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L’arte di viaggiare di Up

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I viaggi sono le levatrici del pensiero.

Una cosa è certa: al cinema si possono trovare due grandi categorie di pubblico. Ci sono cinefili che preferiscono guardare le nuove uscite sul grande schermo ma che si vergognano di esternare i propri sentimenti lasciando le lacrime e le risate per un momento successivo quando soli, magari nel proprio letto, rivivono le avventure della pellicola. C’è una parte di pubblico, invece, che si vuole godere le gioie del grande schermo senza remore, senza rinunciare a ciò che si farebbe se quel film fosse stato visto sul divano di casa propria: ridere a crepapelle, urlare di paura, insultare qualche protagonista ma, soprattutto, piangere.

Il motivo per il quale vi sto raccontando tutto ciò? Semplicemente per giustificarmi e dirvi che quando piansi alla proiezione di Up è perché mi sentivo come se fossi stata nel mio lettino con il portatile sulle gambe e che il signore dietro di me, che continuava a tossire “involontariamente”, era solo un senza cuore costretto dal nipotino ad andare al cinema. Il motivo per il quale vi sto raccontando di Up e di come mi smosse il cuore? Perché L’arte di viaggiare di Alain de Botton fece lo stesso due anni dopo, in modo diverso ma toccando le stesse corde.

Correva l’anno 2009 e mi ero appena trasferita a Venezia per seguire i corsi all’università che pensavo fosse quella adatta a me. Dal lunedì al venerdì vivevo in un piccolo appartamento in Giudecca, persa fra i miei libri e i miei sogni ancora da adolescente. Quando vidi Up, poche settimane dopo il mio trasloco, capii che anche io avrei avuto bisogno un giorno del mio viaggio, del mio Sudamerica, del mio beccaccino e del mio sogno da realizzare.

Ma, soprattutto, capii che avrei avuto bisogno di un vero compagno di viaggio perché, nonostante la differenza d’età, Carl Fredricksen e Russell si completavano a vicenda. L’uno testardo e solitario, l’altro coraggioso e vivace. Carl è un anziano con il rimorso di non aver portato Ellie, l’amata moglie, alle Cascate Paradiso; Russell è il giovane, coraggioso ma maldestro, con il grande sogno di diventare un esploratore. Per la legge degli opposti che si attraggono, i due compagni di viaggio si ritroveranno ad affrontare ostacoli e a lottare per Kevin, un fororaco la cui vita è in pericolo a causa delle insidie dello spietato antagonista Muntz.

Ciò che più emozionò, oltre alla grandissima storia d’amore che legò Carl a Ellie, fu soprattutto vederli partire, vedere quella casa librarsi in volo e allontanarsi sempre di più. Quella scena mi aprì il cuore, mi colmò gli occhi di lacrime e mi fece capire come spesso le cose debbano succedere per caso: una strana coincidenza, un imprevisto o un errore possono trasformarsi in una grande avventura. E a ricordarmelo, due anni dopo, fu proprio L’arte di viaggiare di Alain de Botton. Diviso in cinque parti (Partenza, Motivazioni, Paesaggio, Arte, Ritorno), l’opera dello scrittore francese è un viaggio sia fisico che mentale, un manuale del vivere bene che ricorda a tutti i lettori come solo il partire (ma soprattutto il tornare) sia  il modo migliore per comprendere se stessi, superare le piccole paure, abbandonare i rimorsi (per poi scoprire che a casa si nascondeva un tenero biglietto di Ellie, vero Carl?).

L’arte di viaggiare è un piccolo gioiello con cui Alain de Botton ci aiuta a superare quel piccolo panico che ci prende quando sul profilo di Facebook vediamo l’amico in vacanza alle Maldive o il cugino del fratello di tua zia che sta vivendo la sua più grande avventura in Australia: quando non possiamo partire fisicamente, quando il lavoro ci lascia attaccati al computer per ore, quando la mancanza di un lavoro ci impedisce di partire ci sono loro, i libri, e i loro scrittori che ci sanno portare qua e là per il mondo, ben consapevoli del loro compito di accompagnatori fedeli. Il tutto a un prezzo modico ma, soprattutto, con la mente che si può librare in volo senza paura. Proprio come la casa di Carl.

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