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James McBride, miracolo ai National Book Awards

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Photo Credit: Steve Bertrand

Se James McBride avesse creduto un po’ di più nelle sue chances di vittoria, probabilmente, al pacato annuncio di Charles McGrath non avrebbe alzato, incredulo, lo sguardo dal suo piatto di millefoglie alle mele nella sala del Cipriani Club di Manhattan. Anzi, si sarebbe messo comodo in attesa del verdetto, in un misto di emozione, presunzione e compostezza, tipico di chi sotto sotto in fondo crede di essere il predestinato ma non vuole darlo a vedere. Invece, ed è il bello della diretta, James McBride era così sicuro che il suo romanzo The Good Lord Bird non avrebbe vinto il National Book Award che ha raggiunto il palco stordito, impacciato tra gli applausi, nel suo smoking e inseparabile cappello di feltro, andatura sincopata come il jazz che tanto ama. E in mano, anziché il gli appunti di un discorso, ancora il tovagliolo del dessert.

Così sicuro di non farcela da non preparare nulla da dire. D’altronde, le nomination di quest’anno per la sezione Fiction erano di tutto rispetto: George Saunders con i racconti di Dieci Dicembre e Thomas Pynchon – già vincitore nel 1974 – con Bleeding Edge, The Flamethrowers di Rachel Kushner e The Lowland di Jhumpa Lahiri, già finalista al Man Booker Prize. È andata diversamente dalle attese: The Good Lord Bird ha sbaragliato la concorrenza. E se in Italia il nome di James McBride dice poco e niente, noto ai più solo per il romanzo Miracolo a Sant’Anna, diventato famoso con l’adattamento cinematografico di Spike Lee, il mondo editoriale americano non è stato certo colto di sorpresa dalla notizia. Già lo scorso agosto lo scrittore Baz Dreisinger, dalle colonne del New York Times Book Review aveva elogiato la scrittura di McBride, paragonandolo a un moderno Mark Twain.

Disponibile per ora solo in lingua originale, The Good Lord Bird narra la storia di Henry Shackleford, un giovane schiavo che vive in Kansas nel 1857 durante la guerra civile. L’arrivo del leggendario abolizionista John Brown scuoterà per sempre la vita di Henry, costretto a lasciare la città con Brown, che lo crede una ragazza. Nei mesi successivi, Henry – soprannominato da Brown Cipollina – continuerà a nascondere la sua vera identità a Brown mentre lotta per rimanere in vita. I due si ritroveranno protagonisti in alcuni momenti chiave della guerra civile americana, come l’attacco ad Harpers Ferry nel 1859.

Mai come quest’anno la storia del passato schiavista era stata al centro dell’attenzione culturale americana. Il film di Steve McQueen, 12 Years a Slave, sicuro protagonista ai prossimi Oscar e le celebrazioni per il 150° anniversario del Discorso di Gettysburg ne sono la dimostrazione. La vittoria di James McBride si inserisce in questo solco, ma porta con sé un’indubbia novità: raccontare il periodo della schiavitù e i suoi protagonisti con uno sguardo diverso, che tirasse fuori anche agli aspetti divertenti, quasi comici, dei personaggi. È il caso dell'abolizionista John Brown. Lo stesso McBride, in un’intervista, dichiara: «Ci sono un sacco di buoni libri scritti su John Brown, ma sono tutti seri. A me non piacciono i libri troppo seri, mi deprimono. Volevo scrivere un libro che avrebbe fatto ridere la gente, e allo stesso tempo, avrebbe continuato a informarla su quanto è accaduto». Ecco allora che la visione che abbiamo di John Brown nel romanzo è quella di un uomo a tratti persino giocoso. «The Good Lord Bird si differenzia dalle mie opere precedenti perché è un libro di caricature, che mira a essere divertente. [...] La caricatura dirama il grigiore, si dirige spedita verso la verità».

Vivere il dramma ricercando continuamente la leggerezza necessaria per andare avanti. Trovarla nel miracolo della scrittura, nella forza della propria immaginazione. Lo sa bene McBride, che ha scritto The Good Lord Bird nel periodo più difficile della sua vita: a inizio 2010 deve affrontare la scomparsa di sua madre, due settimane dopo la perdita di una nipote. Infine, nello stesso anno, il divorzio dalla moglie. «Ho scritto gran parte del romanzo dormendo su un futon nella mia casa sulla 43esima strada, durante il periodo del divorzio. Eppure, è stato un sollievo per me immergermi ogni volta nella vita di Henry Cipollina e ridere insieme a lui, trovare felicità dove non c’era niente. Le sue avventure con John Brown mi hanno fatto divertire».

A proposito, ha raccontato questo, James, alla platea del Cipriani. Questo il suo discorso: la storia del suo romanzo, la sua storia. Meglio di qualsiasi lista generica di ringraziamenti. Mi verrebbe da chiedergli se poi il tovagliolo l'ha conservato da qualche parte. 

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Dexter vs. Bateman

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Dexter Morgan

Un’altra giornata di lavoro finita. Saluto mia sorella Debra con un gesto della mano e un bel sorriso finto, anche se lei non se lo merita. Lei mi vuole bene. Se mai sorridessi sul serio, sorriderei a lei.
Salgo le scale, entro in casa, richiudo la porta e mi ci appoggio contro con un sospiro. Finalmente solo, posso abbandonare l’espressione da ‘persona per bene’ e liberare la mia vera natura.
Ho comprato il mio sandwich preferito lungo la strada, ma ora ho fame di qualcosa di diverso.
È una settimana che aspetto questo momento, e adesso che è arrivato sento le dita fremere di anticipazione. Questa è la notte giusta.
Chiudo la porta a chiave, abbasso le persiane e spengo il telefono. Accendo un’unica luce, quella vicina alla poltrona. Mi siedo, afferro il libro e affondo nella pagina.
Questa notte è la notte in cui potrò finalmente finire American Psycho.

Mi chiamo Dexter, Dexter Morgan.
Da giorni, cadavere dopo cadavere, seguo Patrick Bateman per le strade di New York. Lo osservo da lontano nei ristoranti eleganti, nei locali per yuppies cocainomani, nei vicoli bui a caccia di barboni da torturare. Lo rincorro fino a trovarlo con le mani in pasta dentro qualche prostituta molto sfortunata, col sangue che gli zampilla in faccia mentre ride sguaiatamente (Patrick, non la prostituta).
Lui mi… interessa. Vorrei aggiungerlo alla mia collezione, ma non solo. Vorrei capirlo.
Anche lui, come me, si nasconde dietro una facciata di apparente perfezione. Quelli come noi non vengono accettati facilmente dalla gente 'normale'.
Ovviamente io sono molto più bravo. Patrick è debole e disperato.
Potrei elencare i suoi sbagli da novellino come lui elenca marche di vestiti. Per non parlare del suo oscuro passeggero che cerca di smascherarlo, sussurrando confessioni alle orecchie distratte di camerieri e colleghi.

Sarebbe divertente provare, però. Potrei presentarmi a lavoro e al “Buongiorno!” di Masuka rispondere “Ho ucciso io il Killer del Camion Frigo, ed era pure mio fratello”.
Che pensiero ridicolo. Io non posso farmi scoprire, ne va della mia sopravvivenza. Patrick invece non ha bisogno di uccidere, è solo un maniaco.
È impreciso, impulsivo, volgare. E soprattutto, non pulisce mai.
Come può usare la sega elettrica su un bacino senza prima stendere il cellophane?
Sospiro, appoggio il libro, mi massaggio le tempie.
Mi preoccupa, Patrick. Si farà arrestare di sicuro, o impazzirà del tutto.
Io gli farei fare una fine decisamente più dignitosa.

 

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Cent’anni di Julio Cortázar | Crescere

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il Secolo Corta è una rubrica latticino, con data di scadenza: 26 agosto 2014. È anche la festa per il centenario più lungo del mondo, ma non possiamo esserne certi. Diciamo che abbiamo dieci nove mesi per festeggiare cento anni, che son quelli di Julio Cortázar, lo scrittore più alto del mondo. il Secolo Corta è un omaggio: ogni mese una puntata, ogni puntata un tema. Vuoi contribuire? C'è anche un blog, per dire: sarebbe bellissimo.

 

*

 

Crescere, secondo il dizionario, significa aumentare in dimensioni e anche svilupparsi secondo un processo naturale e anche ingrandirsi e anche essere allevato e trascorrere l'infanzia in un luogo o in una condizione.

Possiamo dire che Julio Cortázar sia cresciuto tantissimo, dunque.

Qualcuno, addirittura, alla sua morte, ha parlato di gigantismo, di scompensi ormonali.

Lui, per dirla come Joaquín Soler Serrano, si omaggiava un paio di centimetri, millantando viceversa di essere alto un metro e novantatré anziché un metro e novantacinque centimetri.

Comunque molto.

