Quando tutto tornerà ad essere come non è mai stato (Marsilio) è una storia di spazi. È anche una storia di dinamiche familiari che diventano consuetudini, quelle cose misteriose che ci passano sotto agli occhi senza che ricevano un briciolo della nostra attenzione, tipo il motivo per cui in una casa nuova a un certo punto i posti a tavola diventano precisi, e si dorme da un lato del letto invece che dall'altro, o si dà per scontato che se si deve lasciare un messaggio a qualcuno, il post-it lo si lascerà lì, e non là.
Ma è soprattutto una storia di spazi, di distante e vicinanze, di posizionamenti nel mondo rispetto a se stessi e agli altri e rispetto alle cose. Questo forse può togliere a volte il senso della prospettiva, rende più complicato prendere le misure per non cadere, ma regala un grandangolo negli occhi e permette di vivere tutto insieme.
Josse è il minore di tre fratelli e vive con la sua famiglia in una casa circondata da edifici che formano un ospedale psichiatrico infantile e adolescenziale, di cui suo padre è il direttore. Una casetta con il giardino e i fiori sui poggioli, mi immagino le tendine stirate, gli infissi puliti; e tutt'attorno questi palazzi pieni di matti, che Josse, sette anni all'inizio della storia, ventiquattro alla fine, attraversa e vive, e vive come estensione della sua casa e della sua famiglia.
In questi spazi che comunicano tra loro, tra queste persone che condividono questi spazi ogni giorno della loro vita, succedono delle cose, come in tutte le famiglie. E il piccolo nucleo si espande, diventa un nucleo universale, permeabile, modellabile sul mondo. Comunica con gli altri nuclei e con gli spazi attorno, diventa poroso, assorbe e a volte espelle. E ci sono la solitudine, la diversità, l’amore, il tradimento, la rabbia, la paura dell'altro, la riluttanza, il bisogno di andare via, il bisogno di tornare. C’è un padre che sembra potere tutto, un gigante che tutto vede e a tutto provvede, e ci sono le perdite.
All’infanzia di Josse, buffa e piena di grandi avventure, segue lo spezzarsi di una corda, che tutto trasforma. Ecco la solitudine, a volte, e la disgregazione di quella famiglia che sembrava perfetta. Ecco la malattia, che esattamente come la casa dei protagonisti è dietro l'angolo e tutt'attorno alla nostra isola felice, e parla con noi, si mescola, e diventa, a volte, lei stessa Noi. La malattia e la salute, in questo libro e nella nostra esistenza, sono lati di una fisarmonica che ci tocca, per suonare; e a volte si piega da una parte, producendo un suono acuto, la volta successiva dall'altra parte, e ne esce un suono grave.
In questo libro c'è tutto questo ed è raccontato bene, con un umorismo incredibile, una lampadina che sembra impossibile da accendere su temi così complessi. Eppure Joachim Meyerhoff ci riesce, fa tesoro del lavoro che fa – l'attore teatrale – e ci mette alle spalle il muro e davanti agli occhi le ombre, le pieghe nascoste; re-interpreta in un modo nuovo per il suo pubblico, e con il sorriso, quello che a volte ci sfugge, o che volevamo scordare.
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