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X-Files: vent’anni di ricerca della verità (pure nei libri)

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C'è un giorno preciso nella vita di ognuno in cui ci si rende conto di essere invecchiati. Per alcuni è il giorno del primo mutuo, per altri è il traguardo dei trenta, per altri ancora è il primo giorno di scuola del nipotino o la laurea del fratellino-non-più-fratellino. Per me è stato il 10 settembre 2013: è stato il giorno in cui la prima serie TV che ho seguito dall'inizio alla fine, quella che poi sarebbe diventata una delle mie fissazioni patologiche, ha compiuto vent'anni. Già.

Vent'anni fa Fox Mulder e Dana Scully partivano per il plausibile stato dell'Oregon, dando l'avvio un cult, a un vero e proprio simbolo degli anni '90: X-Files. Per i giovani, e per quelli che alla fissazione con le serie TV ci sono arrivati negli ultimi anni, per quelli che per un motivo o per l'altro non arrivano a capire la portata dell'evento, basti pensare che con X-Files si è formata gente come Vince Gilligan aka il signor Breaking Bad, Alex Gansa e Howard Gordon aka i signori Homeland e due degli sceneggiatori di American Horror Story, James Wong e Tim Minear.

Potrei sprecare fiumi di inchiostro, o in questo caso di pixel, per parlarvi di Mulder, di Scully, dei sette anni che abbiamo dovuto aspettare per un misero bacio, delle bestemmie contro Diana Fowley, del fare figuracce ai tabacchini perchè le Morley Rosse non esistono, dei pianti per la fine dei Lone Gunmen, del giocare a riconoscere qua e là tra le varie puntate gente come Jack Black, Shia LaBeouf e Xena, della speranza ancora viva che prima o poi si decidano a tirare fuori un terzo film, magari su William, magari di nuovo con l'Uomo che Fuma. Potrei. Ma mi trattengo.

Comunque, nel frattempo che Cielo, Italia 1, o qualsiasi altro canale televisivo si decida a rimandare tutte e nove le stagioni, vi lascio un po' di consigli di lettura, un po' di libri in cui trovare tracce di verità. Prima di tutto, vi consiglierei volentieri From Outer Space di Jose Chung, un libraccio di fantascienza di serie B (il cui titolo è ispirato al filmaccio di fantascienza di serie B Plan 9 From Outer Space di Ed Wood) a cui è dedicata un'intera puntata di X-Files. È un libraccio, e secondo Mulder è un modo per ridicolizzare quelli che cercano in modo serio la verità sull'esistenza di forme di vita aliene, però vi direi comunque di leggerlo per amor di cronaca. Si, ve lo consiglierei, se non fosse che From Outer Space e Jose Chung sono finti quanto le Morley Rosse.

Accettiamo tristemente la non esistenza di From Outer Space, e passiamo ai libri veri. Iniziamo da Carrie, di Stephen King: sparse qua e là in tutta la serie, ci sono un sacco di ragazzine che ricordano chiaramente Carrie, come quelle da cui ho preso il nom de plume Eve, dalla puntata omonima (1×11) , poi Michelle di "Reincarnazione" (1×22), le ragazzine di "Syzygy" (3×13) e tante altre. E poi, dettaglio non trascurabile, Stephen King ha scritto il soggetto della decima puntata della quinta stagione, "Chinga", in cui Scully è alle prese con una bambolina maledetta.
Il Re del Brivido, comunque, non è il solo scrittore che si è prestato a scrivere puntate di X-Files: lo ha fatto anche il Re del Cyberpunk. Il nome di William Gibson, infatti compare tra gli autori di ben due puntate: la prima è "Kill Switch", in cui i nostri agenti devono vedersela con un'AI impazzita, la seconda è First Person Shooter, in cui li vediamo alle prese con un videogioco un po' troppo reale. Soprattutto Kill Switch richiama chiaramente i temi e le atmosfere di uno dei capolavori di Gibson, che non possiamo esimerci dal consigliarvi: parliamo, naturalmente, di Neuromante. Ricordiamo, en passant, che Gibson ha scritto anche l'introduzione di un saggio del 1998 intitolato The Art of The X-Files.

