempre grave, e probabilmente non saranno due aziende come Amazon o Kobo a dare una mano ai librai.

Sicuramente, però, il futuro del libro non è più solo di carta, anche in Italia il mercato degli ebook sta crescendo; è giunto il momento di darsi da fare per trovare soluzioni intelligenti.
I librai indipendenti non devono temere il digitale anzi, farebbero meglio a sfruttarlo sia per attirare clienti, che non smetteranno mai di apprezzare il rapporto umano che si instaura con una persona che condivide con te la passione per la lettura, che per modernizzare il proprio sistema di vendite e fare spazio tra i loro espositori ai libri digitali.

Quella dell'ebook non è una sfida solo per gli editori, ma anche per i librai indie che dovranno mettere da parte la diffidenza e cercare nuove soluzioni.

 

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Unastoria | Gipi

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serestate

Gipi è di Pisa. Io anche.
Anzi, vi dirò di più, Gipi in uno dei suoi graphic novel parla del Cep, io al Cep ho fatto l’asilo.
Cep vuol dire Centro Edilizia Popolare e nel giardino dell’asilo di tanto in tanto trovavamo delle siringhe usate.
Non sapevo bene cosa significasse, ma mi dicevano di stare attenta e io ubbidivo.
In Appunti di una storia di guerra ad un certo punto si parla di un ragazzino che vive – appunto – al Cep e vede un uomo volare giù da una finestra del quinto piano. Il bambino non prova assolutamente nulla.
Una volta mi hanno raccontato di uno del Cep che lanciò suo padre dalla finestra. Sono convinta che si tratti della stessa storia.

gipicover Unastoria | GipiTrovare una tua esperienza, dei punti di riferimento, in una storia ti fa diventare molto più empatico con chi la racconta, e dopo tre pagine già mi sembra che Gipi abbia un sacco di cose da raccontarmi, cose che io posso capire. Poi mi rendo conto che non è solo perché sono di Pisa, ma per il suo punto di vista sulla vita, sul mondo.

Gipi parla spesso di sé nelle sue storie, delle sue fobie, delle sue insicurezze, della "paura della mano morta", come chiama lui la paura di non riuscire più a disegnare, una paura che sembra definitivamente sparita, ma, come dice lui, nulla lo è davvero. Dopo che hai letto due o tre storie, soprattutto quelle più personali come LMVDM, ti sembra di conoscerlo, che sia un tuo amico a cui avresti un sacco di cose da dire.

Da nemmeno un mese, in occasione di Lucca Comics, è uscito per Coconino Unastoria e se ne sta parlando tantissimo: oggi ho letto una trentina di articoli sul fumetto di cui almeno cinque erano nello specifico sull'autore. Ci sono le prossime tappe del suo tour, ma sopratutto questo video in cui Gipi mostra in diretta come fa una tavola. Cristo quanto è perfetto e sincero, ho pensato per ventisette minuti. Dice un sacco di parolacce e canta pure Renato Zero in pisano.trecento Unastoria | Gipi

Ma torniamo al graphic novel, l’ho letto una prima volta e appena ho finito ho avuto la necessità di rileggerlo, forse perché non avevo capito nulla, forse perché non mi bastava e avevo bisogno di riguardare un sacco di particolari.

Unastoria in realtà sono due storie: quella dello scrittore Silvano Landi, ex scrittore di successo che perde il senno, e quella del bisnonno che dalla trincea lotta per la sopravvivenza. Ma non è tanto la trama a colpire, quanto la capacità di Gipi di raccontare il malessere umano con delle immagini perfette ed evocative, il modo in cui riesce a trasmettere la mancanza di senso del mondo in un modo semplicissimo.

Le pause, l’equilibrio perfetto, la capacità che ha di togliere parole. Le storie si intrecciano, la tristezza pervade, le paure umane sono sviscerate e sembra che Gipi abbia una parola di pietà per tutti, pisani e non.

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John Lennon | Skywriting

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Ho appena chiuso Skywriting, il libro di John Lennon pubblicato da poco per la prima volta in Italia dai tipi de Il Saggiatore, e la prima cosa che mi viene da dire è: la droga fa male.
Questa è una frase buttata lì, con molta superficialità, ma che ho pensato davvero. Dietro c’è ovviamente molto di più, ed è bene partire dall’inizio, e spiegare cosa sia, questo libro, e da cosa nasca.

Skywriting e1384338289390 John Lennon | SkywritingSkywriting è il terzo libro scritto da Lennon, il conclusivo di quella trilogia che la Penguin avrebbe chiamato The Penguin John Lennon. Il primo, In His Own Write, fu pubblicato nel 1964, mentre il secondo, A Spaniard in the Works, nel 1965. Entrambi furono acclamati da critica e pubblico. Il primo, in particolar modo, divenne immediatamente un best-seller, con diverse ristampe in breve tempo. Il London Times Literary Supplement, si legge nella prefazione di Antonio Taormina, scriveva, al momento dell’uscita: “Merita l’attenzione di chiunque tema l’impoverimento della lingua inglese o dell’immaginazione britannica”. Tanto per chiarire.

Skywriting è una raccolta di racconti, poesie e disegni, riflessioni e pensieri del Beatle più amato, scritta tra il 1976 e il 1980, l’anno della sua morte.

La cosa che sorprende è la capacità di Lennon di sperimentare e sperimentarsi in ambiti narrativi diversi. I nostri sensi sono abituati a vederlo come cantautore e musicista, l’abbiamo apprezzato anche in alcuni film sui Beatles, qui ci sorprende con i suoi disegni e le sue parole.
I racconti sono pieni di giri di parole, immagini grottesche, sono racconti strani e a volte incomprensibili, figli dell’uso dell’LSD (per stessa ammissione di Lennon) e dell’influenza degli autori che amava particolarmente: Carrol e Joyce su tutti. 

Quando nella prefazione mi anticipavano gli echi della sua scrittura, i maestri dai quali aveva ricevuto “consigli” io ho pensato e forse anche detto a voce alta: “ma perché devi dirmi una cosa così?”. Mi sembrava prematuro e un’affermazione troppo forte, difficilmente condivisibile. Invece tra uno schizzo a matita di Yoko, un autoritratto e il disegno di alcune foche, quello che emerge è l’incredibile fantasia di Lennon, le sue visioni (chimiche, o meno) sognanti e parodiche, la sua capacità narrativa, il suo stile asciutto e diretto; sembra di essere nel mondo di Alice, ma con molti più acidi in corpo.

Vale il libro anche solo la prima parte, venti pagine di “confessioni”, La ballata di Yoko e John, pagine di pensieri, quasi un memoriale sulla sua vita e sul suo allontanamento dalle scene («Se non “produrrò” nient’altro da offrire al consumo del pubblico se non il “silenzio” così sia. Amen»), sui Beatles («A posteriori, i Beatles furono una parte della mia vita non più importante di qualunque altra - e meno di alcune»), su come si sentiva gli ultimi tempi del gruppo («La mia vita con i Beatles era diventata una trappola. Un nastro che girava a vuoto. […] Devo dire che mi sentii in colpa per averglielo comunicato con un preavviso così breve. Dopotutto, io avevo Yoko, mentre loro avevano solo gli uni gli altri»), la loro lotta per il pacifismo, la battaglia contro l’amministrazione Nixon. Venti pagine fitte, a tratti arroganti, sicuramente di una verità palpabile con gli occhi, dilagante, affatto banale anche dopo 35 anni.  

