Se avrete modo di fare un viaggio in Islanda e di conoscere qualcuno dei suoi trecentomila abitanti (sì, trecentomila in tutta l'isola e sì, tre quarti abitano nella capitale), vi accorgerete che sono molto orgogliosi della loro lingua: una lingua che non parla nessun altro al di fuori di quella nazione e quindi poco utile per scambi economico-culturali col mondo esterno.
Se avrete modo di fare un viaggio in Islanda, vi sentirete dei fotografi perché puntando l’obiettivo della più scarsa macchina fotografica sul magnifico e a volte malinconico paesaggio che vi circonda otterrete foto memorabili senza sapere come abbiate fatto.
Non si posso non notare queste caratteristiche tipicamente islandesi sullo sfondo dei romanzi di Jón Kalman Stefánsson. Una trilogia formata da Paradiso e Inferno, La tristezza degli angeli e Il cuore dell’uomo che racconta di un ragazzo innamorato delle parole che perde il suo migliore amico, a sua volta innamorato delle parole, perché talmente rapito dalle pagine de Il paradiso perduto di John Milton da dimenticarsi la cerata che lo avrebbe protetto dal freddo nel mare aperto del Nord.
Come tutti gli amori che si trasformano in cieca passione portano un carico di pericolo, anche quello per la parola può far morire un uomo, soprattutto in una natura che domina così incontrastata.
Dopo quella perdita, il ragazzo affronterà una viaggio estremo attraverso una natura magnifica ma non sempre benevola, incontrando persone uniche che affrontano la vita in un luogo che pare essere alla fine del mondo, fra mille difficoltà e ristrettezze. Eppure la poesia sembra non aver scordato nemmeno la più piccola comunità o la più piccola fattoria. Del resto, non era lo stesso Privo Levi a raccontare che rinchiuso nei campi di concentramento discuteva dell’Ulisse di Joyce per non perdere la propria umanità?
Ma allora come può essere che la poesia porti anche dolore e che non basti ad essere felici? Il ragazzo, di cui non viene mai detto il nome, non capisce perché quelli che incontra e che sono circondati dai libri non siano felici, anzi a volte sembrino più infelici degli altri. “Come si può essere infelici in mezzo a tanti libri?” si chiede.
La trilogia di Stefánsson esce dai confini del romanzo di formazione, ma parla di una crescita personale. Parla di libertà, di letteratura, del rapporto dell’uomo con la propria più intima essenza. E la scoperta di questo rapporto, l’incontro-scontro con il proprio io che questa relazione porta con sé, viene messa in scena nella parte più piccola del Grande Nord, sperduta, fredda e priva di tutto. Perché, come altrove scrive Stefánsson , “A volte nei posti piccoli la vita diventa più grande”.
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