Se Neuromante e Carrie non vi bastano, c'è un'intera collana X-Files, pubblicata dalla Mondadori, con ben nove storie cartacee di Mulder e Scully. E per il resto, qualcuno dovrebbe dire a Mulder che la verità è nel numero civico del suo appartamento: 42.

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Il risotto della legione

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Il risotto della legione

Dopo l’antipasto ecco il primo piatto della mia cena fantasy, un risotto allo zafferano con zucchine e fiori di zucca. Un piatto solido, nutriente, buono ma senza degli eccezionali voli di fantasia. Per questo l’abbinamento con La legione perduta di Harry Turtledove, mi è sembrato corretto. Il libro è considerato come il punto di partenza della saga di Videssos, e il semplice risotto che vi propongo è un buon inizio per chi si vuole cimentare con questo tipo di piatti.

Adesso dovrei sforzarmi di trovare delle analogie tra lo zafferano, i fiori di zucca ecc… e i personaggi della saga. Non lo farò, onestamente non mi viene in mente nulla. Perciò partiamo con la ricetta. Prendete una cipolla dolce, tagliatela in pezzi piccoli e fate a rondelle una zucchina (se siete da soli, altrimenti aumentate le dosi) se recuperate le zucchine del tipo piccolo è meglio, in quel caso ovviamente usatene almeno due per persona. Prendete i fiori di zucca (un paio a testa) tagliate il gambo, apriteli e tirate fuori il pistillo, poi tagliate a listarelle larghe circa mezzo centimetro i petali…

In maniera del tutto arbitraria vi racconto la trama di questo libro: a causa dello scontro tra due lame magiche tre coorti di legionari romani e un capo guerriero gallo, sono trasportati dal nostro mondo al pianeta di Videssos, trovandosi al centro d’intrighi e lotte di potere. Quando ho parlato della mancanza di eccezionali voli di fantasia mi riferivo al fatto che in questo romanzo, e negli altri della serie, la presenza della magia è piuttosto limitata, mentre Turtledove (laureato in storia) ci spiega e ci fa capire il funzionamento di una legione romana, senza per questo far torto alla trama o alla leggibilità.

Torniamo alle nostre cipolle e buttiamole in una teglia, dove avremo fatto scaldare dell’olio e.v.o, quando la cipolla vi comunicherà di essere pronta buttate anche le rondelle di zucchine e fategli perdere un po’ dell’acqua di vegetazione, sarà poi il turno del riso -Carnaroli- lanciatelo tra le verdure e fatelo tostare (girando bene in modo che non attacchi) fino a che non diventerà semitrasparente, a questo punto prendete mezzo bicchiere di vino e aggiungetelo al tutto, facendolo sfumare. Nel frattempo avrete preparato del brodo di verdure e…

Altra pausa casuale per parlare del libro, e per suggerirvene la lettura, La legione perduta è un romanzo interessante, pieno di battaglie e di passioni ma molto distante dal genere fantasy di ultima generazione, di cui R.R. Martin è un esempio, molto crudo e ai limiti del pulp. Quello di Turtledove è un romanzo storico con un pizzico di magia, una lettura adatta anche ai più giovani, insomma, proprio come il brodo di verdure, può andare bene per tutti.

Ora non dovrete far altro che mettere un paio di mestoli di brodo caldo nella padella, avendo cura di far arrivare il liquido a filo con il riso, e lasciare cuocere. Ogni volta che il riso comincerà ad asciugarsi rimettere altro brodo e così via fino alla fine della cottura, ricordandovi di mescolare spesso. Per un paio di persone dovrebbe essere più che sufficiente un litro di brodo.

Quando il riso sarà quasi cotto, aggiungete insieme all’ultimo mestolo di brodo anche una bustina di zafferano, mescolate e lasciate assorbire. Poi spegnete il fuoco e aggiungete il parmigiano reggiano e le listarelle di fiori di zucca, girate ancora e fare riposare per un paio di minuti.

Prima di mangiarlo pensate a Marcus, il protagonista del ciclo della legione, viene da Mediolanum e sicuramente avrebbe apprezzato un risotto giallo.