Lennon scrive questo libro negli ultimi anni della sua vita. Scrive infatti La ballata di John e Yoko a 38 anni, un’età matura per fare un bilancio, per tirare la riga prima di fare il conto. Lo fa in tempo, non sapendo quello che lo aspetta l’8 dicembre 1980 e forse per questo, col senno di poi, acquistano ancora più valore. 

Passatemi il pessimo paragone, John Lennon sembra essere una ricetta di un piatto regionale. Ognuno prende da lui quello che vuole, ne vede dei lati particolari, li esalta. Poi ecco che salta fuori un altro ingrediente, una variante semi-sconosciuta, la ricetta è da rivedere, ma non si rovina. Si arricchisce senza perdere la sua originalità. 

Ecco, a me sembra sia successo così, scoprendo John Lennon scrittore e disegnatore. Ora ci sono dei post-it sull’immagine che avevo di lui, che lo rendono più specifico, senza cambiarne l’autentica sostanza.

John Lennon, Skywriting, Il Saggiatore, 2013.

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Giulio Einaudi Editore: ottant’anni che cambiano un Paese

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Ottant'anni fa nasceva la Giulio Einaudi Editore. Il «Laboratorio Einaudi», come è chiamata da Gian Carlo Ferretti, o più semplicemente e comunemente la Einaudi. Fu fondata nel novembre del 1933 da un gruppo di giovani amici che, di lì a qualche decennio, avrebbero animato una delle più importanti e sorprendenti esperienze editoriali del nostro Paese, destinata a divenire l'emblema dell'editoria di cultura e della cultura dell'editoria. 

Già, ma come si fa a parlare della Einaudi? Chi scrive crede che aggiungere troppe parole e troppi ricami sia superfluo, che non dica molto di più di quello che la stessa Einaudi saprebbe dire di se stessa. Perché la Einaudi è anzitutto i suoi nomi. Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Carlo Muscetta, Felice Balbo, Massimo Mila, Norberto Bobbio, Franco Venturini, Natalia Ginzburg, Elio Vittorini, Antonio Giolitti, Italo Calvino, Roberto Cerati, Giulio Bollati, Elsa Morante, Beppe Fenoglio, Carlo Cassola, Lalla Romano, Gianfranco Contini, Ernesto Ferrero, Eugenio Montale, Fernanda Pivano, Gianni Rodari, Ernesto De Martino, Carlo Levi, Bruno Monari, Albe Steiner, Luciano Foà, Daniele Ponchiroli, Renato Solmi, Oreste Molina, Ruggiero Romano, Primo Levi, Max Huber, Anna Maria Ortese, Paolo Boringhieri, Cesare Cases, Franco Fortini, Guido Davico Bonino, Alberto Asor Rosa, Mario Rigoni Stern, Leonardo Sciascia, Corrado Vivanti, Carlo Ginzburg, Severino Cesari, Paolo Repetti. E Francis Scott Fitzgerarld, Ernest Hemingway, Thomas Mann, la prima edizione italiana della Recherche di Marcel Proust, Jean-Paul Sartre, Raymond Queneau, Sherwood Anderson, Walter Benjamin, Simone de Beauvoir, Ian McEwan, Roland Barthes, Jorge Louis Borges, Don De Lillo, José Saramago, Haruki Murakami, Alice Munro. La Einaudi è, poi, le sue collane e la sua «collanologia», con I Coralli,Supercoralli, I Gettoni, la Piccola Biblioteca Einaudi, i Centopagine, Gli Struzzi, gli Scrittori tradotti da scrittori, le Grandi Opere, L'Arcipelago Einaudi, Stile Libero. 

Il ventenne Giulio Einaudi, il «divo» Giulio, seppe radunare attorno a sé i migliori esponenti di un'intera generazione di intellettuali che affrontò gli anni Trenta con un misto di entusiasmo giovanile e ardore culturale. Oggi parleremmo di start-up, a quel tempo si chiamavano ideali. L'obiettivo era quello di sprovincializzare l'Italia, intrecciando i sogni alla realtà e alla politica, passando per gli arresti per antifascismo nel '35 del gruppo di Giustizia e Libertà, superando la guerra e le morti tragiche di Leone Ginzburg e Giaime Pintor prima, di Cesare Pavese poi. Nel mezzo i libri, sempre i libri, tra i migliori che si pubblicassero allora nel nostro Paese, arrivando fino a oggi senza mancare nessuno degli appuntamenti con la storia, dal 1956 al 1968, dal 1977 al 1983, mutando pelle, senza cambiare l'essenza. 

Tutto ciò rende la Einaudi qualcosa che va ben oltre una semplice casa editrice o un'azienda.In ottant'anni ha preso forma non solo un modo di pubblicare i libri, ma un modo di pensarli. È einaudiano un autore, un consulente. È einaudiana un'opera, è einaudiana una copertina, è einaudiano un titolo. Sono einaudiani i decenni d'oro dell'editoria e della cultura italiana. C'è qualcosa che sfugge alla percezione comune se Ernesto Ferrero sente di poter scrivere che «lasciare via Biancamano era come fare l'esperienza di quello che succede dopo la propria morte». C'è, perciò, qualcosa che è semplicemente al di là. Dentro ma allo stesso tempo oltre la storia, come può esserlo un libro o un mito. Proprio per questo le parole diventano irrimediabilmente troppe e ognuna di esse finisce per apparire insignicante e inappropriata, destinata a perdersi nel bianco. Ottant'anni di Einaudi sono ottant'anni di libri e di cultura che, nonostante i numeri e le percentuali da cui non riusciamo proprio a sollevare lo sguardo, hanno contribuito a rendere l'Italia un Paese migliore, insegnando a chi ha voluto e saputo fermarsi a leggere e ad ascoltare che soltanto lo spirito digerisce le cose più dure, e oggi, come ieri, possiamo dire che questo spirito è stato ed è indiscutibilmente einaudiano.  

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Giudicare gli eBook dalle cover

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Diciamocelo: spesso scegliamo i libri anche per la copertina, proprio come scegliamo il fidanzato anche per la sua facciotta da chiurlo. I nostri eReader, al contrario, sono tutti elegantissimamente monocromatici: che siano total black come il Kindle, pastello metallizzato (e trapuntato…) come il Kobo, bianco-nuvola come il Nook… sempre monocromatici sono. Ma noi (quasi) tutti, a parte la Dell'Amore, non andiamo in giro sempre vestiti di nero, come non leggiamo (solo) libri con copertine vuote e grigiastre (come tradurreste plain?). Ecco perché può accadere che la monocromaticità dei nostri eReader ci possa stancare un po', alla lunga. All'ufficio marketing Amazon avranno pensato una cosa simile il giorno in cui l'acqua calda è stata scoperta e sono nate skin e cover personalizzabili per Kindle.

Sì, certamente le cover colorate c'erano anche prima, ma si stratta di pattern stampati in serie, uguali per te, per me, per troppi altri lettori. Che noi invece si è tutti diversi e ci piace metterlo bene in chiaro. Non sempre la boria del quotidiano ci concede abbastanza forza immaginativa da essere in grado di superare l'ostacolo del grigiume. Cercare il colore, il prodotto sartoriale, non è un vezzo infantile di chi è superficiale, ma un bisogno umano. Dai, ammettiamolo.