E poi la Banfield degli inizi del novecento, quattordici chilometri a sud di Buenos Aires, il metasuburbio della capitale, il barrio che si incontra nei testi tangheri, un posto con strade non pavimentate, nostalgici a cavallo e «una pessima illuminazione che favoriva l'amore e la delinquenza in egual misura».

È qui che la famiglia Cortázar si stabilisce nel 1918 ed è qui che Cortázar viene allevato e trascorre l'infanzia [cit.], è qui che cresce, a Banfield, che prende il nome da Edward Banfield, ingegnere inglese, direttore della compagnia ferroviaria Buenos Aires Great Southern Railway, il tizio che alla fine del XIX secolo portò il treno in Argentina.

 

Julio Cortázar si sradica dal “metasuburbio” a diciassette anni, età in cui si definisce un lettore onnivoro, capace di spaziare da Mointagne ad Edgar Wallace, da Platone a Sexton Blake, e senza rinnegare niente perché «anche la cattiva letteratura, se si legge molto nell'infanzia e nell'adolescenza, ti lascia un certo materiale tematico, una ricchezza di linguaggio, ti insegna certe cose, certi procedimenti».

E poi la folgorazione.

 

La folgorazione, per il Cortázar lettore, sono due nomi: Edgar Allan Poe e Jean Cocteau.

Dell'americano, di cui fu biografo e i cui tesi lo «terrorizzarono e commossero», lesse l'opera omnia di nascosto, da bambino, per poi tradurlo, da adulto, arrivando a riordinare i racconti di Poe attraverso un ordine tematico e non cronologico e formalizzando un procedimento che diverrà feticcio negli anni a venire. Del francese, invece, e del suo Oppio, il merito, come scriverà lo stesso Cortázar, «di avermi fatto immergere per la prima volta non solo nella letteratura moderna, ma nel mondo moderno».

 

Il Cortázar “crescente” è stato un bambino cagionevole di salute e un ragazzo solitario.

«Pochi amici, ma buoni. Un paio, a scuola, con cui avevo completa confidenza, nel bene e nel male. Non ho mai chiamato con facilità nessuno “amico”. Un principio che qualunque persona sensata dovrebbe adottare».

E la solitudine, immancabile, probabilmente l'etichetta più incollata alla superficie Cortázar.

«Sono un solitario. Sto bene da solo. In Europa, per diversi motivi, ho scoperto il prossimo. E quello che rivendicavo con orgoglio e con diritto, la solitudine, si è trasformato in senso di colpa. Vivo una sorta di sbarramento, di conflitto. Sono un po' come dottor Jekyll e mister Hyde, e anche quando mi sento bene, al centro di una discussione, attorniato da persone, sento una vocina, dentro, che chiede perché non mi trovi a casa, ad ascoltare un disco, per conto mio».

 

Ma crescere non è sempre bello e tutti abbiamo avuto i nostri traumi, (altrimenti non avrebbero inventato la psicologia, di cui, tra l'altro, Cortázar fu avido lettore).

Per esempio quella volta in cui la sìora Descotte dubitò del figlioletto letterato.

«Scrissi alcune poesie, che non feci leggere a nessuno. Uno zio, o un amico di famiglia, riuscì a metterci le mani sopra, non so come. Disse a mia madre che dovevo avere copiato le poesie da un'antologia letteraria e lei, una notte, con un po' di vergogna, venne a chiedermi se realmente avessi scritto o copiato quelle poesie. Fu una grande sofferenza. Il fatto che mia madre potesse dubitare di me fu come la scoperta della morte. Realizzai che tutto era relativo e che tutto era precario».

 

E crescere sono anche visioni inquietanti e disperse (che per fortuna torneranno, ndr), di colori e di forme strane, di maioliche.

Cortázar ha dieci anni quando, sorpreso e spaventato da queste improvvise irruzioni, chiede lumi a sua madre.

«Disse che quando avevo un anno e mezzo, a Barcellona, mi lasciava giocare nel Parco Güell e che questa “contaminazione” con l'arte e con le figure di Gaudí potesse essere la risposta al mio interrogativo. Evidentemente, i bambini vedono le cose in maniera primitiva, come pure intuizioni. Quando tornai in Europa, nel 1949, presi una nave il cui primo scalo fu proprio a Barcellona. Immediatamente tornai al Parco Güell ma tutto era diverso, anche per una questione di ottica e di altezza».

 

E anche per una questione di crescita e di quei centonovantatré centimetri ormai tutta carne, sigarette e magia.

 

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Chi sale e chi scende: su Bookcity, giù Masterpiece

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Si è conclusa domenica la seconda edizione di Bookcity, il festival letterario che con 600 eventi sparsi in moltissime location ha letteralmente, anzi letterariamente, occupato la città di Milano. Domenica sera è stata anche la volta della seconda puntata di Masterpiece, il primo talent letterario al mondo, trasmesso in seconda serata su Rai3, che mette in palio un contratto di pubblicazione con Bompiani per il concorrente che verrà giudicato vincitore da una giuria composta dagli scrittori Giancarlo De Cataldo, Andrea De Carlo e Taiye Selasi.

Diamo dunque un po’ di numeri e vediamo come sono andate le cose in questo weekend letterario, fuori e dentro gli schermi. Sale Bookcity, che conferma e anzi quasi raddoppia il successo della prima edizione. Più 60% di presenze, oltre 130 mila visitatori (rispetto agli 80 mila dell’anno scorso) hanno affollato la città perdendosi tra appuntamenti, stand, presentazioni nelle oltre 182 sedi coinvolte. Grandissima attenzione per le scuole, con oltre 20 mila bambini e ragazzi coinvolti nelle iniziative dedicate espressamente ai piccoli lettori. 

Scende invece Masterpiece, che registra uno share negativo rispetto a quello già non troppo entusiasmante della prima puntata, con un calo dal 5,14% al 3,9%, ovvero da circa 700 mila a 633 mila telespettatori.
Certo, domenica ci si è messo di mezzo il calcio, mentre la puntata di esordio si era tenuta durante una pausa del campionato di Serie A, e inoltre un certo calo alla seconda puntata di un talent è fisiologico; rimane il fatto che i dati non siano incoraggianti e che il programma, del quale si era parlato tanto e sul quale la Rai aveva dichiarato di puntare molto, non sta sollevando un grande entusiasmo. Infatti, se il talent non fa il pieno di ascolti, non si fa certo mancare nulla per quanto riguarda le critiche su Twitter; non so se avete avuto la mia stessa sensazione, ma se la quantità di tweet al vetriolo corrispondesse all’attenzione che il programma ha saputo catalizzare, si dovrebbe dedurre che lo abbiano visto tutti. Una delle critiche principali al format, come riportato anche dal nostro Andrea, è che nella prima puntata si sia dedicato maggiore spazio alle storie personali dei concorrenti che ai testi. Lo stesso Andrea De Carlo, uno dei tre giudici, si era augurato che nella seconda puntata venisse dato maggiore spazio al parere dei giudici e alla lettura dei testi, cambiamento che non c’è stato, probabilmente per la difficoltà di inserire la lettura di brani all’interno di un contesto "visivo" come quello televisivo. Si è tentato di farlo inserendo i brani in sovrimpressione, ma è evidentemente difficile non concentrarsi più sui "personaggi" in questa prima fase che riguarda la selezione degli aspiranti autori che accederanno alla fase finale, nella quale con tutta probabilità avranno maggior peso le opere. 

Insomma, la gente ha riempito le strade di Milano per sentir parlare di libri, vederli, incontrare gli autori, mentre parte del pubblico della prima puntata di Masterpiece ha dedicato la sua serata a fare altro. Molto probabilmente solo una piccola parte dei due pubblici coincidono e sarebbe assurdo tracciare un nesso tra i due eventi. Quel che è certo è che se è tutt’altro che provato che i festival letterari portino più lettori nelle librerie, che lo possano fare i talent televisivi è tutto da dimostrare. Noi ci auguriamo che sia così, e che parlare di letteratura, nelle piazze o in tv, possa invogliare alla lettura qualcuno di quel 54% di italiani che nel 2012 non ha mai preso un libro in mano. 

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Regali per libromaniaci

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Photocredit: frammento di Book Map by Dorothy

 

Bando alle ciance, qui c'è un'emergenza di proporzioni ciclopiche. Manca poco meno di un mese a Natale. Sì. Anche per voi che pensate di essere al sicuro guardando il calendario che segna ancora novembre. Sì, soprattutto per voi che al primo risuonare di zampogna preferireste andare a chiudervi in un fosso in Afghanistan piuttosto che fare l'albero e comprare il panettone. Le buone notizie sono due: primo, siete persone che amano leggere e per fortuna siete circondati da persone altrettanto adorabili; secondo, siete in tempo per ordinare su internet il regalo che ogni libromaniaco vorrebbe ricevere. Ecco 5 meraviglie di cui non potrete fare a meno, da me personalmente testate, regalate, consigliate. 