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Eraldo Affinati – Elogio del ripetente

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Qualche giorno fa, al Festivaletteratura di Mantova, ho incontrato Eraldo Affinati. Tra le altre belle cose che ha scritto, Mondadori ha appena pubblicato il suo Elogio del ripetente, un'accorata esperienza sul campo da insegnante di lettere e storia in un istituto professionale di Roma. Come si può facilmente intuire, abbiamo parlato di scuola, della scuola del 2013. E mi sono venute in mente un sacco di cose. Anzitutto l'impressione, molto forte, che ognuno catacresizzi la propria esperienza scolastica: io immagino la scuola di oggi esattamente com'era quando la frequentavo io, una scuola senza telefoni cellulari, senza stranieri o italiani di seconda generazione e con pochissimi ripetenti. So che non è così, so che usare categorie vecchie per capire le nuove è sbagliato e dannoso, ma non ci posso fare nulla. Ci ho passato troppo tempo per potermene sbarazzare così facilmente. E, per questo, una messa in discorso contemporanea come quella dell'Elogio del ripetente sembra davvero il primo passo imprescindibile per iniziare a parlare di scuola con un minimo di cognizione.

Ma c'è di più, molto di più. In un libro di qualche anno fa, L'accademia Pessoa, Errico Buonanno scriveva:

- Dunque, cos'hai intenzione di combinare, adesso?

- Leggere, è chiaro. Essere un epicureo della lettura!

- Leggere e poi?

- Nient'altro. Insomma, non elaborare, non prendere spunto, non affannarmi e non invidiare. Tornare a dare alla letteratura il proprio senso di inutilità.

thumb affinati elogio Eraldo Affinati   Elogio del ripetenteL'inutilità della letteratura è un tema molto affascinante e qui su Finzioni ne abbiamo parlato ripetutamente. A che cosa serve leggere? E soprattutto a chi serve leggere? E, come spesso capita, è proprio con i paradossi che si scardinano le convinzioni. Immaginate la situazione. Due classi. Una di un importante liceo classico, tipo il Parini di Milano o il Virgilio di Roma. L'altra, di un istituto professionale, con ragazzi stranieri che parlano italiano poco e male, pluriripetenti, alcuni con disturbi di apprendimento certificati, altri con disturbi di apprendimento non certificati. I primi sognano di andare all'università, iscriversi a giurisprudenza, medicina, scienze politiche. I secondi pensano solo a finire la scuola e andare a fare uno stage in officina. A chi serve di più leggere?

La risposta di Affinati, del suo libro e, personalmente, anche mia è: i ragazzi dell'istituto professionale. Sono loro che hanno davvero bisogno di Tolstoj, di Verga, di Wallace, di Eggers, di Calvino. Hanno bisogno di immaginare, di sognare, percorrere altri mondi narrativi, aprirsi alle possibilità infinite di infiniti giardini di sentieri che si biforcano. L'inutilità della letteratura diventa utile proprio dove sembra non esserlo. 

Ecco, questa è una cosa bellissima. Come è bello e importante ricordare che i manuali di letteratura sono NOIOSI, difficili, scritti da vecchi tromboni e commentati da tromboni preistorici. Il vero rigore, come spiegava benissimo Affinati al nostro incontro, sta nel leggere le fonti, nel prendere i libri, mangiarseli e parlarne. Costruire discorsi attorno ai libri, non imparare a memoria quelli, spesso troppo accademici per essere veri, degli altri. Così si fa cultura. E magari in officina a sporcarti le mani ci vai lo stesso ma per passare il tempo, come nell'indimenticabile Ovosodo di Virzì, racconti di Pip di Grandi Speranze e ti fai delle gran risate. 

Che, fino a prova contraria, a scuola ci si va per diventare cittadini, non lavoratori. 

Eraldo Affinati – Elogio del ripetente – Mondadori Libellule 2013 – 128 pagine – 10 euro

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Nick Hornby | Tutti mi danno del bastardo

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fonte: www.squeakybumtime.com

Per uno come me, che ha amato Febbre a 90° e, ancora di più, Alta Fedeltà, ogni nuova uscita di Nick Hornby è imperdibile e, qualunque sia la lunghezza, finisce troppo presto. Così, quando mi sono trovato davanti a questo racconto lungo ho avuto un piccolo moto di delusione. Mi sono sentito simile all’antagonista di questo romanzo: Elaine, fresca di divorzio con Charlie e inviperita, che decide di pubblicare sul suo giornale una rubrica intitolata BASTARDO! descrivendo fin nei più piccoli particolari tutti i difetti del suo ex marito. Tra questi c'è una certa tendenza all’eiaculazione precoce, che è anche una caratteristica di questo libro: fa divertire il lettore ma termina in maniera molto veloce. Bisogna però ammettere che i 4,99€ chiesti da Guanda per la versione e-book non sono molti e mantengono alto il valore di qualità/prezzo.

