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Fare lo scrittore: intervista a Luca Ricci

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Luca Ricci imagine - Finzioni

I suoi romanzi (o racconti) sono brevi, spietati ed immediati. I personaggi si muovono nella trama con lucidità, lo stile è diretto e pulito. Dopo il suo esordio con Il piede nel letto (Alacran 2005, Premio CocitoMontà d’Alba,) Luca Ricci pubblica L’amore e altre forme d’odio (Einaudi 2006, Premio Chiara), La persecuzione del rigorista (Einaudi 2008), Come scrivere un best seller in 57 giorni (Laterza 2009) e Mabel dice sì (Einaudi 2012). Una classifica apparsa su Domenica del Sole 24 ore nel luglio del 2010 lo annovera tra i migliori scrittori under 40. Parliamo con lui del suo mestiere. 

1.     In che modo hai approcciato la scrittura?

Le ho offerto da bere e già dopo qualche minuto eravamo a letto insieme. Fuor di metafora: lessi in una notte tutti i racconti fantastici di Maupassant, ero al liceo all’epoca, e capii che nella vita avrei voluto fare anch’io quella cosa lì: scrivere.

2.     È ancora possibile fare lo scrittore di professione?

E’ possibile tenendo presente una cosa: che lo scrittore naviga sempre a vista, in ogni nuovo libro convive l’esperienza dei libri scritti in precedenza e l’annullamento di quell’esperienza. E’ una strana forma di equilibrismo. 

3.     Come nascono i tuoi romanzi?

Penso di aver scritto solo racconti, fino a questo momento. Racconti brevi o lunghi, ma pur sempre morfologicamente racconti. Nascono da uno scontro con la realtà: in genere mi metto a scrivere quando non la capisco (il che, a giudicare dai miei innumerevoli file Word sul desktop, succede molto di frequente).

4.     Quanto impieghi, in media, per scriverne uno?

E’ tutto molto relativo, e influenzabile dalla vita privata, dal momento o periodo che attraverso. In genere comunque mai meno di un anno. La storia che voglio raccontare prima deve emergere e dopo decantare: anche se magari riesco a scriverla in una manciata di mesi. 

5.     Cosa succede se scrivi un racconto breve o qualcosa di incompiuto o non pubblicabile singolarmente?

Succede poco o niente purtroppo. Non esiste quasi più un mercato per i libri di racconti, figurarsi per i singoli racconti. E poi non sono benvoluti dai giornali: passano solo autofiction o reportage. In rete qualcosa si muove. Sui lit blog la pubblicazione è gratuita ma forse con l’avvento degli ebook a pochi euro anche narrazioni che potremmo definire senza collana troveranno spazio. Penso ad esempio alla serie Zoom di Feltrinelli, o ai recenti Quanti einaudiani.

6.     Quanto e come collabori con il tuo editore?

C’è un patto ferreo di non belligeranza, cioè siamo molto liberi l’uno nei confronti dell’altro. Per me è una garanzia sul piano creativo, per loro la possibilità di non avere a che fare con un autore stalker. 

7.     Che rapporto hai con il tuo pubblico?

Nessuno per fortuna, se non l’incontro che avviene grazie al libro. La letteratura d’altronde, perché accada, non prevede che autore e lettore si conoscano di persona: la trova una risorsa, non un limite. Non ho avuto bisogno di ascoltare Maupassant in un talk show per adorare i suoi racconti.

8.     Cosa consiglieresti agli editori di oggi?

Di ricollocarsi sulla scacchiera del digitale facendo scelte all’antica: cioè di prendere posizione, di costruire cataloghi basati sul gusto e sul pensiero (se non proprio sull’ideologia). Non sopporto l’editore contenitore che pubblica di tutto, basta che venda. In questo senso paradossalmente (paradossalmente perché fanno libri molto distanti dalla mia sensibilità, per così dire) sta lavorando meglio di chiunque altro la Newton Compton: il messaggio è chiaro, il lettore sa cosa aspettarsi scegliendo uno dei loro titoli.

9.     E ai lettori?

Di non fermarsi mai al bancone delle novità. Di allungare la mano tra gli scaffali più difficili da raggiungere (anche e soprattutto delle grandi librerie digitali). 

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