1. Book clutch di Olympia Le-Tan. Ah, Olympia, quanto ci costi! Ma quanto sono splendide le tue pochette ricamate a forma di libro! Se il prezzo non fosse così proibitivo, ci sarebbe da comprarle tutte, una per ogni classico che voi e le vostre amiche avete amato, da abbinare al vestito, all'umore, o da non abbinare per niente, perché stanno bene con tutto. (Variante low cost, le clutch di Chick-Lit Designs su Etsy.)

2. Penguin canvas art. Le iconiche copertine Penguin Classics riprodotte su tela (in due dimensioni, a seconda della grandezza delle vostre pareti e del vostro portafogli) con inchiostri d'archivio. C'è quella di Orgoglio e pregiudizio, del Grande Gatsby, di Una stanza tutta per sé e tante altre. Arredano da Dio, e se i vostri amici leggono in inglese non possono esimersi dall'urlarlo a tutto il mondo (o almeno agli ospiti di casa) con una tela così all'ingresso.

3. Bookrest lamp. Il vostro amico legge solo libri cartacei che tratta come fossero reliquie del 300? Non farebbe mai le orecchie alle pagine ma perde i segnalibri? Si addormenta leggendo e perde il segno? Fate in modo che accompagni il suo sonno preservando la salute della trama con questa lampada su cui riporre il libro, aperto, appena le palpebre si appesantiscono.

4. Book map. Altro rimedio per pareti vuote e anonime. Lifting immediato con la mappa dei libri (ce ne sono più di 600) disegnata dal collettivo We Are Dorothy. Contate quanti ne avete letti, quali vi mancano, quali – magari – mancano alla mappa. 

5. Felpa del Grande Gatsby. Immaginate una domenica di neve passata a leggere, con l'immancabile supporto di tè, torta, cuscini e gatto. Ora immaginatela con questa felpa addosso. È tutta un'altra cosa, eh?

E voi avete altri regali imprescindibili per i libromaniaci della vostra vita?

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Michael Dahlie | Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria

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Cose da fare dopo aver letto questo libro:

  1. Andare a New York, uscire dall’aeroporto e prendere un taxi che mi porti dritto a Brooklyn.
  2. Non abbonarmi alla rivista letteraria il Demente.
  3. Non affidare mai, e dico mai, nemmeno un canarino a uno scrittore.

Adesso vi spiego perché ho stilato questa lista: se fossi stata a Brooklyn conoscerei le strade che percorre Henry, il protagonista di Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria (Michael Dahlie, Nutrimenti), i locali che frequenta, spesso a malincuore, pieni di hipsters e di gente tatuatissima. Sono convinta, infatti, che guarderei le cose con il suo stesso distacco perché, senza andare troppo lontano e non necessariamente oltre oceano, spesso mi capita di sentirmi un pesce fuor d’acqua esattamente come Henry. Sentirsi alieni, desiderare un altrove che non si riesce a collocare geograficamente ma, se due alieni s'incontrano, finisce la ricerca, si spengono tutti i dispositivi, motori, allarmi, gps, si tira un sospiro di sollievo, si trovano parole e argomenti e non ci si difende più. E trovato un linguaggio comune, allora, magari, io e Henry diverremmo amici e parleremmo di scrittura e di letteratura e anche del dubbio che lo assilla e sosterremmo che sì, si può corteggiare una cugina di terzo grado.

trascurabili contrattempi1 Michael Dahlie | Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloriaIl Demente, invece, è una rivista che Henry fonda, o meglio finanzia, senza troppo convincimento. Una cosa che si è ritrovato a fare (come sempre!) insieme al gruppo di collaboratori più stronzi che si possano immaginare. Quindi, per me nemmeno una copia omaggio grazie.  Figuratevi che il direttore, quello che Henry paga, si rifiuta persino di pubblicare i suoi racconti. Già, una precisazione va fatta: Henry è uno scrittore, uno bravo e ricco. Ma è un imbranato. Appena si muove succede un cataclisma, gli eventi precipitano e si ritrova sempre in situazioni assurde e imbarazzanti. È così Henry, vive nel suo mondo, è lui il primo a stupirsi delle cose che gli accadono, come se fossero successe a un altro e non a lui.

Per quanto riguarda il terzo punto, che dire, chiedetelo a un centinaio di capre libiche, se potessero parlare ve ne racconterebbero delle belle.

Mi sono divertita molto a leggere questo libro, se ne sono accorti anche gli amici, perché io quando leggo (e non) faccio le facce, sembro una matta ma faccio le facce. Il che significa che sorrido, sgrano gli occhi, annuisco, mi acciglio e gli altri che mi osservano, capiscono se sto leggendo qualcosa di piacevole o meno; qualche pomeriggio fa, mentre leggevo il libro circondata da un gruppo di amici che nel frattempo prendevano il caffè, si sono accorti tutti che me la stavo spassando. Certo, prima di dire il titolo bisogna fare un gran respiro. Nella versione in inglese era molto più corto The best of youth – che è anche il titolo del romanzo che a un certo punto scriverà Henry - ma non rende l’idea di tutto quello che ci si trova dentro.

Con Henry vorresti cenare, bere una birra, e, personalmente, se fosse un personaggio in carne ossa gli direi: lascia perdere il Demente e vieni a scrivere per Finzioni, questo è il posto giusto per te.

MIchael Dahlie, Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria, Nutrimenti 2013.

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Intervista a Paolo Giovine di PubCoder

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Questa è la versione integrale dell'intervista a Paolo Giovane, già uscita in versione ridotta nell'ultimo numero di Pool Magazine dove curiamo una rubrica che si chiama Book Geeks. Come sempre andiamo a caccia di innovatori letterari e Paolo è una delle brillanti menti che si nasconde dietro al progetto PubCoder, uno strumento di pubblicazione digitale e interattiva che permette a chiunque di creare delle storie e poi diffonderle facilmente. Di PubCoder avevamo già parlato qui… ma sentiamo cos'ha da dirci Paolo.

Nome

Paolo Giovine

Età

41

Lavoro

Founder di PubCoder

Spiega ai lettori cos'è pubcoder in 250 battute

PubCoder è un software (oggi gratuito e solo per Mac) che permette di realizzare un EPUB3 fixed layout, ovvero un ebook ricco di interazioni; non serve saper scrivere codice, ci vogliono idee ed un po' di pazienza. EPUB3 diventerà lo standard più diffuso per il libro digitale interattivo, ci aspettiamo che il 2014 includa anche il mondo android.

L'ultimo libro che hai letto?

Il fondamentalista riluttante, di Mohsin Hamid. Affronta un tema difficile senza troppe banalità, è una dote che ammiro sempre.

Quale libro vorresti aver scritto?

Ce ne sono tanti. Ne cito due molto diversi, Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace e Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal. Ma, fortunatamente, li hanno scritti loro. Non saprei essere così divertente o così drammatico.

Meglio carta o digitale? (che domande…)

Io leggo indifferentemente carta e digitale, dipende dalla situazione; tendenzialmente attribuisco poca importanza al supporto, se non condiziona la mia lettura. Se leggo Dante, va bene tutto; se lo studio, e mi serve utilizzare la notazione, sottolineare qualcosa, fare una domanda a chi ne sa più di me, allora il digitale è pratico. Non trovo di grande utilità l'avere tutto e subito, è il marketing che rende urgente il download in due minuti di qualsiasi cosa; se ho tempo di dedicare una decina di ore ad un libro, allora posso anche permettermi di ordinarlo in libreria e, probabilmente, di pagarlo qualche euro in più. La rivoluzione digitale non è avere tristi videate di testo disponibili subito ed in quantità industriale; la rivoluzione è utilizzare nuovi formati, libri con cui interagire, audiolibri accessibili, materiali di studio o di approfondimento che migliorano l'esperienza, che permettano letture meno superficiali impegnando meglio il nostro cervello. Che ve ne fate di 2000 libri nel vostro Kindle? Quando pensate di leggerli? Quelli di carta, almeno, arredano…

Qual è il tuo social preferito?

La trattoria; le conversazioni migliori della mia vita sono state a tavola. Uso anche dei social digitali, ma le persone sono migliori con un bicchiere di vino in mano. Quanto vale un pranzo con l'influencer giusto? Tantissimo. [Come dargli torto?!]

Qual è, secondo te, il futuro del libro (se ha un futuro)?

Il libro ha un futuro se mantiene la sua funzione: quella di rendere popolare la cultura, di distribuirla al di fuori delle élite. La stampa ha permesso questo, ed è sufficiente allo scopo ancora oggi: mentre in Occidente si piange la fine dei quotidiani stampati, in tutti i paesi in via di sviluppo aumentano le tirature, per soddisfare la richiesta di milioni di nuovi lettori, finalmente alfabetizzati. Il dibattito non è tra inchiostro e bit, ma riguarda la sempre migliore accessibilità del sapere.