Comunque l'idea non è nulla di nuovo, anzi, vi starete forse chiedendo come mai non fosse già stata messa in pratica: cover e skin personalizzabili per eReader Kindle. In pratica, grazie ad Amazon possiamo mettere le nostre immagini preferite, fotografie ed imbarazzanti faccione sulle cover in pelle di tablet ed eReader Kindle. Questo, Amazon specifica, allo stesso prezzo di una normalissima cover in pelle. E non solo: se ancora il nostro eReader fosse troppo anonimo, ecco che possiamo appiccicare anche una skin all'altrimenti serioso device, sia sul retro che attorno allo schermo.

In redazione, finalmente, potremo tutti avere la foto di Tamburini e Sesta, a Marina di Ravenna, che si baciano timidamente, sul retro dei nostri Kindle. Un sogno che si avvera.

È vero che Natale è in arrivo e che questa sarebbe una grande idea regalo, ma il punto qui non è la marchetta: è invogliarvi a guardare oltre i 16 toni di grigio dell'e-Ink, portarvi a vedere i colori degli eBook. Non vi curate particolarmente di Amazon? Non c'è problema: di cover colorate ne trovate di carine in giro. Se però volete qualcosa di personale, c'è chi ha pensato anche a questo ed ha messo a disposizione sull'Internet dei tutorial per creare cover fai da te. Che è anche un'idea ecologica. Ma poi scusate, come resistere alla tentazione di passarsi una mattinata a fare Art Attak?

 Che uno dice ok, grande, è una sciocchezza indicibile e siamo sicuri di volerla annoverare tra le degne di considerazione? Abbastanza, perché a volte basta una nota di colore, un tocco personale per rendere tutto più vivace. Non sempre una pagina intrisa di parole basta a risvegliare la nostra curiosità: spesso siamo appiattiti dalla vita di tutti i giorni, ci serve uno stimolo in più per farci avvicinare a ciò che già ci interessa, per farci sentire come fossimo a casa, avvolti nel piumone, a leggere mentre fuori piove.

Non rimanere intrappolati nella ragnatela del tran-tran quotidiano è un'utopia di quelle che le puoi leggere solo in un libro. Di leggere il giornale non è il caso, che c'è solo da intristirsi. E comunque non siamo sempre dell'umore adatto per notizie che ci facciano riflettere, approfondimenti culturalmente impegnati che amplino le nostre sinapsi. No, date queste premesse capiamo bene che vorreste leggere qualcosa di divertente, che faccia ridere, addirittura sciocco (un po' idiota?). Vogliamo tutti riempire la quotidianità con quelle cavolate sciocche ed inutili che ci rallegrino la giornata. Tipo le cover.

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Un primo romanzo da 2 milioni di dollari

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(Photocredit: Garth Risk Hallberg)

Non si può certo accusare la Alfred A. Knopf di non investire abbastanza sui suoi autori, nemmeno se questi sono giovani new entry agli albori della loro carriera da romanzieri. La casa editrice newyorkese ha infatti dato vita a un vero e proprio caso editoriale che da giorni fa discutere critici e testate giornalistiche, accaparrandosi dopo un'aspra lotta tra colossi un debutto che le è costato la generosa cifra di due milioni di dollari: i diritti di City on Fire, romanzo d'esordio ancora in progress di Garth Risk Hallberg. 
Un nome che potrebbe suonare familiare agli amanti della letteratura, poiché l'autore in questione a ben vedere non è poi questo illustre sconosciuto: su Finzioni lo abbiamo già incontrato nella veste di collaboratore del Publishers Weekly, che si affianca a quella più nota di penna del New York Times Book Review.

Preceduto nel 2007 dalla pubblicazione del volume illustrato A Field Guide to the North American Family, City on Fire è un futuro best seller di cui ci è concesso conoscere poco, ad eccezione della notevole lunghezza di novecento pagine.
Consapevole degli effetti commerciali di una comprovata strategia di suspense, Hallberg ha infatti rifiutato di fornire la minima notizia sul frutto del suo lavoro prima di averlo ufficialmente ultimato, tacendone persino la data di pubblicazione. Nell'attesa ha però lasciato trapelare tramite il suo agente alcune indiscrezioni: scopriamo così che la storia, scandita in sette parti, è ambientata nella New York degli anni Settanta e ha qualcosa a che vedere con un omicidio al Central Park e un protagonista seminudo illegalmente in fuga su un aereo. 

E se anche queste poche informazioni non sembrano in alcun modo giustificare l'onerosa somma, ciò che realmente accende la curiosità sono le dichiarazioni entusiaste di coloro che hanno avuto il privilegio di tastare con mano (e con occhi) il valore del libro: quegli editori talmente assorbiti dalla lettura da aver divorato il manoscritto e che, volendo azzardare paragoni, non hanno esitato a tirare in ballo i grandi nomi di Michael Chabon e Thomas Pynchon.
Se si considera poi che Scott Rudin, produttore cinematografico di grande fama (per intenderci, colui che nel 2007 ha indirettamente guadagnato due Oscar con Non è un paese per vecchi e Il Petroliere) aveva già acquistato i diritti oltre un mese prima che il romanzo trovasse un editore, esaltandone le idee politiche e la struttura d'insieme già di per sé adatta al grande schermo, il beneficio del dubbio sembra più che dovuto. 

Per saziare la curiosità dei più impazienti Vulture ha raccolto tutte le notizie attualmente disponibili su City on Fire, corredandole di una comoda e sintetica lista di ventotto cose che dovremmo sapere sull'autore e sul suo lavoro. Pare dunque che Hallberg abbia letto almeno sei volte Harry Potter e l'Ordine della Fenice, che stesse seguendo The Wire durante la stesura del romanzo e che avesse bene in mente Casa desolata di Dickens, che sia convinto che la raccolta L'angelo Esmeralda di DeLillo meritasse il Pulitzer nel 2012, ma che non apprezzi il minimalismo né i social network.

Insomma, City on Fire è già un caso letterario prima ancora di poter essere materialmente definito tale. E non a caso in Italia andrà ad arricchire il catalogo della Mondadori che, come la collega americana prima di lei, non si è lasciata sfuggire l'occasione. Se quindi non possiamo certo tacciare i suoi editori di scarsa fiducia, anche noi siamo curiosi di conoscere il prodotto di chi, nuovo Pynchon o meno, Franzen, Wallace, EugenidesBolaño parrebbe conoscerli bene; di chi dovrebbe sapere "di cosa parliamo quando parliamo di letteratura".

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Ultimo viene il corvo

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Bentornati a Guida al Finzionato, oggi si gioca sulla Riviera Ligure con ragazzi, adolescenti e animali: le pagelle de Ultimo viene il corvo, la squadra guidata da Calvino.

Libereso, voto: 7,5. Con un nome in esperanto che significa libertà, questo non può che essere il faro di tutta la squadra. Porta i capelli lunghi, i calzoni corti e ha un sorriso che stende le donne sugli spalti. Fa il giardiniere e conosce tutti i segreti del campo, tutti i fili d'erba e tutti gli animaletti che popolano il manto erboso. Corre come un matto, ma parte della squadra non lo segue. Pare venga dal futuro.

Maria-nunziata, voto: 5,5. Dovrebbe semplicemente seguire le parole di Libereso e lasciarsi trascinare in un mondo fatto di azioni e scoperte splendide. Invece tituba, riflette troppo e arriva sempre con un poco di ritardo. Quando si decide a prendere parte al gioco è troppo tardi e rimane sola con il ricordo di quello che avrebbe potuto essere.