Tutti mi danno del bastardo e1378832324665 Nick Hornby | Tutti mi danno del bastardo L’idea alla base della trama è folgorante, e probabilmente non è un caso che sia venuta in mente a un inglese, cresciuto nel paese dove si sono riempite migliaia di pagine di giornale sulle relazioni della principessa Diana o sull’invidia del principe Carlo per i tampax di Camilla.

Ci siamo abituati a considerare normale l’invasione della privacy dei personaggi pubblici, ma cosa succederebbe se lo stesso trattamento fosse riservato a noi? Questa è la domanda che esce dal racconto di Nick Hornby. Vedere i difetti, le piccole manie ma anche i grandi errori che ognuno di noi compie, spiattellati su un giornale, come ci farebbe sentire? Sapere che tutte le persone che incrociamo durante la giornata, improvvisamente, ci conoscono meglio degli amici più intimi e dei famigliari, come cambierebbe il nostro mondo?

Con il solito senso dell’umorismo Nick Hornby ci fa riflettere sull’informazione nella nostra società, capovolgendo il punto di vista e trasformando gli spettatori in vittime per vedere sulla gente l’effetto che fa, tanto per citare Jannacci.

I manuali di scrittura insegnano che nella letteratura breve è di fondamentale importanza avere una trovata di forte impatto, e dopo È nata una star (Guanda, 2012) – dove una madre viene improvvisamente a sapere che suo figlio è il protagonista di film pornografici – ecco dunque che l’autore inglese ci regala un’altra piccola perla.

Non ci resta che rimanere in attesa di scoprire se anche da questa storia, come da quasi tutte le altre dello scrittore, sarà tratto un film.

Nick Hornby, Tutti mi danno del bastardo, Guanda, 2013

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Parlar male dei libri

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Bentornati a 'Dalla parte del lettore', la rubrica la cui aperiodicità sta iniziando a far innervosire un po' tutti. Per aumentare ancora di più l'aura di acredine che la circonda, oggi cianciamo di cose serie. Qui a Finzioni, soprattutto nei primi tempi quando c'era da definire bene la linea editoriale, siamo stati tutti perfettamente d'accordo nel decidere di non parlare mai male dei libri che leggiamo. Se il romanzo ci è piaciuto, lo raccontiamo. Se non ci è piaciuto, tacciamo. Perché non crediamo all'euristica della stroncatura, al prendere tempo prezioso di chi ci legge dicendogli che NON dovrebbe procurarsi questo o quel libro. E' molto meglio divertirsi insieme con le figate piuttosto che inacidirsi con le cagate che si trovano in giro.

Ma non tutti la pensano così. Anche la parola "critica" suggerisce qualcosa di negativo, il criticare quello che non ci piace. Ed è un esercizio che alcuni trovano corroborante, forse per sottendere sottilmente che sarebbero stati capaci di fare meglio, oppure per un mal riposto spirito di rivalsa. E, abbandonandoci nel solito novero di figure lettoriali di questa innervosente rubrica, proviamo a dire qualcosa di più.

IL ROMPICOGLIONI

Aaaah, il rompicoglioni è quasi rilassante nella sua prevedibilità. E' come guardare una bella fiction di canale 5, che al quinto minuto sai già come finisce e allora ti metti lì tranquillo ad ammirare tutti i tasselli che si mettono a posto da soli, proprio come pensavi tu. La cosa principale del rompicoglioni è la sua estrema coerenza nel rompere i coglioni: non gli va mai bene niente. Tutto quello che legge è: caruccio ma niente di che; ho letto di meglio; questo scrive proprio male; la trama si è già vista mille volte; poteva proprio risparmiarselo; non ha nessuna vocazione politica; stavo meglio se non lo leggevo. Bene, caro rompicoglioni, perché allora non scrivi tu un bel libro e ci insegni la letteratura a tutti? Come? Non te l'ha pubblicato nessuno? Bè, c'è sempre il self publishing.