Qual è oggi il modo più economico per diffondere un libro in una piccola comunità montana? Finanziare la sua piccola biblioteca, perché portare la banda digitale costa enormemente di più (ovviamente nel breve periodo, ma nel breve periodo si forma una generazione di cittadini). Dare un futuro ai libri significa porsi il problema delle loro accessibilità e della loro diffusione: non è sufficiente la wifi, o comprare una LIM. Bisogna lavorare per garantire la migliore distribuzione dei contenuti, ovvero evitare che un libro comprato da Apple sia inaccessibile dal tablet di un altro produttore, o che la mia libreria digitale non sia trasferibile alle mie figlie se non trasferendo loro anche dell'hardware. Servono standard universalmente condivisi, sia per la costruzione dei libri che per la loro protezione (anche i sistemi di DRM impediscono l'utilizzo diffuso, perché sono proprietari…)

Sarà poi interessante anche vedere in quanto tempo arriveremo al digital landing diffuso: smetteremo di comprare i libri, ma accederemo al libro per il tempo necessario a leggerlo. E se ci piacerà, forse, ne vorremo anche una copia fisica, stampata on-demand: e saremo disposti a pagarla molto di più, perché sarà fatta per noi, forse con le nostre note e una copertina decisa con un gruppo di amici (reali o virtuali).  

Il futuro dei supporti mi è indifferente; sono preoccupato per i contenuti.

Editoria 2.0… ma non era meglio aprire una gelateria?

Quello è il piano B icon smile Intervista a Paolo Giovine di PubCoder

David Foster Wallace o Dan Brown?

Chi è Dan Brown?

Mark Zuckerberg o Steve Jobs?

Steve Jobs, perché nella sua storia c'è molta meno finanza e molta più creatività; ha rischiato di più sulle sue idee, e le ha difese con coerenza.  

Cosa fai quando non sei un innovatore letterario?

Grazie per la definizione, la userò per spiegare quello che faccio (non mi riesce quasi mai); faccio cose banali ma bellissime con le persone che amo.

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Kindle Paperwhite 3 nel 2014?

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Rumor has it che tra Aprile e Giugno 2014 uscirà un nuovo eReader targato Amazon, un altro Kindle, il Paperwhite 3. La notizia, data da TechCrunch, non è ancora stata discussa e rimasticata abbastanza perché la data di uscita del device possa essere confermata.

Sono passati davvero pochi mesi dall'uscita del Paperwhite 2, ne avevamo anche parlato in realzione all'innovatività del display e le ottime features del device. Molti di noi non hanno nemmeno ancora fatto in tempo a provarlo, chissà in quanti lo regaleranno per Natale. Dunque la domanda sorge spontanea: perché una nuova release in tempi così ravvicinati?

Badate bene che si tratta, ovviamente e per ora, di notizie non commentate da Amazon e che potrebbero essere smentite nel tempo, con l'avvicinarsi dell'uscita del device. Ad ogni modo, queste le presunte features del Paperwhite 3 – o Ice Wine (Vino Freddo…) – secondo TechCrunch:

  • risoluzione 300 ppi (ricordiamo points per inch, punti per pollice), ancora migliore del Kobo Aura HD;
  • sensore ambientale per la regolazione automatica della sovrailluminazione;
  • un display touch aptico (cioè con un feedback responsivo al tatto. Esempio: lo schermo dello smartphone o, esempio ancora migliore, il joypad della Playstation);
  • forse più leggero del suo predecessore, e con un'estetica hardware più curata fin nella scelta dei materiali (pare non sia di plastica…);
  • un nuovo carattere tipografico, ottimizzato appositamente per la lettura.

Dobbiamo comunque vederlo prima di capire effettivamente com'è, come funziona, di quanto è migliore eccetera. Se tutto ciò fosse vero si tratterebbe di un device davvero innovativo rispetto alla tecnologia del Paperwhite 2, che pure sembra già suffcientemente avanzata da poter durare ben oltre un anno sul mercato, o comunque è il campione nella sua categoria di peso.

Abbiamo fin'ora considerato gli eReader come strumenti di lettura indeperibili, di lunga durata, una sorta di investimento, in pratica. Rilasciare un versione migliorata di una tecnologia hardware così presto vanifica totalmente questa mentalità: non si tratta di un aggiornamento software del quale, finché il deivce la supporta, può essere rilasciata anche una versione al giorno che tanto basta un click per aggiornare il tutto e il gioco è fatto. Qui si tratta di prendere il Paperwhite 2 e buttarlo in fondo ad un cassetto nemmeno un anno dopo il suo acquisto.

Rilasciare una nuova versione di un device rende automaticamente obsoleto il precedente, il che significa che il Paperwhite 2, appena uscito, sarà obsoleto già a metà del 2014. Questa è esattamente la stessa modalità con cui vengono rilasciati gli smartphone, per intenderci: una costante e frequente produzione di nuovi device a sostituirne, via via, la versione precedente. Sul versante industriale questo è un costo non indifferente, sopperito spesso (per gli smartphone, almeno) con la deperibilità dei materiali.

È forse questa la piega che il mercato degli eReader sta prendendo? Diventerà anche per gli eReader una corsa all'ultimo modello, finché non avremo un cassetto pieno di device perfettamente funzionanti ma tecnologicamente obsoleti? Dov'è l'amore per la lettura in questa frenesia consumistica?

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Né di Eva né di Adamo – Stupore e tremori, un doppio film di Michel Gondry

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stupore e tremori + nè di eva nè di adamo

Cosa succede se la più eccentrica e irriverente scrittrice belga incontra il più visionario e irridente regista francese? Un film ad altissimo potenziale di eleganza e divertimento. Stiamo parlando di Amélie Nothomb, autrice dallo stile brillante e feroce, e Michel Gondry, che a settembre ci ha deliziato con la trasposizione cinematografica de La schiuma dei giorni. Dopo aver portato sul grande schermo un romanzo di Boris Vian, jazzista e studioso di Patafisica, oltre che autore di romanzi struggenti e surreali, Michel Gondry rivolge ora la sua attenzione all’enfant terrible della letteratura francese contemporanea. Il film si basa su due titoli: Stupore e tremori e Né di Eva né di Adamo, brevi romanzi autobiografici che raccontano una fase importante della vita di Amélie: il suo ritorno, all’età di vent’anni, nel natio Giappone. Il primo descrive la sua esperienza di lavoro in una multinazionale, il secondo la buffa relazione con Rinri, giovane giapponese a cui dà lezioni di francese. In entrambi i casi il vero protagonista è il Giappone, terra a cui Amélie si sente intimamente legata, ma che al tempo stesso rimane per molti aspetti incomprensibile e misteriosa, e proprio per questo affascinante. Da una parte la giovane Amélie fa di tutto per essere una vera giapponese, dedicandosi al lavoro con totale abnegazione e spirito di sacrificio, bevendo tè e mangiando sushi, apprezzando il pudore dei sentimenti e la riservatezza degli innamorati nipponici, dall’altra il suo sguardo implacabile svela le contraddizioni, le bizzarrie, le rigidità e i vizi di questa cultura.
Michel Gondry, con il suo stile onirico e soave, mi sembra l’unico in grado di trasporre in modo efficace episodi simbolici e vivaci come l’escursione di Amélie sul monte Fuji, divinità naturale ed emblema dello spirito del Giappone, oppure le folli nottate insonni alle prese con i rimborsi spese, in una lotta impari con la calcolatrice.

CAST
Amélie Nothomb – Helena Bonham Carter: avevate dei dubbi? Guardate le foto di queste due donne straordinarie: sono gemelle separate alla nascita. E percepisco anche una certa affinità di carattere: ribelli, anticonvenzionali, stravaganti, e allo stesso tempo dotate di fine intelligenza e ingegno acuto, sempre fuori dagli schemi, ma con classe. Certo, l’Amélie dei due romanzi è parecchio più giovane della Bonham Carter, ma anche se non esistessero truccatrici in grado di ringiovanire di cinquant’anni anche la Regina Elisabetta, un regista come Michel Gondry non si farà certo scoraggiare da piccole discrepanze anagrafiche.

Jun Ichikawa – Fubuki Mori: Amélie la descrive come una bellezza struggente: pelle candida, labbra disegnate, figura delicata e portamento elegante. Ma Fubuki Mori ha anche un temperamento crudele: umilia e tiranneggia la collega, pretendendo la perfezione anche nelle mansioni più ridicole, come fotocopiare documenti o servire il caffè, per poi declassarla fino al ruolo di “guardiana dei cessi”. Ma Fubuki Mori, lavoratrice irreprensibile, è segnata da un marchio infamante: a ventinove anni non è ancora sposata. Vittima della disciplina di lavoro così come della rigidità sociale, Fubuki Mori è perfetta e miserabile al tempo stesso. Per lei serve un’interprete raffinata e adulta, dalla bellezza non banale. Potrebbe risultare adatta Jun Ichikawa, attrice di origini giapponesi resa famosa dalla serie R.I.S. – Delitti imperfetti, attrice di una bellezza matura e complicata.

