
Si stava meglio quando si stava peggio, o almeno così pare a sentir parlare alcuni scrittori che più o meno volutamente hanno deciso di fare dell'omosessualità una precisa scelta poetica. Meglio gli antichi castighi oppure i castigati ammonimenti degli antichi? L'“Epistola ai froci romani” dal Super Eliogabalo di Alberto Arbasino risuona ancora viva e cupa:
Fate, fate gli spiritosi o gli sciocchini, camerati e compagni… Eravate ‘come pesci nell’acqua’, integrati nella società più bisessuale d’Europa perché qui il sesso mediterraneo era facile e diffuso, spontaneo e disponibile, allegro e sportivo, pagano e gentile, privo di colpe cattoliche e di rimorsi puritani e di complessi borghesi, soprattutto perché finché una cosa non viene nominata dunque non esiste e rimane invisibile anche se la si fa… non bastavano tre notti – ricordate? – per girare tutti i posti di incontri polimorfi molto facili e molto simpatici, e le divisioni o differenze classiste c'entravano davvero poco, in quelle spiagge e stazioni e terme e parchi e bastioni e colossei, giacché si era vestiti tutti in modo molto 'casual', senza una lira addosso, e vigeva semmai il razzismo del centimetraggio. E adesso, come se non bastassero i falsi problemi e i tormentoni provocati dai giornalini 'liberati' o zozzi, ecco tutti questi gruppi che facendo i collettivi sul discutere e mai sul vivere si costruiscono giorno dopo giorno i loro ghetti – tutto un discorrere di ruoli e rapporti e identità e funzioni e livelli e sistemi e limiti e formalizzazioni e focalizzazioni e autocoscienze e castrazioni e paranoie – come i radioamatori e i pescatori subacquei, gli alpini e i tifosi, i callasiani e i numismatici, gestendo un full time tutto gerghi intimi e mitologie private, con la propria etichetta appiccicata e sventolata 24 ore, 365 giorni, sempre.
Era il 1969 e nonostante le riscritture successive il senso non più cambiato. Ogni generazione individua in quella precedente (o in un'ipotetica età dell'oro gaia) la possibilità di vivere l'esperienza omosessuale a tutto tondo, senza pregiudizi e pregiudiziali. Il passato idealizzato e romanzato come estremo antidoto all'omologazione e alla banalità della vita quotidiana. Anche di quella gay.
A quasi mezzo secolo dall'epistola ai romani, Lo splendore e la scimmia di Anton Giulio Onofri riparte proprio da Alberto Arbasino (soprattutto quello di L'Anonimo lombardo e di Fratelli d'Italia, cui si ispira esplicitamente il titolo) per raccontare un viaggio nell'Italia (con una trasferta in Marocco) degli anni '90 di un gruppo di amici melomani e omosessuali che si conclude con la notte di capodanno del 2000, anno in cui si tenne a Roma il primo World Pride e in cui si poteva ancora sperare in un cambiamento di attitudine da parte della politica italiana pronta, così sembrava, ad accogliere le istanze del movimento LGBT.
I protagonisti del romanzo di Onofri, però, si tengono ben lontani dalla politica e dalle politiche identitarie. Sono omosessuali e vivono da omosessuali apertamente, seguono le loro passioni (la musica, l'arte, il cinema), i loro desideri e i loro amori apparentemente a prescindere da quello che le comunità gay stanno conquistando, anche per loro. Sono liberi di scegliere di essere omosessuali e non gay. Si innamorano spesso di giovani eterosessuali (o di etero-curiosi diremmo oggi) del Sud dell'Italia e dai fisici perfetti, spesso rimorchiati all'uscita delle caserme, e ne diventano più che amanti, migliori amici con benefici, pigmalioni, fratelli (spesso sono accolti nelle 'inconsapevoli' famiglie di questi ragazzi di vita tardonovecenteschi come veri e propri figli). Le donne (madri, mogli, amanti, rivali) fanno da sfondo a questa partitura tragicomica in cinque atti, purtroppo loro non è il regno dei cieli.
Il paradiso è la grande bellezza dei corpi muscolosi e tonici dei militari, i paesaggi italiani ancora da scoprire e da vivere in prima persona, la musica colta e mai popolare. Un paradiso per pochi eletti, per pochi sopravvissuti. Un perfetto androceo, dunque, parimenti scollacciato e raffinato, a tratti asfissiante e vagamente misogino, costruito su storie, personaggi e linguaggi mai piatti, vissuti sul sublime e del culto del passato, che passato non è del tutto (esemplare è il recupero di alcune pagine militaromoerotiche di Edmondo De Amicis: alcuni padrini letterari sono più queer di altri), o che non è mai stato. Si stava meglio quando si stava peggio, o forse no?
Lo splendore e la scimmia di Anton Giulio Onofri, Lantana, 2013, pp. 192
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