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Accettare il finale – Top 5

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E sì, ci sono molti modi in cui ci si sente dopo aver letto il finale di un libro. Più o meno ne avevamo già parlato qui. Questo, chiaramente, vale anche per i compagni di avventura che nel giro di due settiamane devono accettare la fine di Dexter (ultima stagione così così, ma pazienza) e quella di Breaking Bad

La fine non è mai facile da accettare, probabilmente perché la fine di una cosa (un libro, una serie tv) ci porta ad astrarre e pensare alla fine di tutto, ovvero la morte, la pagina bianca. Ebbene, se per alcuni di noi finire di leggere un libro vuol dire accettare serenamente un dato di fatto (la caducità universale, l'espansione dell'entropia, ecc ecc) per altri questo è un passaggio traumantico.

Come vi dicevo, avevamo già affrontato il problema. Ma parliamo proprio della prima espressione che ha un lettore quando chiude definitivamente un romanzo.

1- Il piantino liberatorio:

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2- La negazione. Ad esempio, se avete letto Le Belve, probabilmente avete detto così:

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3- Quelli che hanno bisogno di silenzio. E lo esigono:

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4- Questi sono l'esatto opposto del numero 1. Almeno all'apparenza: fingono calma con atteggiamento blasé.

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Ma anche i sassi sanno che dentro sono così:

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5- Per ultimo il mio preferito: quello che finito di leggere un libro rilegge il finale qualche volta e, rullo di tamburi, se lo porta in bagno al posto del catalogo ikea. Perché ha voglia di ripensarci mentre è concentrato.

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Luca Giordano | Qui non crescono i fiori

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qui non crescono i fiori

Ci sono libri che sembrano perfetti per un film, che quando li leggi ti sembra proprio di vedere la telecamera che si sposta: i primi piani, i campi lunghi, alcune sequenze perfette. Ecco, Qui non crescono i fiori è un romanzo che contiene un film, un romanzo con immagini forti che ti aspetti di vedere al cinema, prima o poi, e che quando lo leggi ti fanno chiedere quale sia l’attore più adatto a un personaggio.

quinoncresconoifiori e1379947088963 Luca Giordano | Qui non crescono i fioriLuca Giordano ha 28 anni e Qui non crescono i fiori è il suo primo romanzo, pubblicato per ISBN. Per questo fa un po’ specie vedere così spiccata, in lui, la capacità di trasformare le parole in immagini.

L’ambientazione è un’isola, non quella di Arturo, ma sempre un’isola che emana caldo, molti silenzi, con le rocce roventi e la terra rossa che si alza con il vento, e le cicale che non smettono un attimo di frinire. I personaggi sono due fratelli, Damiano e Salvatore, alle prese con un padre burbero e incline all’autodistruzione e un'ape che li lascia a piedi in mezzo al niente. La storia è quella della loro diversità, della loro voglia di andare via, del modo che trovano per rendere la loro presenza su quell’isola meno insopportabile, dei motivi per rimanere. 

Ma è, soprattutto, una storia di addomesticamentiDamiano, il fratello più grande, cerca di trovare un varco nel padre, un uomo di poche parole, ma crudeli, che sembra preferirgli il fratello. Salvatore, il più piccolo, trova un amico in un cane randagio che si nasconde in una casa andata a fuoco tanti anni prima e alla quale il padre dei ragazzi non vuole che si avvicinino. 

Ognuno, a modo proprio, cerca una strada, un motivo per rimanere, un appiglio agli affetti e all’umanità, e pagina dopo pagina i personaggi si delineano, vengono disegnati con un tratto fermo, si arricchiscono di particolari e dettagli.

Una delle cose belle di questo libro, secondo me, è che se anche tutto sembra molto lontano dalla nostra vita, se anche non abitiamo su un'isola, e non abbiamo un fratello e un padre distante, se anche non sappiamo cosa sia l'insoddisfazione o la voglia di scappare (ma poi: chi non ha voglia di scappare da qualcosa?) ci si riesce ad immedesimare in qualcuno, ci troviamo a fare il tifo, quasi, e a chiederci cosa avremmo fatto noi.

C'è poi che la storia di Damiano e Salvatore si alterna, nel corso delle pagine, con quella del padre, su quell’isola, tanti anni prima, e in un attimo, all'improvviso, appare tutto chiaro.
E quando tutto si fa chiaro le storie si intrecciano e le tessere si incastrano, come pezzetti del Tetris o come certe persone, quando si incontrano.

Luca Giordano, Qui non crescono i fiori, Isbn, 2013.

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AVERE LA BARBA – Storie di barbe

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foto di Diego Santi

Il bello delle storie è che le puoi trovare ovunque. Se anche la vagina ha avuto i suoi monologhi, poi, perché mai la barba non dovrebbe raccontare una storia, anzi tante storie. Un bel progetto partito all'inizio di quest'anno parte proprio da qui, persone con la barba che raccontano le loro storie e le loro idee creative. 

Il progetto si chiama AVERE LA BARBA e i tre ideatori – Claudio Traina, Alessandro Toso e Diego Santipartendo dall'idea che la barba è sinonimo di creatività, hanno deciso di incontrare persone con la barba che hanno un'idea da raccontare. Le storie diventeranno prossimamente un libro ed ecco perché a noi di Finzioni la cosa piace parecchio. Il punto di partenza è il sito Averelabarba.it, punto di raccolta delle storie già nate e di quelle che devono ancora essere raccontate. Se avete qualcosa da raccontare potete contattarli direttamente sul sito. 

Nel manifesto che si legge sul sito web, l'idea di base è chiara:

In un’Italia distrutta dalla crisi economica e sociale l’ultima speranza per un giovane è AVERE LA BARBA e un'idea. Noi cerchiamo delle persone che la pensano in maniera diversa, che credono ancora a questo paese e che vogliono renderlo migliore: artisticamente, culturalmente, visivamente e musicalmente. AVERE LA BARBA non è una moda. La moda è un’illusione. AVERE LA BARBA è realtà.

Claudio, Alessandro e Diego sono tre persone totalmente diverse tra loro (qui potete scoprire qualcosa in più su di loro) ma hanno in comune la barba e tanta voglia di fare, di conoscere persone nuove e di raccontare storie. Hanno incontrato finora musicisti, un pittore, un grafico, un proprietario di una ludoteca e uno zoccolaio. Tante persone diverse, tante storie e tante barbe che raccontano la creatività. Per alcuni di loro la barba è uno stile di vita, è natura, per altri è cultura ed è necessaria per lasciare il tempo utile per liberare la mente e creare. 

Il libro dovrebbe uscire la prossima estate e sarà strutturato in due parti: la prima con interviste e foto fatte da Claudio, Alessandro e Diego; Nella seconda parte, invece, ci saranno foto, disegni, poesie e storie inviate dagli utenti barbuti e non.

Abbiamo fatto anche qualche domanda alle tre barbe di AVERE LA BARBA. 

Com'è nato il progetto? 

Alessandro: È nato da me e Claudio. Avevo trovato un libro sulle barbe. Una raccolta di foto di barbuti. Solo foto nessuna descrizione. Non mi sentivo rappresentato, volevo fare qualcosa di giovane, legato allo stile di vita barba, alle passioni e alle idee delle persone. Volevo raccontare le persone che intervistavamo. Ho scritto a Claudio e insieme è nata l’idea del libro. Poi abbiamo coinvolto Diego e abbiamo fatto subito la prima intervista.

Cosa vi aspettate dal libro? 

Alessandro: Beh prima di tutto divertirci nella realizzazione e poi far conoscere i talenti delle persone che intervistiamo. È triste che ai giorni nostri un pittore o un cantante non riesca quasi mai a sopravvivere con le sue doti, ma deve ridurre i suoi talenti ad un secondo lavoro. Noi vogliamo far conoscere questi talenti.

Diego: Ci aspettiamo di smuovere più idee creative possibili e dare un esempio di coraggio a chi ha idee ma gli manca quel pizzico di incoscienza per buttarsi anima e corpo nei suoi progetti. Credeteci con tutte le vostre forze, i risultati prima o poi arrivano sempre, l'importante è divertirsi nel farlo!

Qual è stato l'incontro più interessante che avete fatto nella preparazione del libro? 

Claudio: L'incontro più interessante per me è stato quello con Claudio Brunello, un pittore. Per lui avere la barba significa risparmiare tempo per vivere, divertirsi, lavorare, dormire ecc… (qui potete trovare l'estratto). 

Diego: Davide Scapin (qui potete trovare l'estratto) e Claudio Brunello. Il primo perché esprime la creatività in persona e il secondo perché ha capito tutto dalla vita: ecco la sua risposta alla domanda cosa vuol dire per lui avere la barba: «Bisogna vivere oggi. Oggi è la meta. Il tempo che ho guadagnato non tagliandomi la barba per 59 anni l’ho utilizzato per dipingere, per leggere, per ascoltare buona musica, per fare l’amore, per vivere… FATELO ANCHE VOI!».

Quale barba letteraria preferite? 

Alessandro: Charles Bukowski.

Diego: Ernest Hemingway.

La letteratura è una barba oppure la barba è letteratura?

Alessandro: Di sicuro la letteratura non è una barba e la barba forse con il nostro libro diventerà letteratura. Di certo la letteratura non è una barba, basta scegliere il libro giusto.

Ultimo libro letto? 

Alessandro: Maurizio Cattelan Con Catherine Grenier Un salto nel vuoto la mia vita fuori dalle cornici.

Diego: Ho riletto per l'ennesima volta Siddharta.

Autore preferito? 

Alessandro: Etgar keret.

Diego: Hermann Hesse.

Avete un barbiere di fiducia? 

Alessandro: Per adesso mi sono fatto sistemare la barba solo dai barbieri di Bullfrog di Milano. Sono un po’ distanti quindi vado poche volte, è una scusa per non tagliarla.

Claudio: Barbiere, Mai.

Diego: Non ancora, avere un barbiere che sappia tagliarti la barba come vuoi è come avere un amico di cui puoi fidarti di confidargli i tuoi segreti.

Dove arriveranno le vostre barbe?

Alessandro: Lasciamo tutto fluire naturalmente.

Diego: In tutta Italia e poi si espanderanno a macchia d'olio!

Claudio: Arriveranno alle ginocchia e in capo al mondo. 

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Digital comics

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digital comics

Prendiamoci una pausa dai discorsi seri sulla digitalizzazione scolastica, i fondi per l'editoria online, le tecnologie che non arrivano da noi: parliamo di fumetti, che ridere e distrarsi a colori è un discorso da prendere in ben più seria considerazione. Già ieri era lunedì, quindi cerchiamo di non aggravare la situazione. Dunque, a che punto siamo con il fumetto digitale? Qualche novità sul fronte dei digital comics, al momento non per quanto riguarda software e device ma per quanto riguarda le uscite.

Partiamo, come spesso inevitabilmente ci troviamo a fare, dagli USA, ed in questo caso dalla Marvel. Come si accennava un paio di settimane fa, il lancio di All-new Marvel NOW ha introdotto la formula del bundling anche per il digital comics: all'acquisto del primo numero di una serie a fumetti, in regalo una copia digitale. Se pensate che sia inutile, chiedetevi quanti dei vostri amici nerd (se non ne avete, procuratevene che adesso vanno di moda) vi taglierebbero la gola piuttosto che lasciarvi togliere l'involucro originale dal primo numero di X-Men. Stile Sheldon Cooper.  Questa è la soluzione perfetta per tutte queste menti delicate: il fumetto si può leggere senza spacchettarlo. Perfetto. Inoltre, la Marvel offre un servizio di abbonamento digitale con i controcosi: Marvel Unlimited per $10 al mese/$69 all'anno consente l'accesso ad oltre 13 mila fumetti ed offerte esclusive; con $99 all'anno, in più, si ha accesso agli eventi, kit di merchandise vari ed eventuali, notizie in anteprima e sconti. Ad essere davvero appassionati, è un affarone.