Sung Kang – Rinri: Rinri adora l’Europa, disdegna la cucina giapponese, beve Coca-Cola e ha uno strano marchingegno per fare la fonduta svizzera, di cui va pazzo. Ama Amélie con occidentale teatralità e trasporto, le canta canzoni d’amore sotto il ciliegio in fiore e la accompagna in romantiche gite al lago. Invece Amélie ha un contegno tutto orientale e prova per Rinri un sentimento definito Koi: "diletto e affetto". La relazione fra i due si sviluppa in modo asimmetrico e bizzarro, si nutre di differenze, incomprensioni e curiosità reciproche, in un crescendo di aneddoti spassosi con un finale a sorpresa. Rinri è, tutto sommato, un ragazzo come tanti, forse sin troppo normale e occidentalizzato per l’eccentrica Amélie. Per impersonarlo abbiamo pensato a Sung Kang, attore di origini orientali nato negli Stati Uniti, estraneo alla cultura orientale.

NOTE DI PRODUZIONE
Questo film è un’occasione per mettere insieme due romanzi che raccontano vicende sincroniche, eppure sembra incredibile che Amélie potesse passare in una sola giornata dall’inferno dell’ufficio ai soavi incontri amorosi con Rinri. Michel Gondry di sicuro si divertirà a mescolare questi due filoni, utilizzando magari soluzioni visive diverse: una luce soffusa e colori tenui per Né di Eva né di Adamo, un nitidissimo e tagliente bianco e nero per Stupore e tremori.
Le musiche, ingrediente fondamentale in un film in cui più che la trama conta l’atmosfera, le affidiamo a un altro francese: Yann Tiersen, geniale musicista minimalista di Bonn. Dopo averci commosso e incantato con le musiche de Il favoloso mondo di Amélie, ci aspettiamo da lui un altro tema musicale capace di diventare un classico e di catturare il carattere lieve, insolito e raffinato di questa storia, magari attingendo alle evocative sonorità orientali.

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Del perché Neville Paciock è più importante di Harry Potter

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Neville

Photo credit: cheezburger.com

Neville Paciock.
Fra tutti i personaggi che popolano il mondo di J.K. Rowling, Neville è forse quello che ci stupisce maggiormente per la sua evoluzione: ci viene presentato mentre, impacciato e grassoccio, si dispera per il suo rospo, passiamo per una fase da gran figo e lo lasciamo professore di erbologia a Hogwarts.

La stessa profezia che fa di Harry il predestinato lo designa come possibile "sostituto" e, in fondo, il suo apporto si rivela fondamentale per sconfiggere Voldemort tanto da far sospettare che, in realtà, Neville ricopra un ruolo molto più importante di quello che può sembrare a una prima, superficiale lettura.

Vediamo insieme perché.

Tanto per cominciare, Neville è il Grifondoro perfetto, colui che non si butta nella mischia a testa bassa sempre e comunque, ma ha ben presente quali sono le cose e le persone per cui vale la pena di lottare mettendoci tutto il coraggio necessario e anche di più.

Ma non è tutto così semplice, come fanno notare quelli di TOR.COM. Il fatto è che la Rowling, nel costruire i tre protagonisti e i loro amici, ha operato un parallelismo con quella che era la generazione precedente (a volte il richiamo è più evidente, altre meno) e, in particolare, coi Malandrini.
In un quadro in cui Harry è James, Ron ricorda Sirius, Hermione è un Lupin senza piccoli problemi pelosi, Ginny è spesso la copia sputata della bella e coraggiosa Lily e Draco è la controfigura di un giovanissimo Piton, per Neville rimane un unico personaggio da interpretare: Peter Minus.

Lui. La canaglia, il traditore, il viscido servitore che ha venduto i suoi amici a chi li voleva morti. Non so voi, ma ogni volta che mi capita di rileggere Harry Potter e il prigioniero di Azkaban o di rivedere l'omonimo film, quando arriva la scena della Stamberga ho sempre quella sensazione di rabbia mista a speranza. Speranza che, per magia, cambi qualcosa e Sirius mandi al diavolo tutti facendo fuori il sorcio (tra parentesi, ciò ha contribuito non poco a rendere il personaggio di Sirius, così tragico e tormentato, il mio preferito. Questo e Gary Oldman, ma ora non stiamo a sottilizzare).

Torniamo a noi: Neville Paciock è Peter Minus (prego cliccare sul Drama Button).

E non c'è scusa che tenga: è impacciato, goffo, va un po' a rimorchio del trio protagonista che prende più volte le sue difese, non ha nessuna qualità particolare. Non è intelligente, non è sveglio, ma si trova spesso a conoscenza di segreti e pasticci vari riguardanti il buon Harry. Come Minus prima di lui, potrebbe certamente vendere i protagonisti al miglior offerente e viene messo anche nella posizione di farlo.
È un purosangue, Voldemort gli offre di diventare un Mangiamorte. Proprio come Peter.

Eppure.

Eppure, Neville… rifiuta: «Mi unirò a te quando l'inferno gelerà», dice al mago più temibile di tutti i tempi. E scusate se è poco.
A differenza di Minus, dunque, Paciock manda al diavolo Voi Sapete Chi, estrae la spada di Godric dal Cappello (cosa che solo un vero Grifondoro può fare) e taglia la testa a Nagini.

Ma allora… Neville Paciock non è Peter Minus (prego cliccare sull'Applause Button)!

Fermi tutti. Ancora una volta, non è così semplice: Neville Paciock è Peter Minus. Punto.
Ma è Peter Minus come avrebbe dovuto essere. Una versione migliorata, rivista e corretta.
Neville è l'esempio perfetto di come un singolo ingrediente aggiunto alla zuppa possa trasformarla in sbobba o, al contrario, renderla un piatto d'alta cucina.

Come se non bastasse, diventa il simbolo della speranza. Sì, sì, Harry Potter è il simbolo della speranza, lo so. Riformulo: Neville è la speranza che si concretizza.
Quando tutto sembra perduto, quando Harry non è a Hogwarts e ai maghi tocca cavarsela da soli contro un Voldemort sempre più feroce, Neville c'è. È nella Stanza delle Necessità a prendere le redini dell'E.S., a dare vita a una resistenza.
Neville non molla. Mai. I suoi amici vengono rapiti, torturati, uccisi, ma Neville rimane in una Hogwarts assediata dai Mangiamorte preparandola per il ritorno di Harry, Ron ed Hermione.

Se Neville si fosse arreso, è probabile che la Battaglia di Hogwarts non sarebbe finita nel modo che tutti conosciamo.

E il punto è proprio questo: a Harry serve Neville per vincere. A Harry serve Neville come a James e Lily serviva Peter, con la differenza che Neville non sceglie la via più semplice, ma decide consapevolmente di percorrere quella più difficile. Non nel momento in cui si fa più difficile, ma proprio perché è la più difficile.

Neville, forse ancor più di Harry, è la dimostrazione perfetta che Silente aveva ragione, che sono le scelte che facciamo e non le nostre capacità a dimostrare chi siamo veramente. Che si può fare della propria debolezza una spinta per essere migliori. Che non importa quanto si è popolari o carismatici. Che non siamo predestinati a commettere sempre gli stessi errori, nemmeno nel mondo di J.K. Rowling, in cui stare dalla parte del bene non significa per forza meritare un lieto fine.
Neville è la dimostrazione che tutti, anche i peggiori, possono cambiare.

Che anche Peter Minus, il traditore che viveva all'ombra dei suoi amici, la serpe travestita da leone, può diventare un eroe.

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Elisabetta Cametti | I Guardiani della Storia

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Photo credit: Vanity Fair

Quando ho preso in mano per la prima volta I Guardiani della storia ho pensato: “Ah ecco che finalmente anche un autore italiano osa uscire con una copertina da urlo”. Perché insomma, possibile che solo i vari Clive Cussler si possano permettere copertine con richiami misterici, fuoco, oscurità e atmosfere alla Voyager? Io direi: no alle copertine fantasiose e sì a quelle strabilianti in stile anglofono. Per quanto mi riguarda metterei fine alla parola sobrietà (alla Adelphi per intenderci)(spiace dirlo, ma tant'è). 

giunti i guardiani finzioni e1385563739733 Elisabetta Cametti | I Guardiani della StoriaE insomma la Giunti se ne esce con questo tomo di Elisabetta Cametti, che dice evidentemente no alla discrezione, e lo fa con una fascetta dove si leggeva una cosa del tipo “Katherine Sinclaire: nuova regina del thriller”. Secondo me l'hanno fatto apposta per mescolare le acque, perché si sa che certi thrilleroni con misteri esoterici, morti ammazzati e sparatorie te li aspetti da un inglese, mentre se uno scrittore italiano ci si cimenta viene visto subito con sospetto (dite la verità).

Comunque, passato il momento di dubbio sul chi fosse l'autrice (Cametti o Sinclaire? La prima) mi sono ritrovata di fronte un libro che ha tutti i crismi e carismi per inserirsi tra un Dan Brown e un Cussler, e non solo in termini alfabetici. O anche un buon Wilbur Smith (li vedo già tutti in fila in libreria)(no, diciamola tutta, sono già tutti in fila sul mio scaffale).