Gian Maria detto Mariassa, voto: 7. Eclettico del gruppo, il più grintoso, quello che non si tira mai indietro; ha trovate geniali e riesce a essere il leader della squadra, quello che tutti seguirebbero in capo al mondo. Primo a buttarsi in tutte le occasioni che la giornata gli offre, è un rivoluzionario nell'anima. Osservatore attento degli avversari, ne carpisce i segreti e studia strategie di contrattacco sempre vincenti.

Il gatto, voto: 8. Grigio e magro. Di pelo corto e tutto tendini. L'attaccante ideale, sguscia via dallo sguardo degli avversari, riappare qualche metro più in là, si smarca facilmente dal pressing e getta rapide zampate che intimidiscono i difensori più arcigni. Pare scappare, ma il suo piano è preciso, portare il nemico allo sfinimento, portarlo dinanzi alla nuda realtà del mondo e mettere in condizione i compagni di sferrare il colpo di grazia.

Il corvo, voto: 8,5. Da ultimo, appunto, viene il corvo. Come un'allucinazione collettiva il corvo arriva alto e lento, fa grandi cerchi sul campo, intimorisce gli avversari che increduli lo osservano senza capire. Lui continua con la sua dolce e lenta danza circolare. Si abbassa, sempre di più, fino a sfiorare le teste, i capelli, le giubbe. Nero e cupo li osserva con i suoi occhi severi. I compagni ne approfittano e colpiscono senza pietà.

Italo Calvino, voto: 9,5. Attraverso tre linee di gioco fondamentali crea trame e azioni spettacolari: la Resistenza, sprigiona avventura di suspense e di terrore; il racconto picaresco, giocate colorate e elementari; il gioco della memoria, ragazzi e animali che si muovono leggeri nella Riviera. Le tre linee si intrecciano, si allontanano, si riavvicinano per rimanere sempre e comunque congiunte e compatte.

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Random House e Pinterest: la partnership

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Il 14 novembre, con questo comunicato stampa, Random House LLC US, divisione di Penguin Random House, ha annunciato una partnership con Pinterest. L'accordo prevede l'utilizzo, da parte di Random House, del primo set di API (application programming interface) messe a disposizione da Pinterest per aiutare gli utenti ad identificare i contenuti più popolari.

Forse in tanti se lo erano domandati: qual è effettivamente il modello di business di Pinterest e quale potrebbe essere un suo utilizzo commerciale che aiuti i fondatori a ricavarci qualcosa? Ebbene, ecco la risposta, con l'annunciato lancio della prima API per sviluppatori. Essa permette ai siti di terze parti di includere pins da Pinterest, e rende più semplice postare contenuti sul social network stesso. I primi partners sono grandi marchi e rivenditori, tra essi spiccano Walmart, Nestlé, Disney e, appunto, Random House. Il loro scopo, nell'adozione di questa soluzione, è doppio: da una parte c'è la possibilità di aprire un nuovo canale pubblicitario, stimolando il passaparola sull'ormai diffusissimo social network delle immagini, dall'altra, c'è l'opportunità di migliorare i propri sforzi di marketing avendo a disposizione dati che indicano in modo chiaro le preferenze degli utenti. 

Le API che verranno fornite ai partners saranno sempre di più col tempo. Infatti, di volta in volta verranno introdotte estensioni con finalità diverse, per permettere, ad esempio, di mettere in rilievo i Top Pins, fare ricerche sul dominio con suggerimenti a quelle effettuate più spesso, consigliare contenuti sulla base di quelli verso i quali gli utenti hanno già espresso una preferenza. Ecco quello che succederà sul sito di Random House, dunque. 

Cercate un buon libro da leggere, mentre vi godete il calduccio del camino quest'inverno? Andate su Randomhouse.com per vedere i libri preferiti dai Pinners.

Parola di Jason Costa, Head of Developer Relations di Pinterest, che si è espresso così sul blog ufficiale. L'integrazione delle API di Pinterest al sito di Random House fornirà un'esperienza di navigazione più ricca, sia per gli iscritti a Pinterest che per i non iscritti. I visitatori di Randomhouse.com potranno osservare le relative attività di Pinterest e salvare direttamente i loro item preferiti su una Pinterest board. Per ora, il sito sarà potenziato con una bacheca di Pinterest Favorites, ovvero i pin più popolari risalenti a periodi diversi, e link attivi a Pinterest che garantiscono l'accesso a boards dedicate. Per ora solo Randomhouse.com è stato esteso con le API di Pinterest, ma presto la modifica sarà allargata a tutti i siti della famiglia Penguin Random House.

Random House, attraverso Christine McNamara, VP & Director of Partnerships, ha dichiarato:

Siamo entusiasti della partnership con Pinterest e della possibilità di dare rilevanza sul nostro sito a ciò che diventa trend grazie alla community formata dalle decine di milioni di utenti Pinterest, molti dei quali sono avidi lettori ed amanti dei libri. Le costanti innovazioni di Pinterest, che favoriscono la scoperta e la creazione di una comunità online, lo rendono un importante e desiderabile partner per i nostri autori, e noi non vediamo l'ora di continuare a lavorare insieme in vista di miglioramenti futuri. 

Vi lascio curiosare sulla pagina Discover your next book – Powered by Pinterest per farvi un'idea di ciò di cui abbiamo parlato. Inutile dire che saranno gli sviluppi futuri a determinare il successo di questa operazione.

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Addio a Doris Lessing, Nobel per la Letteratura 2007

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Doris Lessing, vincitrice nel 2007 del premio Nobel per la Letteratura, è morta all'età di 94 anni.
La notizia, data dal Guardian nel primo pomeriggio e poi ripresa dalle maggiori testate, ha ben presto fatto il giro del mondo e in molti, tra amici, colleghi e semplici lettori, hanno già espresso il loro cordoglio via Twitter.

L'autrice, nata in Iran nel 1919 e cresciuta in Zimbabwe fino al suo trasferimento a Londra negli anni Cinquanta, ha spaziato con le sue opere dall'ambito sociale alla fantascienza.
Nel 2007 è stata l'undicesima donna nonché la scrittrice più anziana della storia ad aggiudicarsi il Nobel per la Letteratura.

In molti ricorderanno la scena che, il giorno dell'assegnazione del Nobel, l'ha vista protagonista: stava tornando a West Hampstead, nella zona nord di Londra. Una volta scesa dal taxi, ha trovato ad attenderla decine di giornalisti pronti a intervistarla e a comunicarle la lieta novella.
Questa fu la sua fantastica reazione:

Mentre l'Accademia Svedese giustificava la sua scelta definendola una «cantrice dell'esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa», lei si definiva una donna «nata per scrivere, geneticamente».

Tra le sue opere è d'obbligo ricordare L'erba canta, romanzo edito nel 1950 e ambientato in Zimbabwe, Il taccuino d'oro (definito «una bibbia femminista»), Memorie di una sopravvissuta, La noia di essere moglie, Amare, ancora, Le nonne: quattro brevi romanzi e Una comunità perduta (ma se ne potrebbero elencare molte altre).

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“Finalmente” Masterpiece

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E anche questa benedetta prima puntata di Masterpiece è arrivata. Se ne è parlato per mesi, abbiamo tutti discusso su quanto fosse più o meno opportuno portare la scrittura in televisione in formato talent show, ma alla fine l'importante era vedere come era fatto questo Masterpiece. Per questo dico finalmente, perché altrimenti si continuerebbe a ricamare in astratto una discussione dove manca la cosa fondamentale, ovvero l'argomento di riferimento, e si finirebbe come con gli ebook, a sprecare un anno parlando di quanto è buono l'odore della carta o di quanto puzzano i libri. Masterpiece ha esordito ieri in seconda serata su Rai Tre, dopo Fazio. In attesa dei dati di ascolto, si registra un gran movimento su Twitter, con la solita cronaca istantanea imbevuta di ironia. 

