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L’isola che (non) c’è

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Nella regione settentrionale dell'Oceano Pacifico esiste un'isola, enorme, che esiste veramente ma di cui (quasi) nessuno si preccupa mai. Su di essa non crescono alberi e non vivono (forse) animali; nemmeno gli uomini hanno alcuna intenzione di viverci, anche se l'esistenza stessa dell'isola dipende proprio da noi. Più che un paradiso oceanico, sembra infatti una metafora dell'inferno. Essa è chiamata GPGP o PTV.

Il luogo di cui sto parlando, la GPGP o "Grande Chiazza di Immondizia del Pacifico", come avrete capito, ha un connotato tutt'altro che mistico. Essa si trova approssimativamente fra il 135° e il 155° meridiano Ovest e fra il 35° e il 42° parallelo Nord, con un'estensione stimata essere fra la superficie della Spagna e quella degli Stati Uniti d'America. Come preannunciato, la GPGP non è composta da rocce o sabbia, ma da tutti quei rifiuti antropici che, galleggando sul pelo dell'acqua, seguono le correnti marine e finiscono per formare dei super-aggregati di pattume. La maggior parte di questi rifiuti sono plastiche e altri materiali polimerici di scarto.

Ovviamente, la Grande Chiazza non è da sola, ma rappresenta la più grande di altre quattro o cinque isole dislocate nel mezzo degli oceani di tutto il mondo. Della serie: sapete dove finiscono i nostri rifiuti?

A questa domanda ci risponde Nicolò Carnimeo, autore del saggio d'inchiesta Come è profondo il mare. La plastica, il mercurio, il tritolo e il pesce che mangiamo. Egli, giurista barese e docente di Diritto della Navigazione all'università degli studi di Bari "Aldo Moro", è anche giornalista e grande appassionato di mare.

Salpando con la sua barca per il mare Nostrum e altre leghe, Carnimeo si è interessato di tutti quei modi in cui l'uomo ha tentato (spesso con successo) di distruggere l'ambiente marino, facendo un resoconto dettagliato degli scarichi industriali dismessi ma non bonificati, dei veleni che si inseriscono nella catena alimentare di molti organismi marini e naturalmente delle chiatte di rifiuti gallegganti come quella Pacifico settentrionale.

Due elementi meglio esemplificano l'impresa letteraria del giurista-navigatore, tanto agghiacciante quanto narrativamente avvincente: la plastica e il mercurio.

La prima, che come detto costiuisce la quasi totalità della GPGP e delle altre "isole", ha delle connotazioni che ci riguardano da vicino. Pochi, infatti, quando gettano dalla loro barchetta un barattolo o una bottiglia, hanno presente il tempo che un materiale impiega per essere "smaltito" dall'ambiente. Un pezzo di vetro, ad esempio, non viene degradato da nessun agente biologico e dunque, avendo una composizione essenzialmente inorganica, ritorna, dopo esser stato frammentato più e più volte, alla stessa polvere da cui proveniva. Per la plastica però, il discorso non è altrettanto facile: essendo costituita da polimeri (pensate al Moplen e al polipropilene isotattico), quando sottoposta ad irraggiamento continuo da parte delle radiazioni solari, essa può scomporsi in unità molecolari sempre più piccole attraverso un fenomeno detto "fotodegradazione". I prodotti di questo processo non sono, per quanto piccoli, biodegradabili e dunque finiscono per entrare, così come son fatti, nell'equilibrio biogeochimico dell'oceano. Alcuni di essi, però, possono dar luogo a composti chimici più complessi e alle volte estremamente tossici, vedi il caso del bisfenolo-A e dei policlorobifenili (PCB), alcuni degli inquinanti organici più persistenti.

Il mercurio, che nella sua forma inorganica elementare è davvero affascinante, meno attrattivo diventa se si trova in composti organomercuriali. Uno di questi è il metilmercurio, che fino a qualche tempo fa rappresentava uno degli scarti principali della produzione industriale della formaldeide. Questo composto ha la caratteristica di essere stabile in ambiente acquoso e di essere molto liposolubile. Ciò significa che può accumularsi facilmente nelle cellule di vari organismi, senza essere mai distrutto. Famoso fu il caso della città giapponese di Minamata, grande porto industriale e vivo centro ittico. Un'industria della zona, che rilasciava metilmercurio nelle acque del mare, fu responsabile dell'intossicazione di parte della popolazione della città, che mangiando prevalentemente pesce "arricchito" di questo composto, fu colpita forti danni neurologici.

Perdonate la franchezza e l'inquietudine di questi esempi, ma il libro di Carnimeo non deve servire solo per inorridirci. Esso rappresenta uno dei pochi esempi in cui la realtà supera la fantasia e dove bisogna armarsi di sano pragmatismo e decidere di non lasciare nei nostri mari quell'isola che (non) c'è e che rischia di diventare un disastro ambientale senza precedenti.

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