La DC, storica arcinemicoamica della Marvel, non sembra offrire lo stesso tipo di servizio digital comics. D'altronde lo stile è un altro, i supereroi DC hanno un'indole totalmente diversa e così pare sia di riflesso anche l'approccio al digitale. Però però, per i più piccoli il 17 Settembre è uscito Teen Titans Go!, fumetto digitale (ispirato alla serie su Cartoon Network) che vede come protagonisti la versione pre-adolescenziale di Robin, Starfire, Raven, Beast Boy e Cyborg. Tipo i Teeny Toons, se siete di quella generazione. Stili e scelte indubbiamente diversi, non c'è che dire.

Attenzione! Quanto segue potrebbe risultare offensivo: se siete sensibili in materia di religione, leggete le notizie a vostra discrezione.

Ma passiamo all'Italia, dove il fumetto digitale esiste soprattutto sui blog e solo timidamente fa capolino su Tablet (unico device, ricordiamo, che al momento consente di leggere i fumetti decorosamente). E parlando dell'Italia, parliamo della blasfemia, con cui fa binomio abbastanza spesso, sin dall'alba dell'account twitter di @Pontifex (e anche prima). Nel nostro Bel Paese, che si pregia d'ospitare lo staterello della sede papale, la cultura del fumetto blasfemo è fiorente come i geranei sul balcone di una nonna.

Mai sentito parlare, ad esempio, di Jenus? Lui è quello che "ha tutte le risposte e non se le ricorda". Creato da Dio suo Padre, ma più precisamente da Don Alemanno, Jenus è il fumetto che racconta come l'ennesimo tentativo divino di redimere l'umanità si sia trasformato in una tragicommedia per un errore tecnico e l'indole fondamentalmente rock del Messia. Le Pillole di Jenus sono in digitale, leggibili dal blog da cui il fumetto nasce, così come l'anteprima del numero zero (La Genesi, giustamente), ma purtroppo i numeri escono, al momento, solo in cartaceo.

Comunque, rimanendo in tema, se La Sacra Bibbia è un libro che avete avuto modo di apprezzare, sappiate che è uscito il sequel. Ovviamente gli autori non sono gli stessi, sicuramente la loro ispirazione viene da diverse fonti, probabilmente l'intento del testo è leggermente diverso la libro originale. Certamente i contenuti si discosteranno. Ma fatto sta che è uscita La Bibbia 2. Il sequel del libro più letto al mondo che nessuno ha mai letto, e tant'è. Scritto da Davide La Rosa e disegnato da Pierz, l'opera trae ispirazione dal blog dello sceneggiatore, nei cui fumetti disegnati male e legati da una pulsante vena anticlericale compare il personaggio di Dio. Sempre alla pazzesca mente di Davide La Rosa dobbiamo la creazione di Le Mie Prigioni, fumetto il cui protagonista è il Detective Smullo, qui disegnato da Fabio De Nicola ed uscito giusto qualche giorno fa. Ma per non parlare poi della serie Le Suore Ninja, sempre sceneggiato dal La Rosa ma disegnato da Silvia Cardinali.

Anche Zerocalcare, fumettista romano autore del blog omonimo, sforna periodicamente digital comics che potete trovare anche su Amazon: niente "fiction" (concedetemelo), solo storie nude e crude della vita reale, come reale è la coscienza e l'Armadillo che la impersona, e con cui Calcare affronta e discute la vita e le situazioni di tutti i giorni. No però Zerocalcare non si riesce a descrivere, dovete leggervi una sua strip per capire.

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Filetto con salsa ai frutti di bosco Houellebecq mèthode

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Certo che Houellebecq, con quella faccia che ti ritrovi, tutto sei fuorché un magnete di simpatie. C’hai proprio quel grugno da schiaffi un po’ alla Zeman, un po’ alla sì-sì-parla-parla-tanto-ora-ti-sistemo-io. Mi viene voglia di entrare nello schermo e fustigarti con un budello di capretto, guarda. Truculento e cruento sarei, come le sue storie. Secco ed essenziale sarei, come le sue frasi.

Poi, in fin di vita, ti farei rileggere ad alta voce quelle pagine pregne di erotismo insensibile, dove tutto è meccanico, un bisogno fisiologico, un atto nichilista, uno svuotamento d’ordinanza e basta più. L’acme di un amplesso è per lo più una depressione. Eppure, Miscél-mon-bel-neanche-tanto, in fin dei conti, io t’apprezzo. Perché dici le cose come stanno. E forse come le direi anch’io. E poi, grazie a te ho scoperto cos’è un frattale di Mandelbrot e un triangolo di Sierpinski. Te ne sono grato.

Talmente grato che, per controbilianciare il piacere della carne assente nei tuoi romanzi, voglio godere di carne quest’oggi, perché, abbi pazienza, io all’estasi palatale mica ci rinuncio.

Quindi esco di casa e acquisto un bel filetto di manzo che quando il macellaio mi notifica che ci vogliono quasi 6 euro per 168 grammi mi cadono sopracciglia, ciglia e barba in un sol colpo, salvo poi riattaccarli convincendomi con un logico che t’aspettavi, omino senza tonno?

Destabilizzato dalla spesa, vengo sopraffatto da una giustificatissima ansia da prestazione: se rovino il filetto, dovrò sfilettarmi i genitali senza alcun ritegno. Ma il pericolo è il mio mestiere, oltre quello di lavare i bagni all’Autogrill, quindi mi armo di forza, coraggio e fornello e costruisco per te e solo per te, caro compare Miscél, un filetto con panatura di grissino in salsa di frutti di bosco. Pulisciti la bocca che stai sbavando, Miscél.

In un pentolino verso un bicchiere e mezzo di vino rosso, nella fattispecie un Aglianico. Metto sul fuoco e porto a ebollizione, riducendo di un terzo grazie all’evaporazione della componente alcolica. Giunto al livello desiderato, aggiungo 2 cucchiai di confettura di frutti di bosco e incorporo per bene. Per addensare la salsa, stempero con acqua un cucchiaino di amido di mais – preferito alla farina perché insapore – e aggiusto di sale per bilanciare il dolce della confettura. Les jeux sont faits. Almeno per metà.

Giunge adesso la parte rischiosa. Panare il filetto. Difficoltà media della panatura al grissino: 13471%.

Prendo un pugno di grissini caserecci e li devasto nel mortaio col pestello. Evito appositamente il frullatore in primis perché non sono un eretico, in secundis, se si può dire, perché non voglio della farina ma delle vere e proprie scaglie di grissino. In terzis, procedo e pesto.

Rompo un uovo in un piatto e lo sbatto, dispongo la farina di grano duro su un tagliere. Sono pronto. Passo il filetto nella farina, poi nell’uovo e poi nel grissino. Come noterai, manca il pangrattato perché ho deliberatamente scelto di non fare la doppia panatura-carroarmato. Mi basta già questa.

Il filetto è panato, il suo destino è segnato. Sciolgo un’abbondante noce di burro in una padella e faccio rosolare delle foglie di salvia. Sfrigolì sfrigolà, abbandono il filetto al fato e lo rosolo per bene finché, ambo i lati, non si forma una crosta bruna e croccante. Bastano 3 minuti circa per ogni parte a fiamma alta. Tolgo dal fuoco e aggiusto di sale.

Nel piatto colo un cucchiaio di salsa e sopra vi adagio il filetto che emana umori houellebecqiani che è una meraviglia. Anche sulla carnazza faccio gocciolare un po’ di salsa ai frutti di bosco. Fuori croccante, dentro al sangue, ah Miscél, dillo che ne vuoi un po’.

Stay tuna

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Quei film nella mia testa

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"Che sta pensando quiz?", diceva Nino Frassica nella storica trasmissione degli anni Ottanta Indietro tutta. Oggi vi invito a scoprire a cosa sto pensando io, come se foste voi a spiare me mentre sto leggendo.
Sono in una sala d'attesa e so già che il mio appuntamento è slittato di almeno un'ora, succede sempre così qui. Oltre a me ci sono altre donne che sbuffano perché anche il loro appuntamento è stato ritardato: c'è quella imbronciata che sfoglia una rivista senza neanche soffermarsi a leggere una pagina, c'è la mamma che cerca di placare la figlia che ha dovuto necessariamente portarsi dietro, c'è la futura mamma col pancione che, al telefono col marito, si lamenta di come, ogni volta, vada a finire così in questo posto. 

the juliette society Quei film nella mia testaScambio due chiacchiere di convenienza dopodiché tiro fuori il mio libro: è The Juliette society di Sasha Grey (Rizzoli Controtempo, 2013), sì proprio lui (il libro), sì proprio lei (la pornostar). Anche se sono in pubblico me ne frego, tanto il titolo non rivela niente di scandaloso e anche il nome dell'autrice non credo sia così familiare alle persone che mi circondano (ma non si può mai dire). Leggo un paio di pagine che, lo ammetto, mi provocano subito un frizzichino e un bollore sulle guance: vengo catalizzata in un altro mondo dove il sottofondo è una musichetta porno-romantica di quelle che si sentono proprio in quei film lì e la voce nella stanza dietro la porta (dove stiamo aspettando tutte di entrare a turno) è quella di una dottoressa sexy di quelle che voi, esperti di quei film lì, sapete benissimo come vanno vestite. Proseguo la lettura godendomi questa atmosfera ovattata che si è creata intorno a me e, soprattutto, nella mia testa e, può darsi, anche un po' nelle mie mutande. Mi aspetto che da un momento all'altro si manifesti un uomo accompagnato da un gruppo di femmine, vestite in quel modo lì pure loro, e immagino dialoghi assurdi che porteranno inevitabilmente allo svestimento di tutti (o anche solo di alcune parti di loro), quando una voce proveniente da quella misteriosa stanza esclama: "Che bella vagina!".

La voce della mia ginecologa superstar mi riporta precipitosamente alla realtà e mi accorgo che quella musichetta di sottofondo in realtà è Radio Capital. La dottoressa è una che fa ritardare i suoi appuntamenti perché ama il proprio lavoro e perde tempo a stupirsi e a commentare una delle tante vagine che visita ogni giorno. Inizio a fare il conto: tra turno in ospedale e visite in studio saranno, boh, una ventina al giorno? Beata lei, starete pensando voi uomini, vero? Ah no, siete ancora fermi all'infermiera sexy che si trova nella mia mente e che, probabilmente, ha il viso di Sasha Grey, non siete neanche riusciti ad arrivare al punto in cui parlavo della svestizione dei protagonisti di questa scenetta. Ah già, stavo leggendo Sasha Grey io. Chissà cosa pensano le altre donne in sala d'attesa? Potranno mai immaginare quello che è appena successo nella mia testa?

Guardo la signora che ha deciso di far fare i compiti alla povera figlia, imprigionata in una sala d'aspetto di uno studio medico. Poi guardo quella con la rivista in mano che deve aver trovato un articolo interessante perché sta leggendo concentrata, e poi la futura mamma che ha messo via il telefono e ha iniziato a leggere un libro di quiz per un concorso pubblico. Delusione totale, oggi sono decisamente io la protagonista indiscussa dei "libri degli altri", nessuno può battermi.

