Quando arriva il primo sole, e per primo sole intendo quello che spacca le pietre, che sommerge Milano di afa e nella metro comincia a diventare veramente difficile respirare a pieni polmoni, quando arriva questo primo sole, dicevo, io con la mente parto ma nel senso che proprio mi ci vuole un attimo per capire che dalla realtà mi stanno chiamando, che io sto davanti al pc ma non faccio nulla, fisso lo schermo e con la testa sono ovunque meno che qui. Il bello di leggere, per me, è sempre stato l’aiuto che i libri mi hanno dato in queste situazioni, cominciando da quella meraviglia di Alain De Botton, L’arte di viaggiare (Guanda), che mi ha insegnato che andarsene via con la testa è più che legittimo, anzi, proprio una necessità quando luglio è ormai vicino ma le ferie no, quelle rimangono un miraggio.
Perché poi, non è il solo viaggiare con la mente: i protagonisti dei libri viaggiano davvero. Il più delle volte prendono le prime cose che capitano sotto il loro naso e se ne vanno senza poi, però, fare mai realmente ritorno. Perché chi viaggia, chi viaggia davvero, cambia totalmente e di tornare non se ne parla. E le destinazioni, beh, quelle sono pressoché infinite.
L’America
Scontato ma non troppo se non fosse che alla fine è successo anche alla piccola protagonista di Alla deriva di Bryan Lee O’Malley (Rizzoli Lizard) quando si è ritrovata a fare un viaggio in auto attraversando la California, un qualcosa che è perlopiù malinconia e paura di crescere, che durante l’adolescenza è forse l’unico vero ed immenso timore. Eppure capita fin troppe volte che l’America diventi la nazione in cui crescere, dove questo non significa necessariamente prendere centimetri e chilogrammi ma soprattutto cambiare, rivoluzionarsi, diventare persone nuove. Alcuni esempi? Mario Soldati nel suo America Primo Amore (Sellerio). Lo ammetto: non sarò mai veramente oggettiva con queste trecento pagine fatte di andate e ritorni, di volontà di trasferirsi in un paese straniero ma con la paura di non trovare la vera casa, la home così differente da house come solo l’inglese sa trasmettere.
“Laggiù si sognava la patria, come dalla patria si sognava l’estero.”
Perché poi, il problema, è proprio questo, un po’ come quello di chi ha i capelli lisci e li vorrebbe ricci e viceversa. Non si sa più da che parte si vive, ci si ritrova in un paese dove è difficile capire chi si è realmente, se la persona che sta vivendo l’America o quella che vorrebbe tornare a casa, dalla famiglia o semplicemente fra le proprie mura. Ed è proprio questo il dilemma che vive Eilis a partire dal 1952, quando salpa dall’Irlanda per arrivare a New York, a Brooklyn, cuore di tutta la storia tanto da diventare il titolo dell’opera di Colm Tóibín edito da Bompiani e portato al cinema da John Crowley, con la sceneggiatura di Nick Hornby, in una trasposizione cinematografica fin troppo fedele e splendidamente bellissima. Senza fare troppo spoiler, la dolce protagonista si ritroverà a scegliere fra l’amore, il primo vero amore nato dall’incontro con un giovane idraulico di origini italiane, e la casa, quella in Irlanda, quella dove la madre l’aspetta per aiutarla a superare un terribile imprevisto. Ma anche qui: dove è casa? Dove sta il limite fra vecchio e nuovo? Quale parte di cuore bisogna ascoltare? Eilis si ritroverà a dover scegliere, a dover decidere se rimanere legata alla ragazzina irlandese nascosta dentro di sé o alla giovane donna che è cresciuta in America, affrontando novità e cambiamenti completamente sola. Inutile dire quale parte del suo animo vincerà: fin troppo semplice intuire come la vita ti sorprende.
E queste scelte non sono solo di Eilis ma di un’ intera generazione di migranti che da diversi stati dell’America latina hanno deciso di cercare fortuna negli Stati Uniti. Sto parlando di Anche noi l’America di Cristina Henríquez (NNEditore) i cui protagonisti si sono trasferiti dal Messico, dal Panama, dal Porto Rico, dal Paraguay e dal Venezuela per sfidare la sorte, per rincorrere la felicità in un paese il cui solo nome è sinonimo di nuova vita, di nuove opportunità, di nuove speranze. Un po’ come nelle storie raccolte da Paolo Cognetti in New York Stories (Einaudi) dove uomini e donne di ogni età sono pronti a cambiare radicalmente vita per darsi una nuova occasione nonostante tutte le avversità perché come dice il giovane milanese nella sua beve introduzione ai racconti scelti
“Nessuno al mondo è così solo come chi è solo a New York.”