IL PASSIVO AGGRESSIVO

Ecco, questo ruolo attanziale è un poco più spinoso. Perché almeno con il rompicoglioni lo sai, cosa aspettarti, e ti prepari. Ma il passivo aggressivo ti frega. Magari ci sono cento libri di cui tesse sperticatamente le lodi, alcuni che critica debolmente, di quelle critiche che tendono più al neutro, alla didascalia. E poi a un certo punto sbotta e massacra un certo romanzo, spesso un grande romanzo, chessò, qualcosa di Hemingway (H. scrive di merda!) o di Carver (sembra un bambino di dieci anni che non ha capito come funzionano i libri!). E spesso lo fa addirittura in pubblico, di modo che tutti lo sentano, e si dividano: chi con lui, chi contro di lui. Meglio molti adoratori e molti nemici rispetto a tante faccine sbadiglianti e annuenti. Però ecco, magari Carver me lo lasci stare. 

L'INARGOMENTATORE FRUSTRATO

Esempio paradigmatico del critico wannabe. Non gli piacciono i libri che legge e brucia dalla voglia di parlarne male. Solo che non ci riesce. Non sa argomentare le sue critiche. Non va oltre al tautologico. E' brutto perché non mi piace. Non mi piace perché è brutto. E sa che si prenderebbe un sacco di mazzate, soprattutto se prova a dirlo al frequentatore medio del bar Laso di Mantova durante il Festivaletteratura – il frequentatore medio del bar Laso di Mantova durante il Festivaletteratura è un editore, un direttore editoriale narrativa italiana o straniera, un agente, uno scrittore, un blogger, un traduttore, eccetera. E quindi si sta zitto, e si frustra.

E voi? Parlate male dei libri? E come? E quanto? 

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J.J. Abrams si è perso nella letteratura

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(photo credits: cineblend)

Qualunque patito di serie TV conosce J.J. Abrams, considerando che è tra i creatori e produttori di roba come Lost e Fringe, ma scommetto che nessuno lo associa alla letteratura, se non per associazioni di idee tipo quelle che partono da Lost e arrivano alla filosofia passando per John Locke o qualche rivisitazione della letteratura distopica collegata a Fringe. Si sbagliano tutti. E vi sbagliate anche se pensate che io abbia sbagliato sezione, pubblicando come News una pezzo da TV Sorrisi e Finzioni.

La realtà è che c'è proprio una notiziona, ed è che S., il misterioso progetto annunciato dal golden boy della TV americana in un trailer lanciato il mese scorso, non è una nuova serie TV, non è la nuova droga a beneficio dei teledipendenti e degli orfani di Lost o di Fringe, ma un libro a cui Abrams ha lavorato insieme allo scrittore Doug Dorst, autore di The Surf Guru e Alive in Necropolis, e che uscirà negli USA il 29 ottobre prossimo. A rivelare l'arcano è stato un video, che a questo punto possiamo a buon diritto definire un booktrailer, lanciato ieri: della trama si capisce poco, probabilmente si tratterà di qualcosa tra il noir e il soprannaturale. A concludere il booktrailer c'è la citazione di Platone «La morte non è la peggiore cosa che possa capitare a un uomo» seguita da un'anteprima di quella che dovrebbe essere la copertina del libro. Magari però poi scopriremo che in realtà Abrams l'ha scritto solo per prevenire l'invasione degli Osservatori nel futuro, chissà.

Comunque, dopo lo sceneggiatore Charlie Kaufman e l'attore James Franco, un altro grande nome dello spettacolo contemporaneo si dà alla letteratura. Mentre aspetto il santo giorno in cui uscirà il primo romanzo di Wes Anderson, mi accontenterò che arrivi il 29 ottobre, sperando che Abrams sia bravo a inventarsi soggetti per i libri quanto lo è con le serie TV.