 

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Tanti auguri a William Faulkner, l’illustratore

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Pochi di voi sapranno che, proprio oggi, ricorre il centisedicesimo compleanno di William Faulkner, Premio Nobel per la letteratura nel 1949.
Qualche appassionato saprà forse che, prima di imporsi come uno dei più importanti autori statunitensi, Faulkner pubblicò a proprie spese una raccolta di poesie: The Marble Faun.
Era il 1924. Ne furono stampate mille copie. Vendute: una cinquantina.

Quasi nessuno sa, invece, che Faulkner aveva un'altra grande passione oltre alla scrittura: il disegno.
Tra il 1916 e il 1925 la University of Mississippi (che Faulkner ha frequentato per tre semestri prima di lasciar perdere, nel 1920) lo pagò per illustrare il giornale dell'Università, Ole Miss, e la sua rivista umoristica, The Scream.

I disegni realizzati dallo scrittore sono caratterizzati dall'evidente influenza della Jazz Age e dell'Art déco e si ispirano perlopiù all'opera dell'illustratore ed esteta inglese Aubrey Beardsley (che Faulkner stimava tanto da riservargli un posticino anche nei suoi romanzi, basti pensare ad Absalom, Absalom!).

Qui sotto trovate una piccola galleria dei suoi disegni (gli altri sono qui) tratti da William Faulkner: Early Prose and Poetry (reperibile gratuitamente anche online, se siete curiosi).
Date un'occhiata e poi diteci, se vi va, in che rapporto credete che stiano queste illustrazioni con quella che, in seguito, è stata l'opera letteraria di Faulkner. C'entrano qualcosa? Riconoscete qualche personaggio in particolare? Qualche indizio sulla vita del caro William? Fateci sapere!

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Will Self | Ombrello

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Will Self, Mantova, intervista

La foto proviene da qui

Quasi fino all’ultimo questa brioches ha corso il rischio di essere scritta in flusso di coscienza. Poi, per fortuna vostra, ho deciso che è meglio leggere il libro in quello stile (e basta), senza contare che io non sono che un umile cameriere di servizio presso il ristorante delle buone letture.

Ho intervistato Will Self a Mantova, ho preso appunti e ho sbobinato tutta l’intervista. Però, ammetto, non credo di essere stato molto brillante e di certo non ero alla sua altezza. Perché Will Self si è imposto con la violenza passiva di chi sa quello che vuole. Ad un certo punto, mentre gli facevo una domanda mi ha interrotto e mi ha detto “non hai capito niente”. È un inizio, ho pensato.

Will Self è magnetico. Il genere di persona che quando entra in una stanza diventa il centro gravitazionale della situazione. Voce profonda, occhi penetranti, naso e mani grosse. Fumava sigarette fatte a mano e aveva un bocchino.

Hi, I’m Andrea, Finzioni Magazine, nice to meet you

Will, how do you do

A quel punto mancava solo la tazza di te. Erano le 5, tra l’altro. Ombrello è l’ultimo romanzo pubblicato di Will Self, ero lì per fargli qualche domanda, gentilemente invitato da Isbn Edizioni.

ombrello will self Will Self | OmbrelloHo provato a chiedergli perché ha scritto un romanzo in flusso di coscienza, una scelta non certo facile nel 2013, epoca dei post brevi, delle battute contate e di twitter. Lui ha detto che twitter non lo conosce e che lui è un artigiano. Pazienza.

Allora ho fatto notare che si può immaginare il flusso come l'essere davanti ad un televisore in cui un tizio vicino a noi fa zapping quando gli pare. Beh, la similitudine del televisore non gli è dispiaciuta…

A questo punto dell'intervista mi sono sentito in dovere di citare Nabokov, principalmente perché l'aveva citato lui nell'intervista prima della mia e poi perché non volevo sfigurare. Allora gli dico qualcosa tipo "Will, Nabokov diceva che l'arte è difficile, è difficile farla ed è difficile apprezzarla. Ma in fin dei conti è meglio così perché si trae piacere da quella difficoltà…"

Altra cosa che vorrei dirvi, Will Self odia gli ombrelli. Che è come se io scrivessi un libro intitolato Cavallette e Orchidee. Non lo so, ma poi è logico che la gente un po’ si stranisce.

In realtà in tutto il libro il termine "ombrello" ricorre una ventina di volte, a cominciare dal paratestuale, prima del primo capitolo, con una citazione di Joyce. "Un ombrello è come un fratello, è facile dimenticarsene". In quella frase è riassunto molto del romanzo, a mio avviso: il conflitto, le relazioni con i propri affetti, gli ombrelli, la memoria… Ok, ma di che parla Ombrello?

Una donna, i suoi ricordi, la medicina psichiatrica di fine anni 70, i ricordi del suo medico curante, i fratelli di questa donna durante la prima guerra mondiale, le disavventure dei suoi due fratelli. Vi ho appena elencato i protagonisti.

Con gli ombrelli funziona così, ha detto Will nell’intervista prima della mia “Quando vuoi un ombrello, lo vuoi davvero. Quando non lo vuoi, non lo vuoi e basta.” E grazie, direte voi. Ma fermi, vi spiego perché. Wil Self ci parla del nostro rapporto con la tecnologia, siamo schiavi delle macchine che utilizziamo? In che modo la manifattura artigianale ma anche la produzione di massa modificano il nostro modo di rapportarci con il mondo?

Anche le medicine, come la televisione, sono una forma tecnologica.

Alcuni vi diranno che non c’è tecnologia senza società e vice versa non c’è società senza tecnologia: cosa sarebbero stati i romani senza le loro strade? O la riforma protestante senza la stampa a caratteri mobili.

Di certo uno dei compiti degli intellettuali, tra cui gli scrittori – diciamo di quelli che si sentono in dovere di rispondere a questa chiamata- è quello di trovare il prius logico. È prima la tecnologia a cambiare i modi in cui la società agisce o è la società a modellare la tecnologia in base alle sue esigenze. Qui, la mia opinione sul caso è del tutto irrilevante.

Will, invece, vede il nostro presente sotto il giogo della tecnologia e dei rapporti (di forza, aggiungo) che ne derivano. Sempre nell’intervista prima della mia ha domandato ad un giornalista “senza il tuo registratore, cosa saresti?”.

Alla mia osservazione su Nabokov (non me la sono scordata) lui ha risposto detto che sì, in fondo fare lo scrittore è anche questo. Non gli interessa essere capito in tutto e per tutto o ammirato in quanto tale: fare un romanzo vuol dire perdere tempo e fare dei sacrifici. È giusto che questi sacrifici li facciano anche i lettori.

Lui si sente un artigiano della pagina. Gli chiedo il perché, in Ombrello, di tante descrizioni vivide fino al limite del grottesco. (Vorrei anche fargli notare che questo, almeno in parte, è dovuto al fatto che siamo abituati ai televisori HD e al cinema in 3D).

Risponde svogliatamente, la domanda deve averlo un po’ scazzato. Quando scrive gli piace descrivere, perché è così che secondo lui dovrebbe essere un libro. Ed è anche da queste volontà descrittiva che è nato il flusso di coscienza. Mi dice "mentre sto descrivendo un vestito, diciamo questo (indica un vestito) vedo la tua barba e allora mi torna in mente la barba di Marx… a questo punto penso alle condizioni in fabbrica di inizio novecenti in Inghilterra." Per lui, almeno in parte, funziona così.

La mia ultima domanda è stata completamente evasa: gli ho chiesto il significato psicologico degli ombrelli (nel suo ultimo romanzo, si intende). Perché ad un certo punto un pene viene paragonato ad un ombrello rosa. Mi ha detto che non ho capito niente, che una volta mandata in stampa la versione finale del romanzo, la sua editor gli ha regalato un ombrello. “Allora non ha capito niente, io odio gli ombrelli”. Davvero. Leggendo Ombrello troverete questa frase "Gli ombrelli sono i nemici dell'uomo alto". Lui è alto, il resto dovete infierirlo da soli.

In definitiva, Ombrello di parla di tecnologia e società, in uno molto tutto suo: se cercate l’agiatezza compiaciuta di uno scrittore ammiccante, allora Ombrello lo lasciate sullo scaffale. Se preferite battagliare con un libro, lottare per capire il significato, la logica dei salti e il messaggio finale dell’autore, beh, Ombrello è il vostro libro.

So che questa intervista viene pubblicata con una settimana e un paio di giorni di ritardo, ma devo dire che al di là del flusso di coscienza, ero molto indeciso se parlare o meno di questo mio piccolo fallimento. Mi sono detto “parlo del libro e basta”. Però poi ho ripesato ad una cosa che ho sentito dire a Morgan Freeman mentre parlava di Thomas Edison. Quando glielo domandavano, lui  non parlava mai di “fallimento” diceva soltanto qualcosa tipo “ho trovato un modo per accendere una lampadina e 999 modi per farla fulminare”. A Mantova, durante il festival della letteratura, ho trovato uno dei 999 modi per fulminare un’intervista.

Mozione di merito per i traduttori.

Will Self, Ombrello, Isbn Edizioni, 368 pagine, 22,5€

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Parlar bene dei libri

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Bentornati a 'Dalla parte del lettore', la rubrica che risponde a se stessa anche se nessuno si è mai sognato di porle alcuna domanda. Ma quando mai! La volta scorsa si cianciava attorno al parlar male dei libri e dei rosiconi che rompono sempre le balle perché il loro romanzo nel cassetto è migliore di quello di Faletti. Bene, oggi facciamo tutto il contrario. Parlar bene dei libri è una cosa bellissima. Quando ti piace una cosa è un momento quasi godereccio quello dello sperticarsi in lodi, forse anche un poco esagerate. E a noi i libri piacciono un sacco, non tanto un titolo in particolare quanto proprio il concetto di libro in sè. Ma a volte si esagera.

Io ho sempre antropomorfizzato i prodotti culturali. Per esempio: se guardi una serie tv per sei anni e questa serie tv è bellissima, ti ha dato tanto, ti ha fatto compagnia, è cresciuta insieme a te e ha cambiato per sempre il paradigma televisivo, diventa come un tuo vecchio amico. Bene, se questa serie tv ha un finale che non ti piace, non è che ti metti a scrivere su twitter che è una cagata. La perdoni. Come se quel vecchio amico ti ha fatto un dispettuccio, non è che non gli parli più. Lo perdoni.

[TRIVIA: di che serie tv stiamo parlando?]

Anche un libro allora è un amico, o un fratello, o un cuginetto. E se gli vuoi bene, per quasiasi motivo – anche una bella copertina basterebbe, o un autore con un nome buffo – fai una fatica boia a parlarne male, ottundendo un pochino il tuo senso critico. Nello specifico, ecco i ruoli attanziali di chi vuole troppo bene ai libri.

IL MOSCIO

Il moscio vorrebbe parlare male dei libri che legge ma proprio non ce la fa. E' troppo affezionato. In alcune notti solitarie, mentre parla con la sua libreria (sic), gli sembra di sentire dei sospiri scricchiolare tra le vecchie assi e, a volte, sorprende un gabbiano Jonathan Livingstone o un Piccolo Principe che piangono perché tutti li trattano male e dicono che sono libri orribili e vergognosi per chiunque possegga una testa tra le due orecchie. E allora, scosso e provato da tanto dolore (e da tante minchiate), inizia la sua battaglia a favore dei grandi libri sottovalutati. Infatti, quando vedete tutti questi volumetti proprio vicino alle casse delle librerie, non è stata un'idea dei commessi ma di tutti i mosci del mondo che li riallocano vicino all'uscita per favorire la loro immonda circolazione.