Intanto è bene che il sottoscritto dica subito le cose come stanno: a me la prima puntata di Masterpiece non è dispiaciuta. Avevo una gran paura riguardo al formato, all'adattamento televisivo. Il problema fondamentale da aggirare è la mancata disponibilità della materia prima da parte dei telespettatori, vale a dire l'impossibilità per chi segue di disporre dei romanzi di cui si parla. A ciò si tenta di sopperire con la prova a cui le due coppie di finalisti di serata vengono sottoposte, cioè scrivere un racconto in diretta, in trenta minuti, riguardo a un'uscita (che, ahimè, fa un po' esterna di Uomini e Donne) che dovrebbe servire a stuzzicarne un po' la fantasia degli aspiranti scrittori. La centralità, però, è tutta sulle biografie di quest'ultimi, ed è qui che gli utenti di Twitter hanno trovato di che scrivere e lamentarsi. Chi ha parlato di casi umani, chi di freak, il succo è che dall'ex-galeotto che sbarca il lunario giocando a carte all'ex-anoressica, passando per l'operaia che detesta la fabbrica, il ragazzotto col nome da donna che dice di aver avuto una vita peggio di John Fante, il tale con due ricoveri in ospedali psichiatrici e l'eroe della masturbazione, la vita dell'autore è un argomento di primo piano, sia per i giudici, sia per i telespettatori. Ma, oserei dire, si tratta di un dato abbastanza scontato, dal momento che la tanto odiata "spettacolarizzazione televisiva" su questo si basa: sulle facce. 

Non disponendo dei romanzi, quindi, si cerca di insistere molto sui legami della biografia degli autori con ciò che hanno scritto, ma questo a mio parere può rivelarsi un limite vistoso. Impantanarsi nella ricerca esclusiva delle corrispondenze autobiografiche all'interno delle opere, oltre a essere un dibattito vecchio e stravecchio, nella sua forma più volgarizzata finisce per diventare una roba per impiccioni voyeuristi, suggerendo a chi guarda che la scrittura è principalmente trasmissione su carta delle proprie esperienze personali (lo è in buona parte, ma non pedissequamente), con risultati del tipo: il galeotto può e deve scrivere solo di prigione, l'operaia può e deve scrivere solo di fabbrica, l'anoressica può e deve scrivere solo di anoressia. La prova della "esterna", forse, dimostrava il tentativo di decontestualizzare gli aspiranti autori, per vedere come se la cavavano con temi al di fuori della loro esperienza-competenza, ma il risulato è stato più che deludente.

Più efficace, invece, l'Elevator Pitch, vale a dire i cinquantanove secondi trascorsi in ascensore con cui i due finalisti della serata hanno dovuto convincere Elisabetta Sgarbi che il loro romanzo meritava di essere pubblicato. Ecco, spunti come questo, insieme ai commenti più interessanti dei giudici riguardo ad alcune prove (degna di nota, ad esempio, l'indicazione fatta alla finalista Romina Questa sul suo fantasy, dove la parte giudicata più interessante era quella dedicata alla fabbrica, anziché quella prettamente fantasy), mi hanno fatto riflettere su una cosa. Malgrado la tanta ironia, che tra l'altro in qualche caso tradisce il malcelato livore dei tanti altri aspiranti scrittori che o non sono stati presi a Masterpiece o schifano tutti quelli che vi partecipano (per invidia, per ideologia o per delirio di onnipotenza), questo programma può rivelarsi una visione molto utile proprio per gli esordienti, perché permette ai più ricettivi e umili di loro di porsi domande del tipo: se io fossi in ascensore con Elisabetta Sgarbi, che direi per convincerla a leggere il mio romanzo? Ci si può poi interrogare sulle proprie capacità di difendere ciò che si è scritto davanti a un esperto che lo ha letto ma non lo ha apprezzato, o si può immaginare come affrontare la prova del racconto live in trenta minuti, evitando figure come quella di Marta Zanni che, con il suo «scrivere è come fare la pipì, devo farlo da sola» ha fatto mettere le mani nei capelli un po' a tutti. 

Limiti ce ne sono, principalmente l'insistenza eccessiva riservata al fattore biografico e, ma questo è un limite strutturale, l'assenza dei romanzi, anche se in sostanza ciò riproduce la condizione dei lettori in libreria, che prendono in mano un libro di cui riescono a leggere giusto la quarta, un paio di pagine per vedere se lo stile e il ritmo superano il primissimo impatto, e la nota biografica dell'autore, meglio ancora se provvista di fotografia. Questo, in sostanza, è il grande pedaggio che la scrittura paga alla televisione e che dà ragione a chi parla di casi umani. Interessante, invece, tutto ciò che mostra come un esordiente viene sottoposto al giudizio sulla base di ciò che scrive e le prove a cui può sottoporsi per difendere se stesso e la propria opera. Anche in questo caso, però, delle discussioni tra i giudici non vengono mostrate che le fasi terminali, dato che, avendo letto tutti i testi e avendo selezionato i migliori da portare in studio, essi si sono già verosimilmente confrontati nello specifico, fogli alla mano, lontano dai telespettatori. 

E ora un doveroso commento sui giudici, oggetti essi stessi di un bel po' di cinguettii. Ovviamente i paragoni con altri talent show, da X-Factor a Italia's got talent, sono fioccati. Andrea De Carlo ha avuto la parte del giudice cattivo, un misto tra Rudi Zerbi e Joe Bastianich, mentre Giancarlo De Cataldo, che ha riscosso un certo successo, è stato associato a Morgan o a Elio. Più passionale Taye Selasi, un po' Simona Ventura e un po' Gerry Scotti, se proprio vogliamo continuare il gioco del paragone con le altre celebri giurie. I loro commenti, in ogni caso, sono risultati in linea con il format, perciò grande attenzione e riferimento alla vita privata degli autori, con qualche spruzzata di critica su lingua e stile. Più immediato, invece, il gemello del "coach" Massimo Coppola, ricondotto a Simone Annicchiarico proprio in virtù del suo ruolo di raccordo tra autori e giuria, oltre che di animatore dietro le quinte. Insomma, l'esordio di Masterpiece è riuscito a dribblare l'esito potenzialmente disastroso che le premesse potevano giustamente mettere in conto. Seppur ancora un po' legnosetto e sorretto dal modello degli altri talent show, il programma poteva in sostanza andare peggio e dimostrarsi un'immensa schifezza. Così non è stato, sempre a mio modo di vedere, nonostante le debolezze e i limiti. Se, al termine della prima puntata, bisogna promuovere o bocciare per approdare o non approdare alla seconda puntata, direi che Masterpiece può accedere alla sufficienza, in attesa di conferme o smentite da accertarsi lungo il percorso. Senz'altro la parte che ha messo d'accordo tutti è stata quella dei titoli di coda, con una carrellata di videomessaggi da parte di autori celebri che dispensano consigli agli scrittori esordienti. In fondo è una regola valida sempre e per qualunque mestiere: l'apprendista è bene che ascolti l'esperto. Poi, se ha davvero talento, ha tutto il tempo per superarlo. 