Katherine Sinclaire è la protagonista sboccata di questo thriller-action-e anche un pelo paranormal. Bionda manager bella rampante intelligente e creativa, in una casa editrice di successo stratosferico con base a Londra, incontra il bellone misterioso, duro dal cuore tenero, romantico e protettivo. E in un attimo hai alle spalle la city e stai scavando sull'Isola Bisentina a caccia di un rito etrusco, insieme alla coppia di belloni e uno zilath (sacerdote etrusco, il guardiano della storia, per l'appunto).

Metà cervello in ogni pagina è impegnato a saltare dalle righe a qualche immagine di CSI – Miami, poi di nuovo dalle parole al pensiero di Robert Langdon in Inferno (ho praticamente visto un baloon sopra la mia testa che diceva “Ma chissà se questi due si incontrassero dove andrebbero a finire?”)(una tappa dai Maya di sicuro)(dal sottoscala di qualche costruzione funebre dei Maya si andrebbe a finire nel sottoscala di una piramide)(e poi forse anche nel sottoscala dell'esercito di pietra cinese)(e via e via e via). E poi ancora dalle righe scritte a Indiana Jones. Insomma è una lettura abbastanza caleidoscopica a tratti centrifugata.

Ma ciò non toglie che in un modo o in un altro ti porta alla fine velocemente. E qui ti attende la svolta mistica, che punta dritta dritta a lanciarti verso il seguito. Perché chi l'ha detto che solo gli americani possono scrivere libroni su libroni con le storie di un unico personaggio (o una coppia) che saltano da un'avventura stratosferica a un'altra? Vedrete che fra un po' oltre a Robert Langdon, o Kay Scarpetta si parlerà di Katherine Sinclaire.

Elisabetta Cametti, I guardiani della storia, Giunti, 2013

*Ancora una volta c'è la combo Finzioni-20lines! Oltre alla recensione potete decidere di cimentarvi con L'ombra della svolta, l'incipit esclusivo di Elisabetta Cametti, oppure leggere l'intervista all'autrice fatta dai 20liners.

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Fisiognomica del Book Party

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Photocredit: Adrian Tomine

Anche quest'anno per Milano Book City gli editori indipendenti hanno organizzato il Book Party. Sospiri da tutte le scrivanie: per una volta, una festa dell'editoria che non sia riservata solo agli adetti ai lavori. Stessa percentuale di rischio di doversi coprire gli occhi davanti a editor ubriachi in pista, ma ottime chances di avere un muro di studenti della Statale a nascondere la spaventevole scena. Tra gli highlights, un reading illustrato con Emiliano Ponzi, il pugilato letterario tra Marco Ardemagni e Marco Rossari (rilassatevi, ha vinto Rossari), libri gratis da salvare dal macero e il djset più breve della storia. Chi avete incontrato? Quali facce e occhiali e posture pullulavano nel padiglione aeronavale del Museo della scienza? 

Lo struzzo einaudiano. Stringeva in mano il biglietto da riffa della parrocchia che gli assicurava il suo libro gratis. Buon samaritano delle case editrici indipendenti, si è fatto dare dagli amici più pigri i loro talloncini, sperando di accaparrarsi più di un volume destinato al macero. Gli orfanelli erano lì ad aspettarlo, ma i controllori cattivi lo hanno spogliato del bottino: un solo libro alla volta. Ha avuto fede, ha aspettato, e alla chiusura si è tuffato con la testa sui pallet del macero, insieme ad altri struzzi, sgomitando come una professoressa di sinistra davanti al buffet di un convegno sulla dislessia. Ha scovato un'autobiografia di Giulio Einaudi e tanti di quei fermaporta cartacei che Iperborea si ostina a chiamare libri. 
Segni di riconoscimento: occhiali, accenno di gobba e il bicchiere di vino preso col ticket.

Il boxeur hemingwayiano. Comprava libri per Natale al box di Ibs. Ascoltava i reading trasognato. Sedeva elettrizzato davanti al ring del pugilato letterario. Rideva compiaciuto ogni volta che veniva nominato Dan Brown. Ha portato i figli, a cui normalmente non avrebbe concesso di stare alzati fino a mezzanotte (unica altra eccezione: quando danno Pinocchio su Rai1). Al termine del book clash è uscito dalla sala con una sensazione di pienezza. Per tornare a casa ha preso l'ultimo metrò ed è stato accerchiato da studentesse ubriache che volevano rubargli i libri. La moglie, saggia, dormiva a casa già da un pezzo (e non gli aveva preparato nessun Ballantine's on the rocks).
Segni di riconoscimento: mento sfuggente, occhiali a giorno, programma di Book City tutto sottolineato in mano.

L'hipster Dance dance dance. Era venuto speranzoso. Perché quando gli ricapitava di ballare tra un vecchio galeone e la ricostruzione di un traghetto illuminato a festa? Allo scoccare della mezzanotte avrebbe voluto andare al Plastic. Mezz'ora dopo ci è andato davvero. Ancora prima di prendere l'amara decisione, aveva devoluto il suo talloncino per il libro e quello per l'alcolico free – ché i cocktail non erano inclusi nei 12 euro dell'ingresso – a uno struzzo einaudiano. Solo il suo amico avvocato è rimasto sotto le polene, nella speranza di rimorchiare una ragazza che non sbagliasse l'accento quando gli spiega “perché non ci possiamo vedere più”.
Segni di riconoscimento: occhiaie, ingiustificato buonumore, un cappotto che scalda per davvero.

Lo studente camusiano. Solo lui avrebbe potuto reggere il djset di mezzanotte. Solo lui e una sudamericana abituata a indossare minigonne inguinali da quando era seienne potevano ancheggiare a quel modo. Mentre gli editoriali andavano a lamentarsi col dj (“Siamo bianchi, lavoriamo nell'editoria, noi questa cosa non sappiamo ballarla”), lui pogava come a un rave. Ha dimenticato il suo libro gratuito su una sedia quando ha lasciato la festa abbracciato a una redattrice quarantenne a cui mormorava “Di italiano leggo solo Pavese”.
Segni di riconoscimento: brufoli, kefiah e pantaloni larghi, reminiscenza del liceo dei fratelli maggiori. 

Nota: Se vi siete riconosciuti in una di queste categorie, non voletemene. Io rientro in almeno due di queste, eppure mi disprezzo ancora esattamente allo stesso modo.

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Ancora più libri, ancora più liberi

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Piu-libri.-Piu-liberi

È online da poche ore il programma definitivo della nuova edizione di Più libri più liberi, la fiera nazionale della piccola e media editoria, giunta quest'anno al dodicesimo incontro. Dal 5 all'8 dicembre più di 50.000 lettori (queste sono le cifre previste dato il successo delle passate edizioni) affolleranno le sale del Palazzo dei Congressi dell'Eur di Roma, fra i libri e le novità di 374 espositori.

Più libri più liberi ha ormai accumulato alle spalle una sua piccola e bella storia: la fiera è nata nel 2002 grazie all'impegno dell'Associazione Italiana Editori, ma soprattutto all'impulso del Gruppo Piccoli editori di Varia, che si era posto come obiettivo la creazione di uno spazio a difesa delle voci minori (per volume forse, ma non per importanza) del mercato editoriale italiano, contro i grandi monopoli editoriali.

Le pile di libri di Bruno Vespa e Fabio Volo non sono infatti l'unico ostacolo (fisico) alla circolazione dei volumetti di poesia della Passigli – per dire – sulle vetrine delle grandi librerie. I problemi della piccola e media editoria sono molti e sono frustranti. Se nel regalare un libro ci troviamo quasi sempre ad avere per le mani un volume di Feltrinelli o di Mondadori e non, chessò, L'Impero delle Luci di Kim Young-Ha edito da Metropoli d'Asia, le ragioni di ciò vanno spesso oltre la qualità del libro in sé. È lungo tutta la catena di distribuzione che la piccola editoria viene penalizzata. La rincorsa alle novità e ai casi editoriali, lo scarso tempo di vita dei volumi sugli scaffali, la paura delle giacenze, gli sconti draconiani delle grandi librerie: tuttò ciò rema contro i piccoli numeri, e contro questa situazione si schiera Più libri più liberi.

L'edizione 2012 della fiera ha rimarcato la vitalità di quest'editoria periferica e centrale al tempo stesso: lo scorso dicembre circa 51.000 visitatori hanno visitato i 415 stand della fiera, portandosi a casa qualcosa come 80.000 titoli e affollando gli spazi dei 250 eventi culturali sparsi per la città di Roma. Il programma di quest'anno promette cose altrettanto buone, spaziando fra presentazioni, laboratori, visite guidate, tavole rotonde e seminari. I percorsi per ragazzi si alternano ad eventi per professionisti del settore, mentre gli spazi della fiera si estendono ben oltre le sale dell'Eur con il programma Più libri più luoghi, che inizia oggi e va a coinvolgere tutta la città di Roma con iniziative libresche ospitate da biblioteche, librerie, negozi e locali delle case editrici della capitale.