IL SENSAZIONALISTA

Lo riconosci perché ogni volta che si avvicina a un assembramento sociale, spesso un aperitivo, spesso con dei Negroni, esordice sempre dicendo: "oh, ho letto il libro più bello dell'universo"! Le prime volte viene anche ascoltato, quasi riverito: finalmente qualcuno che parla bene dei libri ed è entusiasta delle sue letture. Poi però la sua credibilità inizia a crollare, piano piano, e come ogni buon Pierino con il lupo diventa lo zimbello della cumpa. A un certo punto arriva con La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker e apre bocca.
E si scatena l'inferno.

IL CROCIATO

Il crociato, a un certo punto della sua esistenza, sceglie un libro, uno a caso, e decide che quello è il libro più bello mai scritto. I criteri di selezione sono misteriosi e tramandati da generazione a generazione di crociati. Forse la dimensione, il numero di pagine? O la copertina? Non si sa. Fatto sta che potrebbe essere qualsiasi romanzo. Da quel momento in poi, dedica la propria (ormai misera) esistenza alla promozione di quel libro. Dappertutto. Ammorba amici, parenti, semplici conoscenti e ignari (e ignavi) passanti, finché almeno tutte le persone che ha toccato con il suo verbo non l'hanno letto dall'inizio alla fine. Quando suo cugino, o il suo amico d'infanzia, gli si avvicina e gli dice: guarda, non so come dirtelo, ma questo libro mi fa cagare, il crociato, ispirato dalle gesta dei suoi antenati, brandisce una grossa spada e minaccia il consanguineo fino a obbligarlo ad ammettere il contrario.

E voi? Quanto parlate bene dei libri? E soprattutto, quanto gli volete bene, ai libri?

 

 

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Dante e la selva oscura della narcolessia

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dante

Quando ero al liceo, negli anni dal terzo al quinto, due ore alla settimana o anche più erano dedicate alla Divina Commedia. L'"Inferno" era interessante, così interessante che ci hanno fatto pure un videogioco e Dan Brown ci ha fatto un libro, e con tutto quello splatter non si poteva non restare attenti, non ci si poteva perdere a fare i disegnini di fiorellini sul banco, sarebbe stato assurdo quanto disegnarsi stelline glitter sulle unghie guardando Saw. Col "Purgatorio" e il "Paradiso" era un'altra storia: quando non riuscivamo a rubare il libro alla professoressa per impedirle di spiegare, resistere al sonno era pressochè impossibile. Ebbene, ad anni di distanza, la scienza ci dà ragione: il nostro addormentarci era perfettamente in tema.

Il dottor Giuseppe Piazzi, del Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell'Università di Bologna, in uno studio pubblicato sullo Sleep Medicine Journal, ha esposto un'interessante tesi secondo cui Dante soffriva di una forma di narcolessia nota come narcolessia con cataplessia o Sindrome di Gelineau. La Gelineau è caratterizzata da attacchi incoercibili di sonnolenza diurna, spesso associata a un sogno. Il quadro della sindrome, oltre agli attacchi di cataplessia che si manifestano in fase di veglia e sono scatenati dalla sorpresa o dalle emozioni positive, si completa con allucinazioni legate al sonno che compaiono al momento di addormentarsi o al risveglio. La manifestazione clinica della sindrome ha due picchi di incidenza: il primo è intorno ai 15 anni, e il secondo intorno a 35 anni, che corrisponderebbe esattamente con il famoso «Mezzo del cammin di nostra vita» se calcoliamo la durata della vita media ai tempi di Dante.

Quella sull'incidenza, però, potrebbe essere semplicemente una coincidenza banale. I motivi che hanno portato Piazzi a sostenere questa tesi, sono da trovarsi, invece, in un'attenta analisi del testo della Commedia, che conterrebbe descrizioni fin troppo accurate di stati tipici della narcolessia con cataplessia: «occhi pieni di sonno», «corpo pesante», cadere al suolo «come un corpo morto» e via discorrendo. Piazzi, comunque, non è il primo a tentare di fare una diagnosi medica a Dante: il precedente illustre è Cesare Lombroso, che aveva diagnosticato al Sommo Poeta una forma di epilessia.

Probabilmente non sapremo mai se Piazzi o Lombroso hanno ragione, però gli studenti che si addormentano durante le spiegazioni della Divina Commedia a scuola, hanno una scusa in più: lo faceva pure Dante mentre la scriveva. Anzi, magari l'ha scritta proprio per condividere la sua narcolessia coi posteri.

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“Rileggo ogni anno Lessico famigliare e voglio una famiglia come quella dei Levi”

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Proust Pellas

Illustrazione di Alessio Sabbadini

 

Entrate, mettetevi comodi, prendete un tè? Latte e zucchero? Se preferite va bene anche un caffè, ma la nostra ospite è anglofila, quindi sfigurereste. Tè, allora? Benissimo. Vi presento Francesca Pellas, piemontese con quel sapore di buona vecchia Europa e Ottocento, allevata con tutti i crismi da signorina per bene: scorpacciate di Natalia Ginzburg, delle sorelle Brontë, di Jane Austen. Ah, e poi conoscete l'altra, che è sempre Francesca Pellas, che va matta per le storie dei vip (e ne scrive anche), soprattutto, manco a dirlo, se british. Credo che sia la stessa che a Torino ha dato il suo nome a un cocktail. Tutte e due, Francesca e Pellas, lavorano in una casa editrice, e si occupano di comunicazione, perché di scrivere scrivono da sempre e hanno un dono per la parola, soprattutto per la parola declinata in maniera simpatica, confidenziale, come se la vostra migliore amica venisse da voi un pomeriggio domenicale e vi raccontasse le sue ultime peripezie. Allora, volete conoscerla?

 

Nome: Francesca Pellas

Età: 27

Lavoro: assistente ufficio stampa e web content editor a Codice Edizioni

Blog/Twitter: Inseguendo la Regina e @lapellas

 

Come sei finito/a a fare quello che fai? 

Ci si è messo di mezzo il fato, come un po' in tutte le cose. Avevo da poco finito uno stage come copy (e capito che nelle mie vene non scorreva assolutamente il sangue del copy), quando la mia amica Gaia, che da quel momento ho sempre considerato il mio angelo custode, un giorno mi scrisse: «Ho saputo che a Codice Edizioni cercano uno stagista! Manda il curriculum!». Dopo un paio di settimane feci un colloquio. Ricordo ancora molto bene la telefonata in cui mi dicevano che tra tutti i candidati avevano scelto me: ero in treno, fu un momento fantastico. Finito lo stage, mi proposero un contratto, ed entrai ufficialmente in squadra. Ricordo benissimo anche quel momento lì, quando me lo dissero: mi sembrava di volare. Un'amica, vedendomi un paio di giorni dopo, mi chiese: «Hai gli occhi che brillano tantissimo, che cosa mi devi dire? Ti sei innamorata?».
A parte tutto, il mio libro preferito di sempre è Lessico famigliare della Ginzburg. Al liceo lo leggevo una volta all'anno; sono cresciuta con il culto della casa editrice Einaudi, e con due convinzioni: che la famiglia Levi era esattamente come quella che un giorno avrei voluto costruire, e che anch'io, prima o poi, avrei lavorato in una casa editrice, almeno per un periodo della mia vita. Ritrovarmi oggi proprio in quella fondata da Vittorio Bo è una coincidenza curiosa: non so se può farmi scomodare la parola destino, ma sicuramente è una di quelle cose che ti fanno dire che la vita è bella, che la vita la sa lunga.

Fare questo mestiere è «sempre meglio che lavorare»?

Non so voi, ma io prima di arrivare a questo mestiere ho fatto le cose più diverse: sono stata guida in una fortezza sabauda; signorina informazioni nell'ufficio turistico di una località sciistica; ho seguito per due anni le vicende della famiglia reale britannica per il sito di Vanity Fair; ho gestito il sito di un'associazione teatrale; ho lavorato in un call center; ho fatto appunto la copywriter junior in un ufficio pieno di spifferi e con la moquette lurida; ho collaborato con la redazione di Donna Moderna durante la Milan Fashion Week; e, soprattutto, per più di un anno ho fatto la cameriera in un pub, lavorando dalle 7 di sera alle 3 di notte, spaccandomi la schiena e le mani (letteralmente: a volte mi si accavallavano i tendini e rimanevano così per giorni, e io mi chiedevo se alla fine di tutto avrei ancora avuto in dotazione il pollice opponibile). Lavorare in quel pub comunque è stato meglio di un master: ho imparato la pazienza, l'umiltà, il costante esercizio della gentilezza, la resistenza fisica e l'amore per il lavoro ben fatto, qualunque esso sia. In fondo non invidio la gente della mia età che ha sempre e solo lavorato in ambito culturale (la casa editrice, il giornale, il magazine figo, la galleria d'arte): il mondo non è solo quello. Avere la possibilità di starci dentro è meraviglioso, certo, ma se io mi sveglio la mattina felice di andare in ufficio è anche perché so di essere fortunata. Forse, se questa fosse stata da subito la mia realtà, non la apprezzerei allo stesso modo. Ciò detto, non è che nell'editoria non ci siano fatiche, anzi: molto spesso non ci sono orari, per dire. Faccio un paio di esempi: mi è capitato di scrivere mail di lavoro all'una di notte con l'iPhone da una festa di compleanno, e di aggiornare Twitter e Facebook da un pranzo di nozze (perché era appena morta Margherita Hack e un nostro autore le aveva dedicato un articolo, che giustamente doveva andare online quel giorno, non l'indomani). Durante il Salone del Libro, poi, non ho mangiato per due giorni (e chi mi conosce sa che è una roba da fantascienza): avevo troppe cose da fare, troppi posti in cui correre, troppa adrenalina in corpo. Dico spesso che fare questo mestiere è un po' come essere in viaggio di nozze con me stessa: lavoro in mezzo ai libri e con il web, due delle mie più grandi passioni, e sono felice, felice, felice. Poi certo, l'abitudine e la routine s'insinuano dappertutto: ci si abitua a tutto, anche alle felicità più cristalline. Ciononostante, non c'è giorno in cui non mi ritrovi a dire, almeno una volta, «Santo cielo, amo il mio lavoro».

Vuoi più bene a Proust o a Joyce? 

Come direbbe Lorelai Gilmore: «Non ho mai letto Proust. Avrei sempre voluto. Infatti, spesso mi assale un grande desiderio di dire qualcosa come l'avrebbe detta Proust, ma non ho idea di che cosa abbia detto, quindi lascio perdere». Mi limito a citare a sproposito la cosa delle madeleines, che è l'unica che conosco, anche perché la conoscono tutti. Su Joyce invece sono più preparata: la mia professoressa d'inglese del liceo aveva una passione per Joyce, quindi, pur senza averli letti, so disquisire con una certa boria sia sull'Ulisse, sia sul Finnegans Wake. Non dimentico mai di dire «Buon Bloomsday» il 16 giugno, eccetera. A breve, però, intendo porre rimedio alla mia cieca ignoranza: ho bramato moltissimo la nuova edizione dell'Ulisse tradotta da Celati per Einaudi, e un'anima gentile me l'ha regalato, guadagnandosi la mia gratitudine eterna.

L'ultimo libro che hai letto?

A novembre andrò per la prima volta a New Yorke sono così emozionata che sto facendo solo letture a tema: Auster, Safran Foer, McInerney, Lethem e compagnia bella. Ho appena finito New York è una finestra senza tende di Paolo Cognetti (Laterza). Mi è piaciuto molto.