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Tè, dolcetti e cuori spezzati

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gone with the wind

Bentornati al consueto appuntamento con Bookatini, l'unica rubrica letteraria che tra un dolcetto e una tazza di tè riesce a parlare con una certa nonchalance di amori infranti e cuori spezzati. Buona lettura. 

  • Qualche losco figuro vi ha spezzato il cuore e, se possibile, vorreste evitare di ripetere l'esperienza? Oppure siete bruttissime persone e aspirate senza tante remore a essere voi un seduttore impenitente? In ogni caso vi sarà di utile conforto questa rassegna dei più spietati rubacuori della letteratura. Si va da Amleto a Dorian Gray passando per George Wickham (Orgoglio e pregiudizio), Catherine Earnshaw (Cime tempestose), Rodolphe Boulanger (Madame Bovary) e Edward Rochester (Jane Eyre); per poi arrivare a loro, i sovrani indiscussi Daisy Buchanan (Il grande Gatsby) e Rhett e Scarlett di Via col vento. E se ancora non vi basta c'è anche la rassegna degli scrittori spezzacuore. Poi non dite che non vi avevo avvertito. (via HuffPost Books)
  • E dopo tanta amarezza, una dolcissima news: da Starbucks è arrivata la burrobirra. Avete capito bene, cari i miei babbani; pare infatti che da qualche tempo a quasta parte nella catena di caffetterie più famosa del mondo sia possibile sorseggiare la mitica (e buonissima) butterbeer. Ma c'è dell'altro: per ordinarla è necessario conoscere la ricetta e comunicarla con tutta la circospezione del caso al barista. Cosa volete di più dalla vita? (via Dalebacar)
  • Certo che però Starbucks è un pochino fuorimano per noi, mannaggia; ma niente musi lunghi, sono pronta a scommettere che questa linea di tè ispirata ai grandi classici della letteratura saprà consolarvi come si deve. Che dite, vi va un Lolita? O preferite un Moby Dick? O andiamo di Sherlock Holmes per tutti? (via BOOK RIOT)
  • E per accompagnare questi fantastici tè? L'unica cosa all'altezza che mi viene in mente sono questi invitanti dolcetti gentilmente offerti dalla nostra amata Jane Austen. Ai fornelli! (via Paper and Salt)

Buona settimana!

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Cuori di tenebra

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Berlusconi, Marlon Brando, cuore di tenebra

Visto che la settimana scorsa Scalfari ha paragonato Fabio Volo e Matteo Renzi, ieri Severgnini ha usato Cuore di Tenebra di Joseph Conrad per parlare di Berlusconi (e del suo delirio di potere, simile a quello di Kurtz). Insomma, anche i giornalisti si stanno rendendo conto del potere predittivo della letteratura. Bene così, diciamo… ma devono fare pratica. Lettualità esiste da tre anni e certe cose, cari amici, le si imparano solo con dedizione e sacrifizio. Scrive Beppe S:

Kurtz non è solo un personaggio letterario. È una tentazione perenne del potere. L’isolamento, la scelta di non misurarsi col mondo, il disinteresse per il futuro (…) Non è Kurtz, Silvio Berlusconi: non ancora.

Ecco, anche a te, Beppe, ti meriti un 6meno. Leggiamo questo passaggio verso la fine di Cuore di Tenebra.

«Non avevo mai visto, e spero di non rivederlo mai, niente di paragonabile al cambiamento che si era operato sui suoi lineamenti. Oh, non ero impietosito. Ero affascinato. Era come se fosse stato strappato un velo. Su quel volto d'avorio vidi l'espressione di un torvo orgoglio, di un potere spietato, di un terrore codardo, e anche di una disperazione immensa e senza rimedio. Stava rivivendo la sua vita in ogni particolare dei suoi desideri, le tentazioni, le capitolazioni, in quel supremo momento di conoscenza completa? Due volte, con voce bassa, lanciò verso non so quale immagine, quale visione, un grido che non era che un soffio:
«"Che orrore! Che orrore!" (…) "Che orrore!" Era un uomo notevole. Dopo tutto, questa era l'espressione di una specie di fede; c'era candore, convinzione, una vibrante nota di rivolta nel suo sussurro, era il volto terrificante di una verità intravista, il conturbante miscuglio del desiderio e dell'odio.

Effettivamente Kurtz non è Berlusconi, nel senso che non lo è più, è oltre. Marlow ci spiega che è successo: Kurtz in punto di morte ha una visione della globale sofferenza, di quella che ha causato lui e di quella di cui non è causa. Da qui il suo grido "Che orrore! Che orrore".  Il mondo occidentale è corrotto fino nel midollo, secondo Conrad. Fino a che punto dobbiamo spingerci per rendercene conto? Forse ieri anche Berlusconi ha avuto una visione, anche a lui il velo è stato strappato da davanti agli occhi. Avete notato qualche rimorso?

Buona settimana.

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Allen Ginsberg | Bloodsong

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Allen_Ginsberg_Bloodsong

Immergi alcuni uccelli nel cherosene, toccali con il fuoco e guardali volare in alto, in fiamme, nella notte!

La vicenda è nota: è il 13 agosto 1944, il diciannovenne Lucien Carr, per difendersi dalle avances dell'amico David Kammerer, lo ammazza con un coltellino da boy scout e ne getta il corpo nelle acque del fiume Hudson. Di questa storia esistono numerose versioni, alcune anche molto discordanti, e non si ha la percezione di riuscire a chiarire in maniera definitiva quello che accadde. Il primo ad occuparsene fu, già nell'autunno del 1944, lo studente e poeta John Hollander, amico di Ginsberg, che scrisse per il Columbia Spectator un racconto sull'assassinio e i dettagli piccanti si dimostrarono così irresistibili per molti altri scrittori dell'epoca che la vicenda apparve in numerose opere di memoria.

Leggendo questi testi ci si rende subito conto che la chiacchiera da bar, la voce di corridoio e i particolari sessuali sono alla base di tutto il clamore, lasciando tutta la faccenda su un piano superficiale, in cui l'omosessualità dei protagonisti pare essere la sola e unica causa possibile delle loro azioni e deviazioni. Fortunatamente però Carr e Kammerer facevano parte del gruppo più ampio formato da Jack Kerouac, William S. Burroughs e Allen Ginsberg, che naturalmente scrissero in proposito. I primi due si cimentarono in un onirico romanzo a quattro mani, E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, mentre Allen, all'epoca diciottenne e che ancora non aveva rivelato a nessuno la sua omosessualità, scrisse tutto in un diario, ricostruendo, tra le altre cose, anche la drammatica vicenda che cementò il rapporto tra i quattro, garantendo tutta quella frenetica attività che permise la nascita della Beat Generation.

Bloodsong di Allen Ginsberg Allen Ginsberg | BloodsongGinsberg divide il diario in cinque parti che temporalmente percorrono gli anni dal dicembre 1943 all'agosto 1945. In esso Allen appunta tutto quanto, sogni che lo tormentano la notte, desideri, progetti, descrizioni delle chiacchierate con gli altri del gruppo e soprattutto inizia a scrivere un romanzo – incompiuto – a cui dà il titolo di Bloodsong

Qui troviamo, per sua stessa ammissione la versione romanzata di una tragedia, dove trovano concretezza i pensieri, le visioni e i sogni raccolti nelle pagine precedenti. Quella di Allen è forse la narrazione più veritiera di quanto accaduto tra Carr e Kammerer, ma questo non è importante, ciò che conta è il mostrarsi della nascita di un racconto, seppur lacunoso, del lavorio artigiano e perturbante che sta dietro alle vicende di tutti i protagonisti beat che, si badi, iniziarono a pubblicare e a farsi conoscere solo dieci anni dopo quella drammatica vicenda.