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Kindle Paperwhite e il display e-Ink Carta

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Dato che la settimana scorsa è uscito il nuovo Kindle Paperwhite, quasi monopolizzando le news di editoria digitale sul web, forse è il caso di parlarne anche qui su Finzioni. Non ci siamo lasciati prendere dalla frenesia della novità, e adesso vediamo di spiegarvi per benino cos'avrà mai di straordinario 'sta nuova versione del Kindle Paperwhite, cos'è lo schermo e-Ink Carta e che differenza c'è con tutta la sfilza di schermi e-Ink che sono nel frattempo usciti.

In effetti, la nuova release del Kindle Paperwhite è decisamente più avanzata rispetto alla precedente, e non solo per la possibilità di abbinarvi Matchbook o per la sincronizzazione con Goodreads (che pure sono due motivazioni da non trascurare). Il nuovo Paperwhite utilizza infatti un display con tecnologia e-Ink Carta, che è sostanzialmente uno schermo e-Ink con un maggiore contrasto tra bianchi e neri, una maggiore risoluzione, una sensibilità touch più elevata.

Il processore del nuovo Paperwhite è più veloce del 25% (il che significa che l'eReader è più veloce) e i led della sovrailluminazione distribuisce la luce su tutta la superfice del display (così al buio vediamo bene tutta la pagina, e non solo la parte illuminata). Cos'altro? Beh questa release ha il parental control, ovvero un filtro impostabile dai genitori, per lasciar leggere i propri figli in tutta tranquillità (non che tramite eReader si possa accedere a chissà quali oscenità, ma lo strumento serve anche per verificare i progressi di lettura dei bambini); la possibilità di leggere le note a margine senza dover lasciare la pagina; un vocabolario intelligente, che crea una lista delle ultime parole cercate; l'accesso a Wikipedia. Scusate se è poco.

Come se non bastasse, lo schermo del nuovo Paperwhite supporta anche la tecnologia e-Ink Regal: anche se in molti non l'avranno nemmeno mai sentito nominare, un display e-Ink Regal non necessita di refresh per l'intera pagina, grazie a una tecnologia chiamata waveform (a onda) che consente anche un cambio pagina molto rapido. Per dirne una, il nuovo Kobo Aura HD usa un display e-Ink Regal. Ecco, dovessimo trovare il pelo nell'uovo, c'è sempre il solito limite di Kindle – anche se oramai facilmente bypassabile – del formato proprietario .Mobi per gli eBook, oltre al fatto che il caffè alla mattina ancora non ve lo prapara. Portiamo pazienza.

In definitiva, la tecnologia legata alla lettura digitale sta evolvendo talmente in fretta che è difficile starvi dietro ed esplorare appieno tutte le potenzialità di una release, dato che questa viene prontamente sostituita da qualcosa di ancora più figo. Ad ogni modo, volendo brevemente ricapitolare – così come ha diligentemente e puntualmente fatto Michael Kozlowski su The Good Reader quali display e-Ink sono attualmente in circolazione, cosa fanno e cosa sono e perchè:

  • e-Ink Pearl
    Tecnologia oramai superata, è il classico display a 16 toni di grigio utilizzato dal Kobo Touch, Glo, dalle precedenti versioni del Kindle Paperwhite e da molti altri eReader;
  • e-Ink Aurora
    resiste alle temperature più basse (ideato per i freezer!);
  • e-Ink Carta
    Maggiore contrasto, maggiore risoluzione, maggiore sensibilità touch;
  • e-Ink Regal
    Strettamente legato a Carta, non necessita di refresh per l'intera pagina, risultando in uno scorrere delle pagine più fluido;
  • e-Ink Mobius
    Con tecnologia TFT (Thin Fikm Transistor) ma non in vetro, dunque più leggero a con la stessa risoluzione di un LCD. Nessun eReader usa ancora questo display perché tutt'ora in fase di sperimentazione in quel del Sol Levante, alla Sony (n.b. non è compatibile con Carta e Regal)
  • e-Ink Spectra
    Display a colori con 3 pigmenti, già disponibile alla grande distribuzione;
  • Triton 2 e-Paper
    Display e-Ink a colori, purtroppo ancora nelle incubatrici della Ectaco e della Pocketbook.