Per chi non potesse fare un salto a Roma nei weekend a venire, non c'è da disperarsi (sì, qui ci si dispera per i libri): l'intero evento verrà seguito dalla telecronaca di Rai Educational, L'Espresso e Radio3: davanti a tutto questo impegno, la piccola editoria all'improvviso non è più così piccola, speriamo che rimanga così.

 

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La Bugia di Natale

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La bugia di Natale

Dopo horror d’azione La Leggenda del Cacciatore di Vampiri – in cui, in un’America alternativa, ci veniva svelato il lato segreto del sedicesimo Presidente degli Stati – ritorna nelle librerie, digitali e non, Seth Grahame-Smith, l’autore che ha esordito con un piccolo capolavoro fanta-trash come Orgoglio e Pregiudizio e Zombie. In La bugia di Natale (Multiplayer Edizioni), Grahame riserva il consueto trattamento ai Tre Savi – qui tutt’altro che saggi – e soprattutto al protagonista Balthazar, trasformandolo nel famigerato “Fantasma di Antiochia”, acerrimo nemico dei romani. Balthasar è un ladro siriano ben noto al popolo come alle autorità dell’impero romano. Nessuno però è mai riuscito a catturarlo o a scoprire molto su di lui (da qui il soprannome di fantasma, appunto). La storia inizia con Balthazar intento a progettare l’ennesimo piano per rubare dalla casa di una benestante famiglia Giudea. Tuttavia viene catturato e condannato a morte, con molta soddisfazione da parte di Erode. È durante la fuga che Balthasar incontrerà una celebre famiglia in quel di Betlemme, con esiti molto poco cristiani.

Ecco, per dare un’idea, come avvengono le presentazioni:

Giuseppe? Maria? Il mio nome è Balthazar. Questo è Gaspar. . . questo è Melchyor. Non vogliamo farvi del male. . . stiamo solo cercando un posto per riposare. Ma, Giuseppe? se non metti giù quel forcone, te lo strappo dalle mani e ti ci infilzo di fronte a tua moglie e figlio. Hai capito?

la bugia di natale 2d ita e1385638648906 La Bugia di Natale

Grahame, grazie a dialoghi e ritmo tarantiniani, oltre che ad una buona dose di ambizione, riesce a riscrivere – senza prendersi però troppo sul serio – uno dei momenti storici più importanti, mettendo in scena un romanzo ricco di personaggi dubbi e controversi, oltre che piuttosto divertenti. Come nella miglior tradizione della satira non mancano le riflessioni su temi importanti – e il contesto qui facilità le cose – come la fede e l’esistenza di Dio, ma anche circa le virtù del perdono e la futilità della vendetta. 

In seguito al successo oltreoceano dal libro, verrà tratto un film prodotto dalla Warner Bros, cosa che di certo non sorprende dato lo stile ampiamente cinematografico e i moltissimi momenti d’azione presenti nel romanzo.

Anche la stampa estera non ha mancato di lodare questo terzo titolo dell’autore:

Grahame- Smith riesce a tessere un artifizio così convincente da rendere assolutamente credibile il nuovo finale di una storia che tutti abbiamo sentito centinaia e centinaia di volte… The Washington Post

La Bugia di Natale: come fondere Game of Thrones con il Vangelo Secondo Luca. Entertainment Weekly 

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Lettere dall’uomo delle formiche

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Nella scorsa puntata abbiamo parlato di noi stessi, o meglio, della specie homo sapiens sapiens, e di quanto molti dei nostri comportamenti non siano troppo lontani dagli atteggiamenti "primitivi" assunti dai nostri cugini più prossimi, ossia le scimmie antropomorfe come i bonobo e gli scimpanzé.

Ebbene, anche stavolta, mossi da un turbinio di entusiasmo per la teoria sulla selezione naturale di Charles Darwin, continuiamo a parlare di biologia e di evoluzione delle specie. Il "la" ci viene dato da un grandissimo, l'ottantaquattrenne professore di entomologia di Harvard, Edward Osborne "E.O." Wilson, padre della "sociobiologia".

Prima di addentrarci nei lavori e negli studi di Wilson, chiariamo il perché dell'entrata in scena di questo importante scienziato.

Divulgatore prolifico e due volte vincitore del premio Pulitzer per la Saggistica quale è, E.O. Wilson ha recentemente pubblicato la sua ultima opera, Lettere a un giovane scienziato. Indipendentemente dal vostro interesse per le scienze biologiche, questo libro è forse uno dei pochissimi esempi "ben riusciti" di quel che si intende per "passaggio di consegne". Arrivato sostanzialmente al termine della sua carriera professionale, Wilson dedica questo testo a chi come me (e scusate il personalismo) vorrebbe dedicare la sua vita allo studio e alla ricerca scientifica. A partire da suoi esempi autobiografici, il mirmecologo più famoso del mondo guida il lettore fra disegni, grafici, racconti e cartine al fine di instillargli un po' di quella passione che lo ha condotto per tanti anni alla scoperta delle leggi che regolano il comportamento sociale delle specie viventi.

Il professor Wilson, ideatore di controverse e discusse teorie, è senz'altro uno dei personaggi più interessanti della storia recente della biologia. La sua specialità riguarda da sempre lo studio degli insetti e, in particolare, delle formiche, come raccontò nel primo saggio che gli valse il Pulitzer: Formiche. Storia di un'esplorazione scientifica, scritto a quattro mani con il biologo tedesco Bert Hoelldobler.

Gli studi di Edward O. Wilson si fondano su di un assunto fondamentale, che è considerato oggi uno dei principali "corollari" alla teoria evoluzionista di Darwin. Osservando l'enorme complessità sociale di specie animali quali appunto le formiche, animali che, se presi individualmente, avrebbero ben poche possibilità di sopravvivere, Wilson dedusse che certi organismi, di fronte alla forza selettiva dell'ambiente, riuscivano a crescere e a moltiplicarsi non seguendo il paradigma del "gene egoista" di Richard Dawkins, secondo cui la selezione naturale spinge ad un innato egoismo alla sopravvivenza individuale, ma preferendo un sistema di organizzazione sociale, dove la cooperazione fra individui genere un "superorganismo" capace di superare le avversità del suo habitat.

Naturalmente, le convinzioni "sociobiologiche" di Wilson non si applicano soltanto alle popolazioni di insetti ma anche ad altri animali, uomo compreso. In La conquista sociale della Terra (2012), il professore ci fa riflettere su quanto la spinta evolutiva che ha reso la nostra specie capace di organizzarsi in una così intricata e complessa rete sia oggi stata "sorpassata" da un'idea di crescita smisurata, quasi impossibile da sostenere, almeno nel lungo periodo, per l'ambiente in cui viviamo.

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Vedremo un film sulla vita di Tolkien?

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Il racconto dedicato al mondo di Tolkien non ha mai fine, almeno al cinema. Archiviata la trilogia de Il Signore degli anelli, in corso d'opera Lo Hobbit (uscito al cinema con il primo film Un viaggio inaspettato ed è imminente l'uscita del secondo, La desolazione di Smaug), arriverà al cinema anche la vita di Tolkien. 

Il film s'intitolerà semplicemente Tolkien, almeno secondo il Los Angeles Times, ed è un progetto ancora in fase embrionale, potrebbe quindi passare molto tempo prima di vederlo sul grande schermo. Sul film sta lavorando la Fox Searchlight insieme al regista e sceneggiatore David Gleeson che a quanto pare è un grande fan di Tolkien. 

Il film biografico cercherà di mostrare come la vita dello scrittore abbia influenzato la sua opera, chissà se scopriremo qualche nuova curiosità sulla Terra di mezzo e sugli Hobbit. Si concentrerà in particolare sul tempo passato al Pembroke College di Oxford e sulla sua partecipazione alla prima guerra mondiale, dove ha visto molti suoi amici morire in battaglia. Entrambe le esperienze a quanto pare hanno influenzato la produzione narrativa di Tolkien.

Sono passati ormai più di dieci anni dall'uscita de La compagnia dell'anello e da allora quasi ogni anno per i fan c'è stata l'attesa di un nuovo film dedicato al mondo di Tolkien. Con un film sulla vita dello scrittore si potrebbe idealmente concludere una saga cinematografica e un pezzo di storia che accomuna letteratura e cinema. Non ci resta che aspettare per sapere se il progetto andrà in porto. 

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Tempo di neve

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Scusatemi ma ho le dita congelate e non riesco a scrivere. Se avete lo stesso problema allora è proprio Tempo di leggere. Il gelo e la neve sono alleati della lettura. Cercate una poltrona,  procuratevi una cioccolata calda, andate a prendere una coperta pelosa, oppure un San Bernardo, e… buona lettura!