Ma c’è dell’altro.
Perché nonostante l’America sia la meta preferita da chi scappa dalla propria patria, c’è anche chi va contro corrente e dagli Stati Uniti decide di scappare lontano da ciò che è casa, lavoro, obblighi e routine. Succede a Elyria, la protagonista di Nessuno scompare davvero, opera di Catherine Lacey e portato in Italia da Edizioni Sur.
“(…) prendiamo decisioni in base a meccanismi interiori che dipendono poco o niente dalla nostra volontà di attivarli (…)”
Perché alla fine chi è davvero a decidere per noi se non qualcosa che sta sotto la nostra pelle e che possiamo solo tentare di immaginare? Elyria lascia il marito e la propria vita per andare in Australia a cercare non sa bene nemmeno lei cosa, portando con sé Mrs Bridge di Evan S. Connell (Einaudi), un libro che forse è la chiave di tutto il suo girovagare o forse un vero e proprio escamotage da parte di Catherine Lacey per nascondere il vero motivo che porta una giovane donna a scegliere di prendersi una pausa da qualsiasi cosa ottenuta fino a quel momento dalla propria vita.
Poi ovviamente c’è anche chi prende la parola viaggio fin troppo seriamente, prepara uno zaino con quelle poche cose di cui parlavo alcuni paragrafi fa e sceglie di attraversare zone del mondo il cui territorio è fin troppo impervio. Non parlerò del protagonista principale di Nelle terre estreme di Jon Krakauer (Villard), conosciuto ai più per l’arcinota trasposizione cinematografica, ma di una giovane donna alla deriva che decide di attraversare pezzi di America dalle più disperate temperature semplicemente sola con se stessa. Sto parlando di Wild. Una storia selvaggia e di avventura di Cheryl Strayed, anche questa un’opera resa nota dal cinema ma che leggerla, ve lo garantisco, è tutto un altro paio di maniche. C’è la fatica quotidiana, quella del proprio corpo, che si scontra con la difficoltà di tenere la propria mente lucida, pronta a reagire a qualsiasi tipo di imprevisto e pericolo, quello vero, che se sbagli qualcosa rimani senz’acqua nel deserto e sopravvivere, lì, diventa fin troppo complicato.
E poi c’è l’Europa.
Perché il viaggio, ovviamente, non è solo oltreoceano. Nella nostra Europa il valore del girovagare ha preso importanza soprattutto nel periodo dei Grand Tour, i lunghi viaggi dei giovani ricchi aristocratici che a partire dal XVII secolo cominciarono a gironzolare per il vecchio continente con lo scopo di perfezionare il proprio sapere perché viaggiare, giustamente, è anche imparare. Non parlerò di opere come Viaggio in Italia di Goethe (Oscar Mondadori) perché preferisco passare ai giorni nostri, alla bellezza di quella parte d’Europa che ancora non è così nota a molti perché nascosta da anni di storia terribili che hanno trovato pace solo negli ultimi decenni. Sto parlando di quei paesi a nord est e in particolare a quelli raccontati da Jan Brokken in Anime Baltiche (Iperborea), un’opera che tra gli scaffali ho trovato nella sezione critica letteraria ma che per me potrebbe stare nelle raccolte di racconti più meravigliosi di sempre. Lo scrittore ma soprattutto viaggiatore di origini olandesi si sofferma sulle vite di personaggi importanti vissuti fra la Lettonia, la Lituana e l’Estonia per poi intrecciarle alla loro storia la vita di persone comuni e di luoghi magici che nonostante la Storia, quella che detta legge e dittature, hanno saputo sopravvivere salvando la propria bellezza.
“Viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è la via più breve per arrivare a se stessi.”
Ed è con queste parole di Jan Brokken che ritorno alla realtà, lascio i personaggi di libri che ho amato al viaggio e al non ritorno a casa, non di certo con la loro mente, per partire anche io mentre scrivo dalla mia nuova e improvvisata camera dicendomi che le ferie saranno anche belle e desiderate ma io ho la fortuna di viaggiare sempre, 365 giorni all’anno, ogni volta che prendo una nave per New York con una giovane irlandese o decido di traslocare dal Puerto Rico agli Stati Uniti.
Bon voyage, les amis lecteurs!
L'articolo Di chi parte per non tornare mai sembra essere il primo su Finzioni Magazine.