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Leggere David Foster Wallace per ricordare David Foster Wallace

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Nel 2003 David Foster Wallace fu invitato dall’editore W. W. Norton & Company a scrivere un saggio su un tema matematico per la serie Great Discoveries e scelse di concentrarsi sull’infinito e sulla figura del matematico Cantor. Il suo biografo D. T. Max, nella bio uscita da poco per Einaudi, ci racconta che quando la casa editrice gli chiese di scrivere una nota introduttiva al libro per inserirla nel proprio catalogo Wallace si innervosì perché riteneva si trattasse di inutili chiacchiericci di marketing e rispose inviando un meta-rifiuto, alcune righe nelle quali si sforzò soprattutto di impedire che i disturbi mentali di Cantor potessero essere associati alla volontà del matematico di indagare argomenti come la ricorsività e i paradossi. 

Naturalmente per una quarta di copertina suona molto meglio parlare del Genio Reso Folle dal Tentativo di Comprendere l’∞. La verità però è che il lavoro e il contesto di Cantor sono tanto interessanti e belli che non vi è alcun bisogno di prometeizzare la vita di quel pover’uomo.

A cinque anni esatti dalla sua morte e con tutto quello che è stato detto e scritto su di lui, non possiamo leggere queste parole senza pensare che parlando di Cantor stesse parlando anche di se stesso.

Il 12 settembre del 2008 David Foster Wallace si suicidò nella sua casa di Claremont, California, dove viveva con la moglie Karen Green. L’appellativo di genio gli era stato già affibbiato in vita, creandogli un certo imbarazzo; nel 1997 ricevette in premio una cifra considerevole dalla MacArthur Foundation, la cosiddetta «Borsa di studio per Geni», il cui conferimento lo mise a disagio perché, come riporta Max nella sua biografia, «faceva leva sulla sua paura di essere solamente un intrattenitore di altissimo livello». La sua morte, per la precocità e le circostanze, ne ha accelerato la trasformazione in icona contemporanea creando una saturazione intorno alla sua figura, al punto che sembra che tutto quello che poteva essere detto su Wallace sia già stato detto. Personalmente non ho nulla contro la creazione di miti positivi, e nemmeno mi infastidisce la pubblicazione di scritti non troppo inediti di DFW, finché qualcuno avrà la voglia di leggerli o regalarli o anche solo di averli nella propria libreria. Quello che dispiace è che questa saturazione possa in certi casi diventare insofferenza; alcuni mesi fa ho sentito un paio di conoscenti affermare che non leggevano Wallace perché non ne potevano più di sentirne parlare e ricordo di aver pensato che quello era l’epilogo più triste che potesse esserci. Perché il miglior antidoto alla Wallace-mania è leggere Wallace, godendosi lo scrittore e abbassando per un attimo il volume sul mito.

Talento precoce, all’età di 23 anni si laureò a pieni voti all’Università di Amherst con due tesi: la prima in filosofia, la seconda divenne il suo primo romanzo, La scopa del sistema, che venne pubblicato da Viking Penguin nel 1987 ottenendo un discreto successo e trasformando il giovanissimo Wallace in una delle promesse della sua generazione. La pubblicazione gli valse anche un contratto per un successivo libro, la raccolta di racconti La ragazza dai capelli strani, e fece di lui uno scrittore a tempo pieno, attività che alternò a lungo a quella di insegnante di scrittura creativa. Nel 1996 vide la luce Infinite Jest, il romanzo che gli diede la consacrazione definitiva e lo trasformò nel ragazzo prodigio della letteratura contemporanea: un tomo di 1280 pagine di cui un centinaio solo di note, che sarebbero potute essere molte di più se DFW non avesse accettato parte dei tagli che gli impose il suo editor Michael Pietsch, preoccupato che quel mattone avrebbe potuto intimidire i potenziali lettori. Alcuni si spaventarono, ma molti altri no e il resto su Infinite Jest è storia.

Wallace non portò mai a termine il suo terzo romanzo, Il Re Pallido, che uscì postumo, ma la sua produzione letteraria non si esaurisce qui in quanto, oltre ad una serie di racconti, fu molto prolifico anche nella non fiction, nella quale, con la stesso stile pirotecnico e la curiosità che contraddistingue la sua fiction ha approcciato negli anni qualunque argomento, dal tennis alla matematica, dalla politica alla televisione.