 

Nord:

Freddo e gelo vi tengono stretti in una morsa. Se riuscite a liberare almeno le mani per afferrare un libro prendete: La bambina di neve (Einaudi Stile Libero Big, 2011). Si tratta del libro d'esordio di Eowyn Ivey. Sono pagine bianchissime e piene di poesia: un libro con la neve tra le pagine.

 

Centro

Le prossime ventiquattro ore sono caratterizzate da temperature polari e precipitazioni, anche nevose, soprattutto sul versante adriatico. Restate al caldo, magari sotto le copertine dei libri, oppure dentro le pagine di Orham Panuk, Neve (Einaudi Super ET). Il titolo annuncia una tormenta di neve ma il calore di una bella lettura è garantito.

 

Sud

Fra qualche ora le temperature cominceranno a salire di nuovo, per adesso il freddo taglia in due. Se sopravvivete, anche solo a metà, provate a cercare il romanzo di Ligabue, La neve se ne frega (Feltrinelli, 2008). Un libro dal titolo che suona come una sfida ma in realtà si tratta di un mondo dove tutto funziona.

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Re-Kiddo: Tolstoj è una lettura per bambini

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http://heykiddo.it/novita/in-libreria/quattro-libri-di-lettura-lev-tolstoj-isbn-edizioni/

Forse, spesso, ci dimentichiamo di come uno dei principi della letteratura russa abbia scritto uno dei capisaldi della letteratura per l'infanzia, I quattro libri di lettura – paragonabili solo alle imprese di signori come Andersen e i Grimm.

Isbn edizioni lo ha appena ripubblicato con illustrazioni fantastiche, noi lo abbiamo letto: sbirciate qui, su Hey Kiddo, c'è anche il booktrailer!

http://heykiddo.it/novita/in-libreria/quattro-libri-di-lettura-lev-tolstoj-isbn-edizioni/

 

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E anche tu, Valéry… avanti, un bel sorriso! Cheese!

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Paul Valéry

Bene ragazzi… così, sì… stringetevi un po'… bene… tu che sei più alto mettiti dietro… tu che sei più basso mettiti davanti… tu che sei ricciolone spostati che mi impalli la biondina… bene, perfetto… tutti un po' più a sinistra… tutti un po' più a destra… beneperfetto, guardate qui… e al mio tre dite cheese… ok, ci siamo… 

discorso sulla fotografia e1385546916118 E anche tu, Valéry... avanti, un bel sorriso! Cheese!

Uno, due, tre: che­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­e­se!

Discorso sulla fotografia, Paul Valéry 100 pg – 1 ora e 20 minuti

Se mi trovassi d'avanti a questa effige, ignoto a me stesso, ignaro dei miei lineamenti, in tante orrende pieghe d'angoscia e d'energia, leggerei i miei tormenti e mi riconoscerei.

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Indies First Day anche in Italia: perché no?

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(photocredit: S. Alexie, A. Filippetti, B. Obama)

 

Oggi negli Stati Uniti e in Canada si festeggia il Giorno del Ringraziamento. Nonostante l'immaginario comune, questo giorno non significa solo grandi pranzi e grandi tacchini ripieni. Al Thanksgiving, infatti, sono associati anche altri concetti: Black Friday, Cyber Monday, Small Business Saturday e, questo è quello che ci interessa, Indies First Day. Di che si tratta? Dell'altro mondo. Di librerie indipendenti dove c'è Obama che fa acquisti per la famiglia e autori di best seller che lavorano come commessi.

Per cominciare, è bene dire una cosa: in Italia non è vero che si accolgono le tradizioni estere (in particolare americane) senza alcun filtro critico. Nessun assoggettamento allo straniero. Gli italiani prendono quello che gli fa comodo, quando gli fa comodo. La grande permeabilità nei confronti dei termini anglo-sassoni, ad esempio, va di pari passo con la pigrizia peninsulare che fa prendere per buono qualsiasi vocabolo straniero in grado di evitare lo sforzo di cercare un equivalente italiano (che magari suonerebbe pure male). Poi, unendo l'utile al dilettevole, le parole inglesi hanno sempre il loro fascino e solo assaporarle ci fa sentire un po' hollywoodiani (o un po' Alberto Sordi). Grande accoglienza, ma non sudditanza quindi. Sempre perché in Italia prendiamo dagli Stati Uniti quello che più ci piace e ci conviene, va a finire che si crea qualche corto circuito. Tipo non avere il Giorno del ringraziamento ma avere il Black Friday e il Cyber Monday. Per chi non lo sapesse (ma dove vivete? it's ridiculous!), dato che il Thanksgiving cade ogni anno il quarto giovedì di novembre, dopo essersi riempiti la pancia gli americani trascorrono il venerdì successivo a fare un bel po' di acquisti, aprendo ufficialmente la stagione natalizia. Il lunedì, invece, è dedicato agli acquisti online. Ovviamente la pratica è incoraggiata e sostenuta da una luccicante politica di sconti formidabili che aziende come la Apple e Amazon hanno ben pensato di introdurre anche qui da noi.

Niente tacchino, ma un bell'acquisto al 20% o al 50% di sconto di certo non siamo così stupidi da rifiutarlo. Ovviamente, nonostante il tono da purista, ci tengo a chiarire che non c'è nulla di sbagliato in tutto questo. Tra le tante importazioni, però, perché non fare un pensierino anche allo Small Business Saturday e all'Indies First Day? Nel primo caso, si tratta di un'iniziativa avviata ormai tre anni fa in cui, anziché fare shopping selvaggio e riempire dozzine di carrelli virtuali, ci si propone di supportare le piccole attività locali. Poiché siamo su Finzioni, il primo pensiero va ai libri e alle librerie indipendenti (qui trovate, tra l'altro, l'ultimo reportage di Indie per cui in versione londinese). Lo scorso anno proprio in occasione dello Small Business Saturday avevo parlato di Obama che era andato insieme alle figlie in una piccola libreria di Arlington. Anche quest'anno, come da tradizione, il Presidente farà visita, durante il suo giro per negozietti, a una libreria indie. Come se non bastasse, però, negli Stati Uniti hanno deciso di calcare ancora di più la mano a livello nazionale con l'Indie First Day, in programma per sabato 30 novembre. L'iniziativa, di cui lo scrittore Sherman Alexie si è fatto grande portavoce, vedrà moltissimi autori offrirsi come volontari per lavorare come commessi in una piccola libreria locale. 

Sherman Alexie lo scorso settembre ha indirizzato una lettera a tutti i suoi colleghi, al grido di «È giunto il momento di essere i supereroi delle librerie indipendenti». Attenzione, non si tratta di una formale partecipazione di facciata. Infatti, se c'è una cosa che gli americani sanno fare in occasioni come questa è metterci la faccia e sporcarsi le mani. Se già immaginare uno scrittore famoso in una piccola libreria sembra roba da fantascienza, sapere che sarà lì non per firmare autografi ma per lavorare, vendere e consigliare libri dà una sensazione forte. E ora, ovviamente, deve scattare l'obbligato paragone. Nel Paese del tristemente celebre 54%, oltre a una tragica situazione quantitativa, abbiamo un'avvilente situazione qualitativa. Nell'editoria dei grandi gruppi, dei grandi distributori, dei grandi bestseller-spazzatura, non è solo l'assenza di lettori a farci guardare con occhi sognanti e sguardo da piccola fiammiferaia cose come lo Small Business Saturday o l'Indies First Day. Noi non solo non abbiamo lettori, non abbiamo verosimilmente neanche grandi scrittori capaci e credibili nel mettersi a fare i commessi in libreria per un giorno. Sceglietene uno qualsiasi pescando dalla classifica e provate a immaginarvelo nella minuscola libreria del vostro quartiere. Ecco, appunto. Noi però non abbiamo neanche una Aurélie Filippetti, che di italiano ha solo il cognome ereditato dal nonno emigrato in Lorena.

Se è così facile portare in Italia il Black Friday e il Cyber Monday per far vendere più iPhone e rimpinzare i carrelli su Amazon, non sarebbe altrettanto facile mettere in piedi una cosa come l'Indie First Day? Scrollandomi di dosso la polemica e la frustrazione, è una domanda chiara che pongo virtualmente non solo al ministro Massimo Bray, ma anche all'Associazione Italiana Librai, a Liberi Librai e anche alla piccola comunità di lettori italiani, che si estende da quelli che entrano in libreria solo per afferrare il primo titolo dalla pila che si trovano davanti fino ai fighetti che leggono i libri per twittare al mondo che gli altri non capiscono una mazza e che Masterpiece è il secondo evento più disastroso dopo la Shoah. Okay, non siamo gli Stati Uniti e nell'agenda dei problemi di questo Paese la crisi dell'editoria, della lettura e delle librerie indie non è proprio ai primissimi posti, come priorità. Ma da qualche parte si dovrà cominciare, prima o poi. E se vogliamo continuare a importare feste e abitudini straniere, prendiamoci anche l'Indies First Day. Male non può farci, non credete? 

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