Bloodsong, prima che una cronaca è un manifesto di una generazione, una dichiarazione d'intenti che fa tremare i polsi, una carica rivoluzionaria sentita e agognata da coloro che sapevano di poter cambiare il mondo con la letteratura.

Concludiamo con una poesia che Allen scrisse una settimana dopo l'incidente. Questa, da sola, potrebbe bastare.

Epitaffio per David Kammerer

Amante deluso
un giorno era stato
E piangeva come solo
un amante ha provato-

oppure rideva
come un amante tocca;
adesso di polvere
è cerchiata la sua bocca.

Infatti è morto,
e presto guarita
Sarà la pena
solo da lui sentita.

Ha avuto il coraggio-
Va detto a suo onore-
Che dentro la tomba
Si è portato il suo amore.

Allen Ginsberg, Bloodsong, ilSaggiatore, 2013

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I 60 anni di Alan Moore, straordinario gentleman

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alan.moore

Photo Credit: Graham Barclay

Per il suo quarantesimo compleanno, Alan Moore si autoproclamò mago. Nulla da eccepire, in effetti, se si guarda a quello che è riuscito a combinare nella sua vita. Restare fedele all’impulso di quella dichiarazione, nata in un momento di pura e totale sbornia da festeggiamenti, si è rivelata, più che una costrizione, una fortuna per lui e tutti i suoi lettori. 

È il 1961 quando Alan inizia a leggere fumetti. Nel frattempo, si imbarca nei lavori più disparati: tosatore di pecore, portiere, addetto alle pulizie, magazziniere, rockstar. Insomma, dura la strada per diventare uno degli autori di comics più visionari mai esistiti. A questa aggiungete la faccia tosta di voler sfidare l’inarrivabile mondo dei supereroi per riportarlo con i piedi a terra e il gioco è fatto. Il suo Watchmen è stato il primo romanzo a fumetti a vincere il premio letterario Hugo. Una rivoluzione del genere: i supereroi sono uomini come noi, con i loro difetti e le loro nevrosi, con un passato tutto da scoprire e con cui fare i conti. Sono loro a scegliere consapevolmente di salvare il mondo indossando i panni di giustizieri mascherati. Il resto è storia vivamente consigliata, in quello che il Time ha definito come uno dei migliori romanzi in lingua inglese del ventesimo secolo. 

A chi invece è ignoto il genio di Alan Moore, basterà guardarsi intorno, lanciare un occhio sul mondo o riportare alla mente gli eventi che hanno caratterizzato le forme di protesta degli ultimi anni. Gruppi come Anonymous, Occupy e Indignados gli devono tutto o quasi. La maschera di Guy Fawkes, oggi più icona pop che simbolo di libertà, si ispira a V per Vendetta, la graphic novel nata dalla sua mente e dalla matita del fumettista David Lloyd. E pensare che quando i due autori cercarono di procurarsene una non ne producevano più. Anno 1981, l’inizio del decennio di Margaret Thatcher. Era come se avessero deciso di far sparire per sempre l’immagine di Guy Fawkes dalla circolazione. I posteri, più tardi, avrebbero dato ragione ad Alan Moore. Lo spettro di una società totalitaria e invasiva si è insinuato sempre più nel nostro mondo e alcune delle visioni descritte in V per Vendetta si sono effettivamente realizzate. I sistemi di sorveglianza piantati a ogni angolo di strada ne sono un esempio.

Cos’altro avrà in mente il vecchio Alan per i suoi 60 anni? Non stiamo più nella pelle, ormai abituati alla sua imprevedibilità. Anche se in una recente intervista ha dichiarato «Non ho alcun piano a lungo termine, spero di aver terminato Jerusalem e The Book of Magic, i libri a cui sto lavorando», noi speriamo ancora in un colpo spiazzante. D’altronde, anche l’uscita di vent’anni fa non era in programma. Nel frattempo, gli appassionati possono festeggiare al meglio sfogliando Black Dossier, il vademecum alla lettura della Lega degli Straordinari Gentlemen, che Moore ha scritto e disegnato insieme a Kevin O’Neill e pubblicato per la prima volta in Italia da BAO Publishing.  

Dal canto nostro, proveremo a mandargli i nostri auguri, sperando che non sia troppo occupato per rispondere al telefono di casa sua, a Northampton. Di Internet e messaggi sul cellulare, si sa, neanche a parlarne. Ci piace condividere quello che si aspetta per se stesso: 
«Continuerò a fare ciò che faccio adesso, cioè esattamente ciò che voglio. Mi auguro di continuare ad allontanarmi dalla cultura contemporanea. Ancora più di quanto sia riuscito a fare finora».

Ogni volta che l’ha fatto, le sue visioni sono diventate capolavori. E allora buon compleanno, straordinario gentleman.

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Girls who love Bad girls

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Girls HBO boards

Immaginate un americano medio, in giacca e cravatta, che guida svogliatamente verso l'ufficio ascoltando la radio. Inaspettatamente, lo vediamo fermo al semaforo che canta a squarciagola battendo le mani sul volante, mentre dalle casse risuona a tutto volume Oops I did it again. A canzone finita, uno schiarimento di gola e tutto torna nella norma. In inglese esiste un'espressione molto efficace per descrivere questi momenti: guilty pleasure, piacere colpevole. Quando non si può resistere a qualcosa che piace troppo, nonostante il senso di vergogna che lascia.

Girls è la mia guilty pleasure sitcom. Irriverente, originale, senza pudore, ma anche sciocca e “da femmine”.
Eppure non riesco a staccare gli occhi dallo schermo ogni volta che Hannah si mette letteralmente a nudo nelle situazioni più disparate, sia che riguardino il lavoro più noioso del mondo o ridicoli incontri amorosi, e tutto semplicemente per fare 'esperienza'. Hannah è in realtà Lena Dunham, creatrice e protagonista della serie, newyorkese doc. E non sembrano affatto frutto di pura immaginazione, le bizzarre avventure che lei e lo sfaccettato trio di amiche sono costrette ad affrontare in una città che vorrebbe mangiarsele vive.

Se l'etichetta “girls only” è la prima cosa che mi viene in mente guardando Girls, Ragazze cattive è la seconda.
Joyce Carol Oates racconta un mondo più serio e violento, ma sempre vietato ai maschi, in un libro bellissimo che si legge in apnea, con le guance che si arrossano, gridando mentalmente “Anch'io! Anch'io!”, mentre le adolescenti scatenate della banda Foxfire mettono a soqquadro la tranquilla provincia americana degli anni '50.

Semplicemente irresistibile, quest'universo femminile che sgomita per conquistare il suo spazio, attraenti come non mai le protagoniste così giovani, vittime dell'invidia che solo la vera ribellione sa suscitare.
Non si può fare a meno di indignarsi, amare e odiare con loro, per poi tornare bruscamente sulla terra alla fine dell'ultima pagina, consapevoli che qualcosa di diverso ce l'abbiamo, che qualcosa si può cambiare. Forse.
Nel frattempo mi illudo che Lena abbia letto questo libro, mi illudo che un giorno vedrò le avventuriere alla moda di Girls conquistare la città, come solo una ragazza sa fare. (Ah, e che potrò presto togliere l'etichetta girls only in modo che anche i ragazzi possano imparare qualcosa!)
Enjoy!