E invece da adolescente cosa leggevi?

Di tutto. Al di là della passione enorme per Lessico famigliare, di cui ho già parlato, e di quella ovvia per Harry Potter, avevo la casa al mare zeppa delle sorelle Brontë della mia nonna materna: a tredici anni in spiaggia leggevo Jane Eyre, cosa questa che evidentemente mi ha lasciato turbe irrimediabili. Poi c'era la mia zia paterna, che per ogni compleanno mi faceva arrivare per posta da Genova un pacco pieno di meraviglie, tutte rigorosamente con testo originale a fronte: Conrad, Jane Austen, perfino Shakespeare. Grazie a lei, a sedici anni ho letto l'Amleto e Romeo e Giulietta, e scoperto Elizabeth Bennet: in effetti è un grazie molto grande, quello che le devo dire. Ah, poi leggevo un sacco di chick lit. Un botto di chick lit. Avevo un'idolatria per Helen Fielding: Il diario di Bridget Jones l'ho riletto mille volte. Rileggevo molto spesso anche quelli che erano stati i miei libri preferiti da ragazzina: Vacanze all'isola dei gabbiani di Astrid Lindgren, Boy di Roald Dahl, e un giallo junior della Mondadori, Il mistero del metrò, ambientato nella metropolitana di Londra. Leggevo tutto quello che trovavo sulla mitologia greca – che è una delle mie grandi passioni -, e in terza media facevo un gran traffico di Piccoli Brividi della Mondadori con il mio compagno di banco. Al liceo, poi, amai talmente tanto La schiuma dei giorni di Vian e L'antologia di Spoon River che riuscii a ficcarli persino nella tesina di maturità. Ma comunque sono sempre stata una lettrice estremamente onnivora: ho letto di tutto, anche Tre metri sopra il cielo di Moccia.

Cocktail preferito?

Dipende. Bellini come aperitivo. Dopo cena invece non so mai cosa ordinare, quindi finisce sempre che prenda Coca e rum, o Vodka lemon, o Gin lemon, o Vodka tonic: uno di questi quattro a caso. Anche perché non sono un'esperta: per me i cocktail si dividono in due categorie, cioè buono e non buono. Non posso però rispondere a questa domanda senza far sapere all'intera nazione che allo Sbarco, un locale a San Salvario (un quartiere di Torino) hanno chiamato un cocktail col mio nome. A dirla così sembra che io sia una tipina giusta che conosce tutti i posti e i tipini giusti, cosa che non è; in realtà è capitato che una sera chiedessi un succo alla pesca con aggiunta di amaretto Disaronno: il barista non aveva mai sentito nominare una roba simile, ed era basito. Io, che lo bevo dal liceo, ero più basita di lui. È finita che me l'ha preparato, e poi se n'è preparato uno per sé, trovandolo buonissimo e chiedendomi di battezzarlo. E visto che, come ho già detto, non ho l'anima del copywriter, ho risposto: «Bah, non mi viene in mente niente. Se proprio dobbiamo dargli un nome, chiamiamolo come me: Pellas». Lui ha passato il resto della serata a offire Pellas a destra e a manca, e io a vantarmene moltissimo. Lo so, non è esattamente un cocktail, ma pazienza. Uh, poi mi piace molto la Sambuca. Ma nemmeno la Sambuca è un cocktail, quindi niente.

Vorresti aver scritto tu Cinquanta sfumature di grigio

Di sicuro vorrei avere il conto in banca che si è fatta E.L. James.

Jonathan Franzen vuole diventare tuo amico: gli offri un aperitivo?

No, gli offro un Pellas. A patto che ne dica solo meraviglie.

Hai un lettore ebook? 

No. Questo fa di me una reietta, me ne rendo conto. Intendo però rimediare, perciò grido ai mondi e alle galassie che ne desidero assolutamente uno: parenti, amici, prendetene pure nota, grazie! Dopotutto il mio compleanno e Natale si avvicinano. Entrambi.

Sai distinguere il Simoncini dall'Helvetica?

Venezia è bella ma non so se ci vivrei.

(Comunque sì, dai).

Il futuro dell'editoria è il digitale, il social o le ciambelle fritte? 

Il futuro dell’editoria è e sarà sempre la lettura, non importa in quale forma. Anzi, ben vengano modi sempre nuovi di leggere.

Dove compri i tuoi libri?

Nelle mie librerie preferite e su Amazon. C'è poi la mia famosa "lista dei libri che chiederei in regalo", che faccio girare tra i parenti poco prima di Natale. Il bello di lavorare nell'editoria, però, è che si inizia anche a conoscere gente che lavora in altre case editrici e che così, per simpatia, ti porta libri in dono. Quando succede non so gli altri, che magari ci son più abituati, ma io mi sento benedetta dagli dèi.

Le serie tv sono meglio dei romanzi o ci vanno molto vicino?

Sono due forme diverse di narrazione. Entrambe godibilissime. Ed entrambe danno dipendenza.

Ultimo viaggio fatto?

Ad agosto io e la mia coinquilina siamo andate a Roma a trovare l'altra nostra coinquilina, che ha vissuto lì tre mesi per uno stage. Roma è la città in cui vorrei abitare, e ci vado ogni volta che posso. Appena prima di ripartire per tornare a casa mi metto a piangere ovunque, anche dal panettiere.

Quante lingue e dialetti parli?

Posso dire che mi fanno tanto ridere quelli che a questa domanda rispondono includendo anche il latino e il greco? Davvero se – puta caso – si aprisse una breccia nel continuum spazio-temporale e foste catapultati nel Peloponneso nel, che so, 427 a.C., mentre là infuriava una guerra terrificante, sapreste cavarvi d'impiccio se rapiti, o malmenati, o ridotti in schiavitù? Non credo proprio. Anch'io ho fatto il classico e ne vado fierissima, ma ci sono modi meno ridicoli di farlo sapere al resto del mondo. Detto questo: oltre alla mia lingua madre, parlo bene l'inglese (perché per l'inglese ho sempre nutrito una passione enorme, fin da ragazzina). Ho studiato il francese per otto anni e lo sapevo molto bene; purtroppo, però, è vero che se una lingua la si pratica poco la si perde, non c'è niente da fare. Oggi lo so quindi abbastanza bene, ma non come un tempo, e non come so l'inglese. Per quanto riguarda i dialetti: sono nata e cresciuta in Piemonte e mio papà è genovese. Il risultato è molto bizzarro: il piemontese lo capisco tutto (o almeno, visto che varia moltissimo da zona a zona, capisco quello di Cuneo città e dintorni), ma non sono in grado di parlarlo senza far ridere chi mi ascolta. In genovese purtroppo non so quasi nulla, tranne i vezzeggiativi (perché giustamente è con quelli che da piccola venivo chiamata).

Il libro del futuro è senza pagine e si naviga con lo sguardo?

Sarebbe bello se il libro del futuro potesse offrire un'esperienza sensoriale a tutto campo, ovvero se ci si potesse entrare dentro e veder accadere le cose, sentendo la voce dell'autore che spiega e racconta e ci svela segreti, e vedendo i personaggi in azione. O almeno sarebbe bello che al lettore venisse offerta quest'opzione, e che stesse a lui la scelta: lettura normale o lettura potenziata?

Chi vorresti essere nella tua prossima vita?

Ammettendo la possibilità che il tempo sia ciclico, e che quindi un eterno ritorno di epoche già passate sia ipotizzabile, vorrei essere una principessa guerriera, senza ombra di dubbio. Vorrei vivere in Scozia in pieno Medioevo, avere i capelli rossi, essere burbera, scassacazzi, e campionessa di tiro con l'arco. Vorrei avere qualche potere magico, o almeno essere amica di una strega o di un mago. In effetti quando l'anno scorso è uscito Brave della Pixar ho pensato: accipicchia, ma questa sono io.
E uh, vorrei avere un destino pazzesco: vivere un amore tragico con un eroe nazionale, o essere io stessa – meglio ancora – un'eroina nazionale che venga ricordata nei secoli dei secoli. Ma è molto importante la cosa dei capelli rossi: voglio avere i capelli rossi.

Cosa fai oltre a lavorare nell'editoria?

Prima di tutto passo quasi la metà delle mie giornate a rispondere a quelli che mi chiedono se il mio cognome sia sardo (cioè quasi tutti) spiegando che no, non è sardo, ma greco. Poi vado molto al cinema. Moltissimo al cinema: da un minimo di una volta a settimana (quando butta malissimo) a un massimo di non dico tutti i giorni, ma quasi. Tengo una rubrica settimanale sul sito di Cosmopolitan, in cui parlo degli amori dei divi (quelli veri, cioè Hollywood e dintorni: we don't do Belèn Rodriguez). Scrivo sul mio blog. Cerco di vedere i miei amici il più possibile. Cerco di scoprire sempre nuovi posticini in cui si mangi bene. Parlo, parlo, parlo sempre (come si evince anche da quest'intervista). Guardo parecchia tv. Compro cazzatine da Tiger. Leggo molto, ma sempre meno di quanto vorrei. Cazzeggio sui social. Ascolto molta musica. Bevo molto caffè. Spero di laurearmi presto (studio Storia medievale: prima o poi, appunto, spero anche di finire). Come tutti, sto scrivendo un romanzo. E a breve, dopo anni vissuti con coinquilini, vado a vivere da sola. Se tutto va bene, a fine mese avrò un nuovo passaporto, la mia prima carta di credito, e un bilocale senza bidet. Tutto sommato, pensavo che diventare adulti fosse meno difficile.

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Intervista a Giuseppe Rizzo

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giuseppe rizzo

(photocredit: Gianfranco Pisoni)

Quest'estate mi sono imbattuta nel libro Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, dell'agrigentino Giuseppe Rizzo edito da Feltrinelli. Si è trattato di un bell'incontro perché il libro è un intramuscolo di verità spinta dall'ironia.

Inizia dal titolo l’autore a far fuori i luoghi comuni sulla Sicilia e sui siciliani. Giuseppe Rizzo alla Sicilia gliele suona. Come? Leggete un po' qui:

Bisognerebbe mettere mano alla pistola ogni volta che qualcuno dice della splendida decadenza e dell’irredimibilità di questo posto, come fanno Camilleri Pirandello Tomasi. Bisognerebbe appiccare il fuoco, incendiare tutto, cambiare i connotati toponomastici e geografici di quest’isola, togliere ogni punto di riferimento agli isolani e al resto del mondo. Bisognerebbe, ecco, bisognerebbe, che qualcuno si decidesse a scrivere un piccolo manuale per organizzare una guerra lampo, radere al suolo la Sicilia e resettare la mente di quelli un po’ cretini [...]

Lo dice Gaga, uno dei personaggi più belli di questa storia, come dargli torto.

La storia è raccontata da Osso; poi ci sono Pupetta e naturalmente Gaga. Sono cresciuti insieme e si ritrovano a Lortica, il loro paese d'origine, per mettere in atto la loro piccola guerra, una guerra che cova dentro di loro ormai da molti anni: la guerra contro i pidocchi. Chi sono i pidocchi? Sono i membri della famiglia Di Mauro, tutti delinquenti. Perché sono pidocchi? Perché quando ti si attaccano ti viene da grattarti, ma non lo puoi fare perché altrimenti gli altri si accorgono che li hai presi, allora non ti gratti, li lasci lì. In questo modo Lortica è diventata un paese di pidocchiosi e chi non li ha dice che non esistono, ma quali pidocchi?!

