Qualcuno ci ha già detto che accostare Čechov e Hemingway è quantomeno coraggioso.
In effetti se uno è un simpatico medico piccoletto e tisico, innamorato della natura e della poesia, l’altro è un tenebroso fisicato che va matto per le donne, la boxe, la guerra e i safari. Ma soprattutto cosa potranno mai condividere se sono nati a trentanove anni di distanza nei due opposti emisferi della terra?
L'immagine che vogliamo proporre è quella di due adolescenti che, spazientiti, usano ogni mezzo a loro disposizione per troncare con i vecchi modelli letterari, posando la prima pietra nella costruzione di un nuovo realismo che profuma di Novecento.
Anton Čechov nasce e vive in Russia a cavallo tra il passato secolo e il precedente, e non è uno scrittore come tutti gli altri. Intanto non fa parte di quella cerchia di fortunati perdigiorno che mangiano grazie alla sola scrittura perché lui è un tipo serio, e infatti fa il medico di professione. Inizia a scrivere per pagarsi gli studi; poi per fortuna poi ci prende gusto e continua a farlo fino alla fine dei suoi giorni, forte di una filosofia tutta sua secondo cui la medicina sarebbe la sua moglie legittima e la letteratura la sua amante.
“Quando mi stufo della prima, vado a dormire dall’altra. Sarà forse immorale, ma in compenso non è noioso, e per di più la mia infedeltà non fa torto a nessuna delle due. Se non avessi la medicina, difficilmente dedicherei alla letteratura i miei ozi e i miei pensieri superflui. sono un essere indisciplinato.”
E forse perché a un’amante non si può dedicare troppo tempo, Čechov scarta l’opzione – in gran voga nella Russia del tempo – del mattone di migliaia di pagine, tuffandosi di testa nella forma breve del racconto e della pièce teatrale.
Ed è da questa mossa, apparentemente innocua, che comincia a delinearsi con forza viva e dirompente l'immagine di un nuovo scrittore russo, con i piedi ben piantati per terra e in mano una grossa forbice per tagliare il cordone ombelicale con l'Ottocento.
D’altronde, non dimentichiamo che i genitori letterari di Čechov si chiamano Tolstoj, Dostoevskij e Turgenev (tanto per dirne tre), che poi sono i ragazzi immagine dei famosi tomi dalle mille pagine con la loro visione totale e categorica della realtà, le loro domande per cui esiste ancora un’unica risposta, la loro fede nell’uomo e nei veri eroi.
Ma quando il secolo d’oro del romanzo russo arriva agli sgoccioli, anche i pilastri su cui si era basata la società iniziano a sgretolarsi, lasciando intravedere una nuova realtà in cui le classi nobiliari, protagoniste incontrastate dei grandi romanzi ottocenteschi, perdono le loro certezze assieme ai loro secolari privilegi.
E allora anche lo scrittore non può fare altro che rinunciare ai suoi fenomenali poteri cosmici di narratore onnisciente, diventando semplicemente testimone spassionato dei suoi protagonisti, e accantonando il buon lirismo ottocentesco per un linguaggio asciutto, quasi scarno, dal vocabolario ristretto e ricorrente, insomma: realistico.
Negli spettacoli teatrali come nei racconti Čechov analizza con una precisione certosina (da scienziato) la condizione umana, ritraendo la vita di uomini e donne assolutamente ordinari, dal piccolo bambino protagonista de La steppa alle più note donne de Il giardino dei ciliegi. Tutte le lezioni o le spiegazioni che da questa realtà il lettore può trarre o non trarre a lui sembrano non interessare: "Io rappresento la vita com'è punto e basta. Più in là non mi farete andare nemmeno con la frusta".
Ed è a questo punto che la corte chiama a testimoniare il focoso Ernest – alla faccia di chi ci ha detto che trovare un ponte tra quel russo e questo americano è da pazzi.
Infatti Hemingway è uno che coi tagli netti ci va giù ancora più pesante. Come un adolescente della peggior specie che nessun genitore vorrebbe avere per le mani, sbatte la porta lasciandosi alle spalle Ottocento e madre patria e va in Europa per scrivere reportage, con in tasca solamente due soldi e un contratto per il “Toronto Star”.
La cornice diventa quella spettacolare Parigi che attira a sé tutta una generazione di americani che, attratti come falene dall'irresistibile ville lumière, hanno abbandonato hot dog e bandierine sugli usci di casa. E tra un charleston e l'altro c'è chi si inventa una letteratura che non ha bisogno di aggettivi ma è semplicemente spietatamente moderna: al grido "decoration is a crime!" vengono sacrificati tutti gli orpelli, le decorazioni barocche, e si dà il benvenuto alla cruda realtà. Così nel 1926 un giovanissimo Hemingway pubblica il suo primo romanzo, Fiesta the sun also rises, in uno stile che regge un equilibrio perfetto tra condensazione e realismo, esattamente come tutta la sua prosa a venire.
Infatti lo scrittore americano, come Čechov, non parla mai di ciò che non conosce. Il valore della letteratura risiede nel saper descrivere le cose quali sono e non quali dovrebbero essere, secondo le leggi del sacro vincolo con la realtà. E la realtà è che in Europa c’è stata la guerra, e che anche se è finita tutti ne sentono ancora il sapore in bocca:
“Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio e dall’espressione invano… Non ho visto nulla di sacro, e le cose che erano gloriose non avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago se con la carne non si faceva altro che seppellirla… C’erano molte parole che non potevi più sopportare di sentire. Parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione erano oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e alle date”.
Succede allora che gli “eroi” di Hemingway – che poi sono quasi sempre alter ego dell’autore – sono uomini feriti, castrati, amputati; ma soprattutto, l’amore è impossibile, e non in un senso romantico: è impossibile perchè è morto e le persone non sono più capaci di dare, di restare, di spartire.
Hemingway è un giovane scrittore che sembra dire ai genitori: guardate, il mondo che ci avete lasciato questo. Non sappiamo nulla delle vostre certezze e dei vostri assolutismi, sappiamo solo riconoscere il limite che si impone contro il nostro sguardo senza cercare di andare oltre.
Čechov con il bisturi (in cravatta) e Hemingway con l'accetta (a torso nudo) si fanno carico del taglio col passato, portano coraggiosamente avanti l'assunto di socratica memoria "so di non sapere” e accettano di descrivere fedelmente una realtà che non si può più leggere attraverso modelli definiti né in maniera univoca.
Per citare uno dei due:
“Gli scrittori dovrebbero ormai riconoscere che a questo mondo non si capisce nulla. La folla crede di capire tutto: e più è sciocca, più sembra vasto il suo orizzonte. Ma se lo scrittore, al quale la folla crede, avesse il coraggio di affermare che non capisce nulla di ciò che vede, ciò costituirebbe un grande passo avanti nel campo della conoscenza.”
E adesso saremmo proprio curiose di sapere quanti di voi hanno capito chi l'ha scritto.
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