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Milano celebra i libri: al via la seconda edizione di Bookcity

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BookCity

Quanto manca a Bookcity? Meno di due giorni, come ci ricorda il countdown nell’home page del sito di questa giovanissima rassegna culturale che si appresta ad inaugurare la sua seconda edizione nella città di Milano giovedì 21 alle 13, con un programma fitto di appuntamenti che si svolgeranno fino a domenica 24 novembre.

Bookcity nasce l’anno scorso su iniziativa del Comitato Promotore (Fondazione Rizzoli “Corriere della Sera”, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri) e dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano che hanno chiamato a raccolta gli editori italiani per realizzare un evento condiviso tra tutti i protagonisti del sistema editoriale, una tre giorni (più uno dedicato alle scuole) durante la quale vengono organizzati incontri, presentazioni, letture, mostre e seminari che ruotano intorno al tema del libro. Un’iniziativa nata con l’intento di dare visibilità a Milano come centro di produzione editoriale, come si evince dalle parole con le quali Pietro Biancardi (Iperborea) aveva commentato la prima edizione: «È la prima volta che Milano vede un evento con la parola libro nel titolo. L’unico simile è la Milanesiana, che però non ha programmaticamente spazio per gli indipendenti.»

Il cuore della rassegna è ancora una volta il Castello Sforzesco, ma sono tanti gli spazi pubblici e privati di questo evento diffuso su tutto il territorio urbano, dalle tante librerie indipendenti che aderiscono organizzando eventi nelle proprie sedi fino agli ospedali e al carcere di San Vittore. L’anno scorso le iniziative erano state ben 350 e i visitatori circa 80.000; numeri che quest’anno si tenterà di bissare e addirittura di superare, a giudicare dall’ampiezza del programma che prevede 1.200 ospiti tra autori e moderatori, 600 appuntamenti, 200 scuole coinvolte. Noi ci limitiamo pertanto a segnalarne alcuni, a voi lasciamo il divertimento di costruire la vostra agenda personalizzata (per aiutarvi a destreggiarvi in questa selva di iniziative c’è anche una classificazione tematica). 

Spazio per l’illustrazione e il graphic design, con due interessanti mostre: The book is on the table, che inaugura oggi presso la Galleria Nuages e propone maestri affermati e giovani autori dell’illustrazione e del fumetto, e Never judge a book by Its cover presso la galleria Effearte, una collettiva di 13 artisti che hanno prestato il loro talento al mondo dell’editoria realizzando copertine di libri. 

Tra gli eventi curiosi, si segnala una sfida di traduzione, che vedrà Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli alle prese con un brano inedito di Jamie Ford (autore del bestseller Il gusto proibito dello zenzero di Garzanti) e che si svolgerà alla presenza dell’autore. Importanti anche gli appuntamenti di lettura/terapia negli ospedali milanesi e i percorsi di lettura e scrittura nelle carceri, nonché il progetto BookCity per le scuole, che coinvolge 940 classi con laboratori di editoria, ebook, booktrailer e attività di redazione.

Tra gli incontri con gli autori, si segnala la presenza della scrittrice francese Yasmina Reza, del Premio Strega Walter Siti, di Umberto Eco che celebrerà il centenario di Messaggerie Italiane, dello scrittore russo Zachar Prilepin, che discuterà con Edoardo Camurri del suo nuovo romanzo Scimmia nera, di Silvia Avallone, Luis Sepúlveda, Michela Murgia e tanti altri. E ovviamente ci sarà spazio anche per Masterpiece, il talent più discusso del momento, del quale si parlerà con due dei giurati, Andrea De Carlo e Giancarlo De Cataldo.

Eventi ad ingresso gratuito e auto-prodotti, resi possibili grazie alla partecipazione di molti volontari, che costituiscono per le piccole case editrici una vetrina e un’occasione per farsi conoscere mettendosi in rete. Quel che è certo è che almeno per un weekend qualsiasi cittadino milanese – magari passeggiando per la via della Lettura che va da Piazza Cordusio alla Rotonda di via Besana o alla fermata della metro – avrà a che fare coi libri: ne sentirà parlare, li vedrà esposti, ne prenderà qualcuno in mano, leggerà qualche pagina. 

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Che inizi la festa!

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Il_Gattopardo

Il Natale è vicino, dunque anche le vacanze; suppongo che capiterà a tutti di partecipare a qualche festa o evento più o meno glamour e più o meno divertente. In un'epoca in cui va tanto di moda la figura dell'organizzatore di eventi, che se non lo chiami la festa non è cool e poi non la puoi chiamare party che suona (dicono!) meglio, ho pensato: vediamo come se la cavavano a fare i PR i personaggi della letteratura e a quali feste da loro organizzate avrei partecipato volentieri.

Ecco la mia Top5 festaiola:

1. Gatsby's parties: lo ammetto, avrei fatto di tutto per essere invitata a una delle sue sontuosissime feste nella villa di Long Island; avrei cercato Jay Gatsby tra la folla, come tutti quelli che, pur partecipando ai suoi party, non lo avevano mai visto prima e cercavano di immaginare chi potesse essere. Magari avrei fatto lo sgambetto a Daisy e le avrei rubato il pellicciotto, ma questa è un'altra storia, ormai lo sanno tutti che non mi sta simpatica neanche un po'. Immagino la musica suonata da un'intera orchestra e ballare il charleston tra stelle di Broadway, ricchi magnati, musicisti e produttori cinematografici, con piume, frange e perle come se piovesse.

2. Il ballo del Gattopardo: di recente ho visto in tv la villa palermitana nella quale è stata girata la famosa scena del ballo del film tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa. La sala in questione è la sala degli specchi, barocca e meravigliosa; di certo non doveva essere molto diversa da quella in cui lo scrittore immaginò quella festa. Un valzer col vecchio e affascinante principe l'avrei fatto volentieri, per poi tuffarmi sui dolci: cassate, cannoli, paste di mandorla, frutta martorana; certo, con garbo, siamo sempre a un ballo.

3. Il matrimonio di Peleo e Teti: il mito vuole che tutto sia iniziato lì, con il pomo della discordia, con Paride costretto a scegliere la più bella tra le dee. Pagherei per vedere le facce di Era e Atena quando Paride consegna la mela a Afrodite.

4. Black and White Ball: è la festa di cui parla Don De Lillo in Underworld, un ballo in maschera organizzato da Truman Capote che si tenne realmente nel novembre del 1966 all'Hotel Plaza di New York. Anche qui ospiti ricchi e famosi. Nel libro De Lillo si domanda:

Si sono mai viste così tante persone riunite in un posto allo scopo di essere ricche, potenti e disgustose insieme?

In ogni caso, a Capote piacque talmente tanto la sua nuova e improvvisa carriera di ospite d’onore delle feste che, nonostante avesse solo 42 anni, non scrisse più nulla. A questo punto, credo che l'avrei affiancato volentieri.

5. La festa di Satana ne Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov: Satana in persona prende un modesto appartamento, vi fa crescere una foresta tropicale, vi posiziona due immense sale da ballo illuminate da fuochi fatui e per finire, fa spuntare tre fontane dalle quali zampilla champagne: non mi sarei mossa di lì!

Scusa Caligola, ci vediamo un'altra volta, adesso non ho tempo… e se vedi un gallo mettilo nel forno! Cin cin.

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