Così i tre giovani, che ormai hanno abbandonato la Sicilia da tempo, tornano a Lortica e si accorgono che è tutto come prima, come quando erano ragazzini, stesse strade, stesse facce, stessi pidocchi. Allora guerra sia.

Una volta letto il libro mi è venuta una gran voglia di fare delle domande all'autore, ci sono riuscita! Appuntamento su Skype et voilà…

La critica ha preso bene il fatto che tu abbia "toccato" mostri sacri della letteratura sicula come Pirandello e Tomasi di Lampedusa o qualcuno se l'è presa?

Credo che sia arrivata l'ironia. C'era un po' il rischio che potesse essere preso tutto molto sul serio, per fortuna non è stato così. C'è da dire che la letteratura è fatta di antipatie e scontri, ma chiaramente bisogna essere lucidi il più possibile per mantenere il senso delle proporzioni. Quando uno dei tre protagonisti del libro dice che Tomasi di Lampedusa, Camilleri e Pirandello sono il male assoluto, è feroce, per molti ai limiti della blasfemia, dentro queste parole c'è rabbia, scorno per il fatto che la Sicilia venga letta ancora attraverso pagine ormai ingiallite e non più in grado di restituire la complessità del presente dell'isola. E questa cosa ai lettori e ai critici per fortuna è arrivata.

Il fatto che tu viva a Roma da molti anni ti ha permesso di vedere le cose della tua (nostra) terra con la dovuta distanza? La lontananza ha fatto da lente d'ingrandimento?

Ritorno in Sicilia molto spesso. Leggo le notizie sull'isola, parlo con i miei amici. Probabilmente non me ne sono mai andato. Indubbiamente vivere fuori mette un filtro che ti consente di vedere un po' meglio le cose: l'ironia, poi, è questo, distanza attenta verso l'oggetto raccontato.

I tre protagonisti, oltre che una guerra contro il sistema, mettono in atto una guerra contro le "minchiate", come per esempio quelle dette dal Sindaco di Lortica o dal comandante dei Carabinieri, come se in bocca alle autorità le minchiate diventassero verità, ma lo sanno tutti che trattasi di minchiate. Quali sono le minchiate che non sopporti?

Ci sono delle storture che complicano la vita e noi siciliani siamo campioni nel complicarcela con capolavori assoluti della minchiata. Per dire, a un certo punto, è accaduto che molti abbiano smesso di credere di essere responsabili dei propri gesti. Si è consumata, nell'isola, e nel cuore di molti isolani, una deresponsabilizzazione lagnosa e crudele: la politica non va bene ma continuo a votare gli stessi, il mio paese è sporco ma continuo a buttare la spazzatura dove mi capita, non c'è lavoro ma continuo a schiavizzare i migranti che mi fa proprio comodo, la mafia mi fa schifo però basta parlarne sempre; la Sicilia non è più quella di 50 anni fa ma sui giornali, in tv e al cinema continuo a raccontare quegli stereotipi che almeno vendono. Tutto questo – e molto altro – ha affamato un popolo, intellettualmente e materialmente, e un popolo che ha fame non è un popolo libero. Lo dico con molto affetto, ma siamo a un passo dal fotterci con le nostre stesse mani – e fottere l'Italia tutta.

Nel tuo libro si fa cenno ad una cosa che chi è nato in Sicilia si sente ripetere fino alla nausea: «Cu nesci, arrinesci.» (Chi se ne va, riesce). I tuoi personaggi però hanno voglia di tornare, malgrado tutto; è quasi una voglia irrazionale e tornano con uno scopo, cercare di cambiare le cose.

Guarda, io non sono molto affascinato dalla retorica del ritorno né da quella delle radici. Mi affascina però il cortocircuito che vive in questi anni la Sicilia: da un lato la testardaggine di molti di restare (o ritornare) e fare qualcosa, dall'altro l'occhio critico di chi vede in questa scelta un che di irrazionale ( e di ricattatorio: "facile vivere fuori e fregarsene" si sente dire spesso in giro). I tre trentenni di Piccola guerra lampo sono dentro questo cortocircuito: vivono fuori, ritornano, ma non vogliono assolutamente salire sul piedistallo degli eroi presunti tali. Le domande che si fanno sono, per lo più: quale merito abbiamo nell'essere nati in un'isola che ha mille problemi? E per la semplice casualità di esserci nati dovremmo avere delle responsabilità? Questo nodo lo sciolgono con un pensiero semplice (a loro modo): nessun ricatto, nessuna missione, nessun senso di colpa, ma se sentiamo di fare qualcosa facciamola, anche se piccola, quotidiana, sarà una piccola rivoluzione  personale di cui magari gli altri non si accorgeranno, ma che la sera, a letto, tra le braccia dei nostri amori, o da soli, o persi negli occhi dei propri figli, ci farà stare meglio.

Tu i mafiosi li chiami pidocchi. Secondo te, i pidocchi sanno di esserlo, sanno che la gente li schifa?

Io credo che questa sia una delle grandi fratture nel racconto e nell'autoracconto (e quindi nella percezione, e quindi nella realtà) che oggi sta vivendo Cosa Nostra in Sicilia. Gli anni 90 sono stati fatali. Le stragi, gli arresti, quei volti da beoti dei grandi capi mafia in cella, tutto questo ha prodotto una "cura ludovico" nei siciliani. È chiaro che molti hanno preferito tenere gli occhi chiusi – è una situazione comoda, stare con gli occhi chiusi, anche se in molti casi è stato anche un modo per sopravvivere. Ma il volto e i volti di Cosa Nostra oggi sono cambiati e dobbiamo continuare a ripeterlo sempre, quanto misera sia la vita di queste quattro galline ridicole (pur nella ferocia che ancora riescono a esprimere). Se ci concentriamo su questo, se scrostiamo i pidocchi dall'aura epica che negli anni si è accumulata in libri patacca e in una filmografia da quattro soldi, possiamo aiutare chi come imprenditori, magistrati, carabinieri, professionisti, ma pure operai, agricoltori e disoccupati fa tutti i giorni i conti con una presenza ancora forte – ma allo stesso tempo debolissima.

C'è una domanda che ormai è il marchio di fabbrica delle interviste finzioniche, ed è: con quale personaggio/scrittore/scrittrice ti piacerebbe andare a cena e flirtare un po'?

Zelda Fitzgerald e la New York o la Parigi degli anni perduti, ma è evidente che non so di cosa sto parlando.

 

Giuseppe Rizzo, Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, Feltrinelli 2013

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Bye-bye, settembre

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Ultimo fine settimana di settembre un po' così, bello ma ormai in mood autunnale. Godetevi quindi l'ultimo sole e le prime foglie dorate in compagnia dei nostri consigli di lettura ispirati al meteo. E buon ottobre!

Nord

Sabato soleggiato e temperature stabili con massime tra i 22 e i 27°C; domenica piogge diffuse e temperature in forte calo con massime tra i 19 e i 24°C. 

Consiglio di lettura: cambiamenti così repentini di certo non giovano allo spirito, perciò vi consiglio di cercare la catarsi con la lettura di Manfred, poema metafisico composto da quel gran genio di Lord Byron (già nostro dietologo di riferimento, peraltro). Soprannaturale e gotico con un pizzico di incesto, devo forse aggiungere altro? C'è perfino Carmelo Bene che garantisce per me. 

Centro

Sabato bel tempo con qualche velatura in arrivo da ovest e massime tra i 24 e i 27°C; domenica pioggia in espansione e temperature in calo. 

Consiglio di lettura: eh, brutto tempo in arrivo, non c'è niente da fare; consolatevi con Gli indifferenti di Alberto Moraviaun classico del nostro Novecento e un'occasione per ricordare il grande scrittore romano, scomparso esattamente ventitré anni fa. 

Sud e isole

Sabato giornata stabile e soleggiata e massime tra i 25 e i 28°C; domenica sereno con qualche sporadico piovasco. 

Consiglio di lettura: il bel tempo vi assiste, quindi cercate di approfittarne il più possibile in compagnia di Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald, bellissima graphic novel scritta da Tiziana Lo Porto e illustrata da Daniele Marotta. Ah, quanto vi invidio. 

Buona lettura e buon weekend!

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Re-Kiddo: Magarìa, il nuovo di Camilleri… per bambini!

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130918 magaria Re Kiddo: Magarìa, il nuovo di Camilleri... per bambini!

http://heykiddo.it/novita/in-libreria/magaria-uscito-il-primo-libro-bambini-firmato-camilleri/

Da adesso anche i kids hanno un libro di Camilleri da poter sfoggiare per fare concorrenza a mamma e papà fan appassionati del grande autore siciliano e che non si perdono una puntata di Montalbano (repliche comprese!). Il 17 settembre è infatti uscito in libreria Magarìail primo romanzo per bambini di Andrea Camilleri illustrato da Giulia Orecchia ed edito da Mondadori. Siete impazienti di leggerlo?

Racconta… cliccate qui per scoprirlo!

Vi diciamo già che la fiaba ha tre possibili finali! Inoltre è arricchita da illustrazioni sognanti, luminose e piene di colore, opera di Giulia Orecchia. Per avere un’anteprima date un’occhiata al suo bellissimo blog.

 

http://heykiddo.it/novita/in-libreria/magaria-uscito-il-primo-libro-bambini-firmato-camilleri/

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Orfani di Moravia, ma orgogliosi

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Oggi è l'anniversario della morte di Alberto Moravia. Nato il 18 ottobre del 1907, morì il 26 settembre del 1990, ventitré anni fa. Oltre a segnalare la ricorrenza, ci si può interrogare in vari modi. Le prime domande che mi vengono in mente sono, in ordine sparso: che eredità ci ha lasciato? Abbiamo saputo sfruttarla o l'abbiamo sperperata come i figli che mandano fallita la ditta paterna? Cosa direbbe Moravia oggi? Cosa scriverebbe? Di che parlerebbe? Con chi e con cosa si confronterebbe? 

Parlare di un autore talmente grosso non è per niente facile. È un po' come dover prendere le misure a una montagna con il metro dell'Ikea. Si può cominciare da una parte, prenderlo per un verso anziché per un altro, ma alla fine quello che si finisce per constatare è sempre accompagnato da una sorta di affanno estatico, dal rossore che ci colora le guance davanti a qualcosa di solenne. Ecco, se penso a Moravia, alla sua espressione severa e alla sua opera immensa, sento come se una solennità magnetica mi impedisse di sgattaiolare via. È una sensazione non molto diversa da quella che si può provare davanti a un enorme monumento o ai resti delle antiche mura romane e interessa qualsiasi considerazione si voglia fare. Moravia, ad esempio, cominciò a scrivere Gli indifferenti a soli diciotto anni e lo pubblicò che ne aveva ventidue. Fino all'uscita di Agostino, molti lo considerarono autore di un solo libro, incapace di fare meglio dell'esordio. La solita fortuna del principiante, dovette pensare qualcuno, ma sappiamo poi com'è andata. 

