Correva l'anno 2007 e gli Incubus cantavano Make yourself sul palco dell'Alcatraz di Milano. Io stavo sotto quel palco in seconda fila, avevo 17 anni e un abito da sposa (abbigliamento che più tardi imparai essere molto poco pratico ad un concerto rock, soprattutto se completo di velo) nell'ingenuo tentativo di essere notata dal fighissimo cantante, Brandon Boyd, nella più esasperata e patetica delle tradizioni fangirl.
Due ore più tardi ero fuori dalla sala concerti, parzialmente sorda, con quel che restava del velo (poco), un vestito bianco (ormai nero) da cacciare, l'ovvia consapevolezza che il fighissimo Brand Boyd non mi avesse notata manco per sbaglio, e quell'indescrivibile, sudata, formicolante sensazione che solo il primo vero concerto ti può regalare.
Johanna Morrigan, alias Dolly Wilde, descriverebbe quella sensazione come «quella volta che mi sono iscritta ad una corsa campestre e ho sentito l'adrenalina scorrere, ma senza qualcuno che mi urla da dietro 'PIÙ VELOCE, MORRIGAN!'» Per lei correva l'anno 1992 e il suo primo concerto sono stati gli Smashing Pumpkins all'Edwards Number 8 di Birmingham.
La me adolescente ha molto in comune con la quattordicenne Johanna Morrigan: innanzitutto l'ostinata tendenza ad indossare vestiti poco adatti a un concerto rock — io col mio velo, lei col suo cilindro nero —, una compulsiva, impaziente curiosità sessuale e la disperata voglia di essere qualcun altro — qualunque qualcuno al di fuori della sfigatella un po' grassoccia di Wolverhampton, desolato e desolante sobborgo industriale delle Midlands inglesi, dal bizzarro senso dell'umorismo e la verginità fin troppo intatta.
Così Johanna, personaggio parzialmente autobiografico nato dalla brillante penna di Caitlin Moran e protagonista di How To Build A Girl, decide di intraprendere un meticoloso percorso di autodistruzione e costruzione per rinascere come Dolly Wilde, suo trasgressivo alter ego e pungente giornalista prodigio della rivista musicale D&ME. Quello di Johanna è un percorso costellato da musicassette per corrispondenza a 20 centesimi l'una, bottiglie di scadente liquore MD 20/20, ciniche e stroncanti recensioni di aspiranti band della scena underground britannica, tanto eyeliner nero, sesso (ovviamente) e un sacco – ma davvero un sacco – di bugie.
A Johanna non cresce un centimetro di naso per ogni bugia che Dolly racconta, ma le analogie con la marionetta più bugiarda di tutti i tempi sono molte e ben più radicate. La morale di Pinocchio è sempre parsa univoca e molto chiara: non dire bugie e tutto andrà per il meglio. Ma questa è una chiave di lettura a mio avviso troppo semplicistica.
Quello di Collodi è un romanzo di formazione e, letteralmente, di costruzione: la costruzione dell'individualità adulta, il passaggio da burattino a bambino vero. Pinocchio mente per conformarsi ai suoi pari e al contesto sociale che lo circonda: fuma il sigaro in compagnia di Lucignolo nel Paese dei Balocchi, proprio come Dolly beve gin e Jack Daniels e dorme ogni notte con un uomo diverso, perché è una cosa che fanno tutti, perché le sembra un modo semplice ed efficace per inserirsi in una conversazione da cui si sente altrimenti esclusa.
Un po' come Pinocchio, Johanna decide di dedicare anima e corpo al mantra del "Fake it 'til you make it", fino a quando, un giorno, a casa di Rich, suo amante egoista, non si rende conto che Dolly, la girl che ha costruito, non è assolutamente quella girl che lei voleva diventare. Dolly, che solitamente dice sempre di sì, scopre di avere una scelta: è la consapevolezza del poter dire "No" anche quando prima avevi detto "Sì".
Johanna ricomincia un nuovo percorso di autodistruzione e uccide Dolly, ma non prima di essersi fatta una lista di cosa tenere e di di cosa abbandonare del suo imperfetto alter ego, perché anche questo vuol dire crescere: come canta il fighissimo Brandon Boyd in Make Yourself, costruirsi è assemblarsi. Pinocchio sarebbe mai diventato un bambino vero senza tutti gli errori commessi, senza tutte le bugie raccontate? Io dico di no. Sbagliare, persino mentire, è un percorso tortuoso, talvolta vergognoso, ma comunque necessario per acquisire la piena consapevolezza di sé senza bisogno di rinnegare nulla.
P.S.: Gli Incubus li ho rivisti a distanza di 5 anni al Forum di Assago nel 2011. Ho lasciato a casa il velo e l'ho sostituiio con un esplicito cartello che recitava: "Brandon, will you marry me?". Meno simbolismi e più dichiarazioni di intenti. E stavolta il fighissimo Brandon Boyd, dal palco, mi ha lanciato un bacio. Il matrimonio, amici miei, è dietro l'angolo, ho solo bisogno di un altro concerto.
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