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When a writer is born into a family… Roth da Portnoy alla maturità.

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Nella puntata precedente abbiamo lasciato Philip Roth alle prese con il successo di Portnoy e con la fastidiosa sensazione che la gente lo ritenesse «un coglione ambulante». Colpa sua, d’altronde, che non poteva fare a meno di continuare a credere nella totale referenzialità dei libri (alla vita), come ci racconta bene la sua biografia, Roth scatenato, firmata da Claudia Roth Pierpont, uscita da poco per Einaudi nella traduzione di Anna Rusconi. 

Ma non era solo la famiglia a doversi guardare dal pericoloso scrittore per il quale ogni amico, ogni storia, ogni esperienza è materia di scrittura. Nel 1979 esce Lo scrittore fantasma, libro che narra del rapporto tra un giovane scrittore (il primo ruolo da protagonista per Nathan Zuckerman, forse la sua maschera più celebre) in crisi di vocazione che si rifugia in campagna cercando il consiglio di un vecchio maestro. Per quel maestro Roth si ispirò a Malamud, scrittore che ammirava da sempre e che aveva conosciuto personalmente nel 1961 grazie ad alcune amicizie in comune. Una figura taciturna che metteva tutto il suo genio nella scrittura. Roth cercava da anni il modo di parlare di Anna Frank, ma aveva paura di ricadere nella celebrazione o al contrario nel cattivo gusto; lo spunto per farlo gli viene dal ricordo di una giovane studentessa che aveva incrociato alcuni anni prima nella casa dei Malamud. Nel romanzo la giovane diventerà Anna Frank, che sopravvissuta al campo di concentramento ha deciso di non rivelare a nessuno la sua vera identità e intrattiene una relazione con il vecchio scrittore. Qui Roth lavorò di pura immaginazione, non solo nella costruzione di questo personaggio ma anche nell’invenzione di una relazione tra i due: ai tempi infatti Roth non sospettò nemmeno che il rigido maestro potesse avere una relazione e quando la biografia di Malamud uscita nel 2007 rivelò che lo scrittore aveva avuto una fugace storia con una studentessa di diciannove anni Roth fu il primo a rimanerne sorpreso e in molti gli chiesero come faceva a saperlo già allora.

Via via che Roth si avvicina alla maturità, i temi della vecchiaia e della morte, soprattutto in relazione ai genitori che sono sempre stati presenti nelle sue opere, diventano ricorrenti. In Zuckerman scatenato (1981) lo scrittore Nathan Zuckerman torna sulla scena reduce dal successo ottenuto grazie a un romanzo, Carnovsky, che ha più di un punto in comune con Il lamento. In questo romanzo Roth racconta in modo così credibile la morte del padre di Zuckerman che alcuni arrivarono a chiedergli della morte di suo padre, Herman, che invece a quei tempi era vivo e vegeto. Ad andarsene improvvisamente a pochi mesi dall’uscita del libro fu invece la madre, Bess. Il primo romanzo successivo a questo lutto, La lezione di anatomia (1983) vede ancora una volta protagonista Nathan Zuckerman e si apre con queste parole: «Ogni uomo, quando è ammalato, ha bisogno della mamma». Zuckerman è minato nello spirito dalla perdita e nel fisico dalla malattia. Anche Roth lo era: nel 1982 gli era stata diagnosticata una severa coronopatia, problema che si affiancò al mal di schiena che lo affliggeva dai tempi di un incidente durante il servizio militare e che lo aveva portato ad essere riformato dopo pochi mesi. Il dolore fa il suo ingresso nella vita di Roth e nella sua opera e rimarrà un fil rouge della sua produzione matura. Nel 1989, quando il problema al cuore peggiorerà e gli verranno fatti cinque bypass, Roth si lamenterà di aver sprecato questa esperienza, in quanto Zuckerman si era già sottoposto a questa operazione "sulla carta" qualche anno prima, nella Controvita, uno dei suoi capolavori uscito nel 1986.

Il tempo, la perdita, la morte. In Patrimonio, a pochi mesi della morte per tumore del padre, abbiamo finalmente un ritratto completo e senza filtri narrativi di Hermann Roth (non a caso il sottotitolo del romanzo è «Una storia vera»), che era entrato in qualche modo in tutte le opere del figlio, presenza impossibile da escludere. E un altro dei suoi capolavori, Il teatro di Sabbath, ha origine dalla ricerca di un posto dove farsi seppellire, come spiegò Roth nella sua celebre intervista a Web of Stories: era il 1991, la sua amica Janet Hobhouse era morta prematuramente di tumore alle ovaie e a Roth era toccato il compito di farla seppellire vicino alla madre, come da suo desiderio. Roth, toccato da quell’esperienza, iniziò la ricerca di uno spazio per sé e gli ci volle poco per capire che quella era materia per un romanzo. Senza questo episodio non avremo probabilmente Mickey Sabbath, uno dei personaggi più riusciti di Roth e di tutta la letteratura novecentesca americana. E ancora, il funerale di Bellow, amico e maestro scomparso nel 2009, la cui morte aveva lasciato Roth distutto, viene descritto in Everyman.

Solipsismo delirante, egocentrismo, autoreferenzialtà ossessiva, questo incessante guardarsi l’ombelico: la critica non ha mai risparmiato a Roth stoccate sul taglio autobiografico e egoriferito della sua opera e i critici sono stati i primi ad essere caduti tante volte nella trappola, scambiando la narrazione per confessione. Questo spiega anche l’interesse morboso che si creò intorno alla vita personale di Roth, esploso nel 1996, quando la splendida ex moglie Claire Bloom, attrice inglese con la quale aveva diviso molti anni della sua vita, pubblicò la sua biografia, Leaving a Doll’s House, nella quale molti capitoli sono dedicati al suo matrimonio con Roth, descritto in gran parte come infernale, dandolo in pasto alla critica che non aspettava altro che una prova per inchiodarlo alla sua misoginia e al suo egocentrismo. Marion Winik sul Los Angeles Times affermò senza celare il suo piacere che Portnoy aveva avuto quello che si meritava.

È lo stesso Roth ad aver sempre giocato deliberatamente su questo fraintendimento, creando delle maschere tutte riconducibili a lui, dando sottotitoli da autobiografia alle sue opere ("confessione" o "una storia vera") e inscenando artifici narrativi, dalla seduta psicanalitica alla cronaca di fatti realmente accaduti. Ma non si è mai mostrato davvero nudo davanti al suo pubblico, se non nel libro I fatti, autobiografia scritta come reazione terapeutica in seguito a un feroce attacco di mal di schiena che lo aveva devastato e che gli era stato curato con un ipnotico sedativo, l’Halcion, poi ritirato dal commercio. I fatti sono ancora una volta la vita di Roth messa in parole, ma non rielaborati dalla fiction. Anche qui però Roth non resiste a far entrare in scena la sua maschera, lo scrittore Nathan Zuckerman. All’inizio del libro Roth si rivolge infatti a Zuckerman con una lettera nella quale gli chiede il suo parere sul testo e gli confessa di non essere abituato a scrivere senza un intermediario. In conclusione troviamo la lunga risposta di Zuckerman, che gli consiglia di non pubblicarlo. Roth l’ha fatto lo stesso, perché alla fine, anche davanti alla sua maschera più fedele e longeva, l’ultima parola l’ha sempre avuta lui.

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