Quando si parla di Moravia si finisce per parlare anche di Elsa Morante, di Pier Paolo Pasolini, di Dacia Maraini, di Carmen Llera, di Africa, di armi nucleari, di letteratura come impegno. In questo accendersi concitato di immagini in bianco e nero e a colori scorre davanti agli occhi il film di un'epoca che sembra irripetibile, in cui in Italia non solo si faceva Letteratura, ma ci si poteva permettere di insegnarla agli altri. Nel naturale confronto tra presente e passato che ogni ricorrenza ispira, scivola su queste immagini un velo di nostalgia che deve essere contenuta a fatica per non tramutarsi in barbosa retorica. Riprendendo le domande iniziali, provo a immaginare Moravia oggi in un'intervista mentre parla con la sua solita e autorevole lucidità di attualità, commentando un fatto di cronaca politica o l'uscita di un nuovo romanzo. E anche oggi non si riuscirebbe a non pendere dalle sue labbra, non si potrebbe ignorare la sua parola scritta né si riuscirebbe a farne a meno. Perciò oggi possiamo e dobbiamo ricordare Moravia come l'immenso scrittore che ha impreziosito il Novecento, la nostra Letteratura e la nostra società e dobbiamo sentirci un po' come degli orfani orgogliosi. Certo è, purtroppo, che oggi Moravia ci manca eccome, perché ci manca soprattutto un Moravia, uno di quelli che, ai presunti guru letterari che ci ritroviamo, farebbe distorgliere lo sguardo con una sola occhiataccia. 

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All’inizio comparve un quadro.

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All’inizio comparve un quadro.

All’inizio comparve un quadro. Stavo facendo colazione seduto al tavolo della cucina e lo vidi sul muro davanti a me, in alto, sopra il frigorifero. Fermai la mandibola che masticava il biscotto e mi domandai che diavolo ci faceva lì un quadro, chi l’aveva messo? Forse la donna delle pulizie aveva pensato di sfruttare quel vecchio chiodo, anche se era da molto che non la vedevo. Dentro la sottile cornice rossa c’era un foglio su cui era disegnata la caricatura di un uomo, un uomo che mi somigliava. Sorrisi scuotendo la testa e riattivai la mandibola.

La mattina seguente entrai in cucina fischiettando ma fermai subito il diaframma: non potevo credere ai miei occhi. Nell’angolo tra il lavello e il muro c’era una lavastoviglie, una lavastoviglie che non avevo mai visto prima. La aprii: era piena di piatti sporchi. Corsi a controllare la porta d’ingresso, le finestre, il condotto d’areazione in cui persino i topi passavano a stento. Era tutto chiuso. Porta blindata con tutte le mandate, tapparelle abbassate, e avevo sempre preteso che non ci fossero copie delle chiavi in giro. Arrivai a pensare che qualcuno si fosse intrufolato durante il giorno, con una lavastoviglie in tasca, e avesse aspettato le tenebre per giocarmi quel tiro. Aprii tutti gli armadi della casa, cercai telecamere per quella che poteva essere una candid camera. Niente.

Il terzo giorno mi alzai presto e cercai di lavarmi i denti con disinvoltura, ma guardandomi allo specchio capii che avevo paura di scendere al piano di sotto. Dopo una notte intera chiuso a chiave in camera da letto non mi sentivo sicuro.
Mi feci coraggio e presi le scale per raggiungere la cucina, ma sugli ultimi scalini fermai le gambe: questa volta la sopresa arrivò in anticipo. Al centro della sala, dove prima c’era solo un tappeto, qualcuno aveva piazzato un divano a tre posti. Davanti al divano, su un mobiletto, un televisore enorme. Iniziò a girarmi la testa e fui costretto a sedermi sulle scale. Per quanto potesse sembrare assurdo, qualcuno stava arredando la casa contro la mia volontà.

Corsi giù in pigiama per fare al portiere una domanda che avrebbe animato i pettegolezzi di un anno almeno: “Ha visto entrare qualcuno con un divano? E un televisore.” Lui scosse la testa e disse: “No no, nessuno.” Mi confermò che non esistevano altre chiavi di casa mia. “Un divano delle dimensioni che lei racconta non entrerebbe dalla porta” aggiunse. “Di solito li facciamo entrare con un montacarichi dal balcone e le assicuro che un montacarichi non passerebbe inosservato.” Studiai il suo volto mentre parlava, poteva essere un complice in tutta questa faccenda o addirittura l’ideatore. Mi sembrò sincero.

Tornai in casa ed esplorai il nuovo arredamento. Sembrava usato, da parecchio anche. Il divano aveva delle enormi macchie, peggiorate da qualcuno che aveva cercato di toglierle con un detergente aggressivo. Sollevai i cuscini alla ricerca di un indizio. Trovai una penna, tantissime briciole e l’involucro di una merendina.

Mi concentrai a lungo per arrivare a una spiegazione. Non riuscii a trovare nulla di convincente. Pensai che sarebbe stato meglio passare la notte successiva da qualche parente, ma presto mi resi conto di non avere nessuno in città. Provai a prenotare una camera d’albergo e dopo aver composto il numero di telefono cambiai idea: non avrei dormito fuori mentre qualcuno violentava il mio libero arbitrio riverniciando le pareti.

Quel mistero era durato fin troppo. Raggiunsi con l’automobile un centro commerciale specializzato in bricolage e comprai un kit di videosorveglianza con microtelecamere e una centrale di registrazione. Trascorsi tutto il giorno a installarlo nelle stanze del piano terra preoccupandomi di occultare per bene ogni cavo. A fine serata, stanco per il lavoro e il continuo rimuginare, sprofondai nel letto.
Non potevo ancora saperlo, ma quello che era successo era niente in confronto a quello che avrei trovato la mattina seguente.

Mi svegliai e fermai subito i muscoli delle palpebre: sentivo che c’era qualcosa di diverso nella camera. Aprii gli occhi: qualcuno aveva sostituito il letto mentre dormivo. Sentii un profumo insolito e mi voltai di scatto. Scoprii che ero su un letto a due piazze. E che nell’altra piazza dormiva una sconosciuta.
Frenai l’impulso di urlare e cercai di sincronizzare il mio respiro con il suo mentre ne studiavo i lineamenti. Una donna sui trentacinque anni, carina ma niente di speciale. Uno di quei volti che ti sembrano familiari solo perché li hai visti migliaia di volte in migliaia di persone. Indossava un pigiama orribile.
“Ehi” sussurrai.
Ripetei più forte “Ehi.”
La donna aprì gli occhi, si guardò intorno, realizzò di essersi appena svegliata e tornò a guardarmi.
“Chi sei?” chiesi.
“In che senso?” disse lei con la voce impastata dal sonno.
“Da dove vieni? Cosa ci fai in camera mia?”
Mi fissò a lungo. Sembrava non capire la domanda. Poi disse: “Sono tua moglie.”

Schizzai fuori dalle coperte, afferrai scarpe e vestiti, feci di corsa le scale e mi precipitai fuori dal palazzo. Che diavolo stava succedendo? Se non era uno scherzo, allora stavo impazzendo. Va bene qualche mobile, avrei tollerato persino un animale domestico e un nuovo taglio di capelli, ma questo giochino della moglie era inquietante. In piedi sul lato opposto della strada cercai le finestre del mio appartamento. La tendina della camera da letto era scostata e dall’interno quella donna mi stava osservando.

Alla centrale di polizia chiesero più volte cosa fosse accaduto. Quando l’uomo a cui parlavo finì il suo turno e mi chiese di raccontare tutto dal principio al tizio che lo sostituiva capii che non mi avrebbero aiutato. Dissi che sarei tornato il giorno seguente con altri dettagli, vagai per la città e alle prime luci dell’alba tornai a casa.
Aprii la porta d’ingresso lentamente per non fare rumore. Tutti i nuovi oggetti erano ancora al loro posto. Salii al piano di sopra ma non ebbi il coraggio di entrare nella mia stanza. Mi chiusi a chiave nella camera degli ospiti: dovevo pensare, e per pensare dovevo recuperare il sonno perso negli ultimi giorni.

Ventitrè e dodici. Credo di aver dormito per tutto il giorno. Devo andare in bagno. Ascolto la casa per cogliere anche il rumore più piccolo. Mi faccio coraggio ed esco dalla stanza. Sembra tutto tranquillo. Cammino piano, poi vedo qualcosa e blocco all’istante tutti i muscoli del corpo. Mio dio. In fondo al corridoio c’è una porta. Una porta che prima non c’era.
All’improvviso divento tranquillo. Una nuova porta è il limite oltre il quale la paura diventa smarrimento e lo smarrimento diventa accettazione. La osservo da vicino, guardo il punto in cui gli stipiti si incontrano col muro: non è possibile che l’abbiano installata durante la notte. Abbasso la maniglia. È chiusa a chiave. Magari la porta è solo incollata al muro. Spio dal buco della serratura e mi sembra di intravedere una scrivania.

Vado a fare la pipì, poi entro nella mia camera da letto. C’è ancora quella donna, in piedi vicino allo specchio. Si sta struccando.
“Phil” dice.
Sa come mi chiamo.
“Cosa c’è nella camera in fondo al corridoio?” chiedo.
La donna si siede sul bordo del letto, come se le gambe non reggessero il suo peso. Appoggia le mani in grembo e guarda un punto nel vuoto. Poi solleva la testa e dice: “Perché mi fai questo?”
Alzo la voce: “Rispondi, cosa c’è in fondo al corridoio?”
Lei fa un lungo respiro e dice: “È la camera di nostro figlio.”
La camera di nostro figlio. “Se è la camera di nostro figlio, perché è chiusa a chiave? E dov’è lui adesso?”
La donna chiude gli occhi e dice: “È morto, Phil. È morto. Cristo, non possiamo andare avanti così.”
Sono stato padre per quindici secondi, penso. Se non fosse tutto così assurdo, lo troverei persino divertente.
“E come sarebbe successo?” dico. “Quanti anni aveva? Come è morto?”
La donna lascia cadere sul pavimento quello che ha in mano e si ficca sotto le coperte dandomi le spalle. Per un po’ restiamo in silenzio, poi lei parla lentamente: “Si è arrampicato sul frigorifero per appendere un quadro con il suo disegno, voleva farti una sorpresa. È scivolato, ha urtato la testa con violenza e si è trascinato fino alla sala. L’hai ritrovato tu. Aveva sette anni.”

Riflettei a lungo. Il quadro.

Mi sedetti dalla mia parte del letto. “Ha sbattuto la testa sulla lavastoviglie?” chiesi.
“Sì.”
“Dove l’ho ritrovato di preciso?”
“Sul divano.”
Sul divano. “La tv era accesa?”
“Sì, era accesa. Quindi te lo ricordi?”
“No, non ricordo niente” risposi. “E quando sarebbe successo?”
“Quarantadue giorni fa.” Sentii che piangeva.
Mi ficcai sotto le coperte, dando le mie spalle alle sue. “Mi stai mentendo, vero?” dissi. “Non può essere successo. Se mio figlio fosse morto me lo ricorderei.”
Spensi la lampada sul comodino. Mi apparve per un attimo il volto di un bambino.
Poi, mentre eravamo immersi nel buio, Lorraine disse: “Stai tranquillo, vedrai che domani ricorderai tutto.”

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Un viaggio nel tempo alla ricerca dei #2secondi che cambiano la vita

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temporubato

Due secondi sono pochissimi. Mentre scrivevo questa frase ne saranno passati almeno cinque. Due secondi sono così pochi che non riusciamo nemmeno a immaginarli, mentre li pensiamo se ne sono già andati. Eppure in due secondi possono succedere delle cose grandi: dura due secondi lo squillo di una telefonata che ti annuncerà una notizia dopo la quale niente sarà più come prima. In due secondi una tegola può raggiungere la tua testa, puoi veder apparire la Madonna o perdere il biglietto vincente della lotteria della Befana. Sono abbastanza certa inoltre che gli ultimi due secondi dell’ultima puntata di Breaking Bad se li ricorderà per un po’ un’intera generazione.

Insomma, due secondi possono cambiare la vita? È quello che si chiede Byron Hemmings, undicenne dalla fervida immaginazione protagonista di Il bizzarro incidente del tempo rubato di Rachel Joyce – che uscirà il 1° ottobre per Sperling & Kupfer – di fronte alla notizia che verranno aggiunti due secondi al tempo per allineare gli orologi alla rotazione terrestre. Una storia che ha ispirato la blogger Valentina Divitini a infilare questo libro in valigia e partire per un viaggio nel tempo, un viaggio che comincerà oggi e proseguirà fino a metà ottobre toccando varie piazze italiane alla ricerca di storie di persone alle quali due secondi hanno cambiato la vita e dei ‘custodi del tempo’ come orologiai, campanari, impiegati comunali addetti agli orologi pubblici.
L’anno scorso, sempre in collaborazione con Sperling & Kupfer, Valentina ha seguito in Inghilterra le orme di Harold Fry, il protagonista de L’imprevedibile viaggio di Harold Fry, il primo romanzo della scrittrice inglese Rachel Joyce, bestseller internazionale con oltre un milione di copie vendute nel mondo.

In ogni città toccata da questo viaggio, da Torino a Lecce, potrete trovare Valentina allo scoccare delle 5 di pomeriggio sotto agli orologi delle piazze principali, intenta a distribuire ai passanti una cartolina dove tutti potranno raccontare i due secondi che hanno cambiato la loro vita. Qui trovate tutte le tappe di questo viaggio nel tempo, e tutti coloro che non potranno esserci avranno comunque l’occasione di raccontare la loro storia sui social con gli hashtag #2secondi e #bizzarroincidente. Tutti gli incontri e le storie raccolte verranno raccontate con testi, foto e video sul blog di Valentina e su Instagram, Facebook, Vine e Twitter, nonché su questo Tumblr.  

Se anche voi avete una storia da raccontare, dedicate #2secondi a questo bel progetto. 

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Vogliamo più biblioteche virtuali!

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Nepal

Nella fotopartecipanti al Navadurga festival, in Nepal

La ALA American Library Association ha lavorato per gli ultimi due anni al progetto delle biblioteche virtuali: l'associazione ha convinto una grande quantità di biblioteche nazionali, distribuendo occhiolini a profusione e ceste natalizie a destra e a manca, che prevedere una sezione eBook fosse cosa buona e giusta. Quindi si terrà, il 23 Ottobre, una riunione virtuale per parlare, tra bibliotecari, degli eBook: cosa sono, come si usano, strategie, pro e contro, papere.

Ma questa notizia non dovrebbe suscitare particolare scalpore: parliamo sempre degli USA e di tutte le diavolerie tecnologiche che tira fuori dal cilindro ogni giorno dispari. La notizia che potrebbe farvi alzare almeno un sopracciglio riguarda il Nepal, dove il governo ha progettato di allestire ben 1053 biblioteche virtuali. Dite perché dovremmo alzare un sopracciglio? Vedete voi: il Nepal, purtroppo, non ha la fama di essere un paese dagli alti livelli di scolarizzazione, anzi, ci sono proprio poche scuole, fisicamente. O avete forse letto che la più alta pubblicazione di articoli scientifici è di matrice nepalese? Infatti non lo è, e nemmeno è italiana, ma qui da noi stiamo discutendo da un bel po' di tempo del fatto che l'avvio dell'Agenda Digitale è stato rimandato a data da definirsi. Non solo non possiamo permetterci la digitalizzazione scolastica, ma non possiamo neppure investire nella ricerca, nè se per questo acquistare sedie e banchi per tutti o mettere più crema nei bomboloni.

E così, mentre noi filosofeggiamo su navi ribaltate, pasta scotta e ventenni che sposano settantenni depressi, in Nepal il governo sta stanziando 1 bilione di rupie (€ 7434999516.73 che mi pare di capire siano tanti) per una connessione ad Internet funzionante e decorosa, nelle scuole e nelle bibliotecheOgni scuola disporrà di una porzione del lauto budget per acquistare 5 computer e una stampante, oltre a stipulare un contratto di fornitura ADSL: adesso, se qualcuno di voi che legge da Bocchigliero (un paese meraviglioso nella Sila calabrese) mi vuol dire quanti computer ci sono nelle scuole superiori e che connessione ad Internet c'è. Perché, intanto che noi si abbaia, nel distretto di Chitwan è già stata inaugurata a prima biblioteca virtuale.

Alla probabile obiezione "meglio pensare ai nostri panni sporchi prima di esaminare le macchie della vicina" si potrebbe ribattere con lo stesso tono sofistico: ricordate il Mito della Caverna (Platone, La Repubblica)? Il mito narra di certe persone incatenate alla parete di una caverna, in modo da non poter vedere altro che il muro dirimpetto, e questo da che hanno memoria. Lontani dalla vista ci sono un fuoco e tutta una serie di coincidenze per cui questi personaggi vedono proiettate delle ombre sull'unica parete che vedono. Per farla breve, queste persone conoscerebbero una realtà davvero limitata, perché davvero non avrebbero mai guardato oltre al loro naso; e cosa pensate che accadrebbe se uno di loro fosse liberato, scappasse, vedesse il mondo, poi tornasse dagli altri e lo raccontasse? Verrebbe come minimo deriso, se non preso per pazzo o addirittura ucciso nel tentativo di liberare i compagni. S'è bevuto il cervello, a forza di fantasticare: ma la realtà è un'altra, per loro è quella l'acqua #ThisIsWater.

Moralismi? Forse. Se moralismo è sperare che la scolarizzazione sia accessibile a tutti in egual modo – perché è poi soprattutto questo il principale vantaggio della digitalizzazione scolastica, la riduzione dei costi che porta alla diffusione della cultura, dei libri – allora sì. Chi di filosofia spicciola ferisce, di filosofia spicciola perisce.

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Cent’anni dalla parte di Swann

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Proust

Esattamente un secolo fa Charles Swann fece la sua comparsa sulla scena letteraria francese, e con lui l’io narrante Marcel. Se il 14 novembre del 1913 qualcuno avesse detto a Marcel Proust, allora costretto a finanziare di tasca sua la pubblicazione del primo capitolo di À la recherche du temps perdu, che il suo romanzo avrebbe fatto la storia della letteratura europea non ci avrebbe creduto. Cent’anni e sei volumi dopo, la pubblicazione di Dalla parte di Swan è considerato un anniversario di quelli imprescindibili. 

Vi sarà capitato ultimamente di vedere Proust tirato per la giacchetta come santo patrono del self-publishing, nel tentativo di conferire maggiore legittimazione a un fenomeno che incontra ancora qualche resistenza. La gestazione dell’opera è nota: in seguito alla morte dell’amata madre e afflitto dall’asma, Proust si ritirò in una reclusione volontaria nella sua casa parigina di Boulevard Haussmann n. 102, dove scriveva e rivedeva i suoi testi soprattutto di notte nella sua camera da letto foderata di sughero per meglio isolarsi dai rumori esterni. È in questo contesto che nel 1909 iniziò a lavorare alla Recherche. Bocciato dall’editore Fasquelle – «Che scopo ha tutto questo? Che cosa significa? Dove ci vuole condurre?» – snobbato da Gallimard e dalla Nouvelle Revue Française diretta da Gide (che se ne pentì amaramente), rifiutato dalla casa editrice Ollendorf con una frase che è passata alla storia («Sarò particolarmente tonto, ma non riesco a capire come questo signore possa impiegare trenta pagine a descrivere come si gira e si rigira nel letto prima di prendere sonno»), il primo volume della Recherche fu come noto pubblicato presso l’editore Grasset a spese di Proust che si fece interamente carico della pubblicazione. Proust d’altronde si poteva permettere di auto-finanziarsi, essendo nato in una famiglia dell’alta borghesia parigina, cosa che indispettiva alcuni dei suoi detrattori. È il 1913 e Marcel diventa scrittore

E mentre le celebrazioni del centenario della nascita di Camus in Francia sono sembrate ad alcuni un po’ sottotono, per Proust si segnalano numerose iniziative che vanno ormai avanti da tutto il 2013, anno del centenario. Ci limitiamo a segnalare un paio di chicche proposte dai suoi editori storici, Grasset e Gallimard (che si pentì del primo rifiuto e recuperò nel primo dopoguerra).  Gallimard ha proposto in sole 1200 copie e al costo di 219 euro un facsimile del manoscritto della prima parte di Du côté de chez Swann, con le note dell’autore a margine (e se ci seguite su Pinterest già sapete che Proust scriveva così). Grasset ha scelto invece di omaggiare il centenario con la riedizione di Souvenirs de Marcel Proust, un volume uscito per la prima volta nel 1926 che raccoglieva le lettere indirizzate da Proust a Robert Dreyfus dal 1888 al 1920. Una corrispondenza, e un’amicizia, così durature da permettere di seguire passo passo l’evoluzione del grande scrittore francese, dall’età di 17 anni a due anni prima della morte. La nuova edizione ha ripristinato la versione originale di alcune espressioni che erano state "censurate" da Dreyfus forse perché ritenute sconvenienti; ad esempio, l’espressione «affectueusement» di Proust era stata sostituita con «bien à toi».

E se la Recherche è entrata sicuramente nel novero dei capolavori della letteratura di tutti i tempi – per il suo stile, la sua struttura compositiva e la riflessione sui temi del tempo e della memoria – è altrettanto vero che per le stesse motivazioni essa figura anche in una classifica meno felice: quella dei libri più citati e meno letti della storia della letteratura. 

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Tempo di Venere

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venere

Lo dedichiamo a Venere questo gelido Tempo di leggere. A quanto pare arriva la dea dell'amore a portare il freddo su tutta l'Italia. Non si capisce perché questa Venere in arrivo sia portatrice di freddo e bufera. Noi vogliamo conoscerla meglio e quindi i consigli di lettura di oggi sono tutti dedicati all'amore e ai suoi grandi misteri.

Nord

Il freddo pungente vi spinge a cercare un riparo? Rifugiatevi in una libreria di quelle come piacciono a noi: resistenti, indipendenti, zeppe di libri. Per trovarle senza fatica, mentre fuori imperversa la bufera, consultate Essere indie…a di Finzioni. Se siete a Milano fatevi guidare dalla nostra Silvia Dell'Amore. Il libro che vi aspetta a braccia aperte in libreria non vi deluderà: Ian McEwan, L'amore fatale (Einaudi Supercoralli,1997). Ecco alcune domande fondamentali del libro: cos'è l'amore? Una manifestazione patologica o si può essere innamorati in modo ragionevole? Esiste un amore che non sia estremo, e sia autentico?

Centro

Le nuvole avranno un bel po' da fare sulle regioni centrali. Da domani la situazione potrebbe peggiorare, con colpi di fulmine inaspettati. Oltre all'ombrello (da usare all'occorrenza come parafulmine) procuratevi Paolo Crepet, Sull'amore (ET Pop, 2010). Troverete le risposte ad almeno due domande fondamentali: quante sono le persone che possono dire di essere innamorate sul serio? E quante quelle capaci di andare oltre l'innamoramento, fino all'amore?

Sud

Venere tenterà di sedurre anche il Sud. Lo corteggerà con un bel vento freddo, forte e caparbio. Vi consiglio di scegliere un libro caldo, piccante, che sappia confortare: Luca Bianchini, Io che amo solo te (Mondadori, 2013). Ambientato in uno dei posti più belli della Puglia, Polignano a Mare, vi trascinerà nel bel mezzo di un matrimonio. Sulla copertina due bei peperoncini rossi e piccanti. Il calore è garantito e Venere si siederà a leggere accanto a voi. 

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