Tutti quelli che hanno ancora voglia di leggerlo, e credo siano tanti, in questi giorni troveranno nelle librerie italiane due nuove proposte delle quali vi parleremo nel corso di questo DFW Day. È uscito martedì per Einaudi Di carne e di nulla, una raccolta di interventi di Wallace mai pubblicati in volume con l’aggiunta, rispetto alla versione USA, di due interviste inedite e una conversazione tra l'autore e il regista Gus Van Sant. Minimum fax ci propone invece un Un antidoto contro la solitudine, una raccolta di interviste e conversazioni che ne ripercorre l’intera carriera. 

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David Foster Wallace

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David Foster Wallace

Forse aveva ragione, Bret Easton Ellis, quando sosteneva che per i suoi lettori David Foster Wallace sarebbe divenuto una sorta di santo: un autore venerato senza riserve, fatto oggetto di un’attenzione morbosa è dir poco, circonfuso di un alone sentimentalistico in effetti un po’ patetico. A riprova, andrebbero ricordati gli insulti che dai lettori in questione Ellis si è guadagnato. O forse basterebbe riflettere su quanto avvenuto dopo la morte dell’autore: celebrazioni di anniversari, reading communities, blog a tema, fenomeni – spesso trucidi – di fandom, ambigue operazioni editoriali.

Difficile spiegare le ragioni di questa popolarità. Intanto perché si tratta di un fenomeno recente, cresciuto a dismisura solo negli ultimi anni. E poi perché, a rigore, l’opera di Wallace non è certo dotata di un appeal mainstream. A dispetto della vulgata, che vuole un autore le mille miglia lontano da sperimentazioni e tropi postmodernisti, Wallace era profondamente legato a quel modo d’intendere – e praticare – la letteratura. La scopa del sistema (Einaudi, 2008), per esempio, termina nel mezzo di una frase, un suo noto racconto pretende che il lettore abbia una certa familiarità con Lost in the Funhouse, di John Barth, mentre Infinite Jest (Einaudi, 2006) – è cosa nota – si conclude con un centinaio di pagine tra note ed errata. A descriverne i meccanismi narrativi, un critico si troverebbe in seria difficoltà. Riassumendone le trame, non ne guadagnerebbe alcunché. Né sono convinto che un lettore italiano riesca a decifrare tutti i riferimenti alla cultura USA di cui i suoi testi sono stipati. Eppure Wallace piace, ed è letto da moltitudini di lettori.

Ora, com’è ovvio, ciascuno avrà i suoi buoni motivi per amare un particolare romanzo, racconto o saggio dell’autore americano. Ma se dovessi indicare una caratteristica che in particolare lo rende tanto appetibile, punterei tutto sulla voce che nei suoi testi parla. O forse, meglio, sulle voci. Wallace era autore dotato di una straordinaria capacità mimetica, in grado di parodiare qualsiasi modo di parlare (e pensare): dallo slang di un’adolescente afroamericana al linguaggio “alto” di un accademico, dalle involuzioni mentali di un tossico alle paranoie di una persona depressa; e dai rovelli di un talentuoso, giovane tennista a quelli di un «impostore» in grado di spiegarci cosa succede «subito dopo che una persona muore». Al limite, in uno dei suoi ultimi racconti siamo introdotti ai pensieri di un gruppo di stagiste per le quali è «divertente» pranzare sempre allo stesso tavolo, e ordinare ogni lunedì lo stesso piatto «esageratamente buono» di insalata.

Altri scrittori eviterebbero di raccontarci cotanta banalità. Ma così facendo eviterebbero anche di rendere non dico più dignitoso, ma almeno un po’ più normale questo genere di pensieri, la realizzazione che una certa noia esistenziale è la tonalità dominanate delle nostre vite. Ecco, è probabile che al contrario, dandovi voce, Wallace arrivasse – arrivi – a intercettare anche qualcosa dei suoi lettori, del nostro flusso quotidiano di pensieri. Che somiglia assai più a quello di una trentenne stagista frustrata che non a quello – certo meno banale – di altri più blasonati personaggi di finzione.

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Tempo di leggere Wallace

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Oggi a Finzioni ricordiamo David Foster Wallace, scomparso esattamente cinque anni fa, e gli dedichiamo anche i nostri consueti meteo-consigli di lettura per il weekend

Nord

Sabato bel tempo, solo qualche annuvolamento in montagna e massime tra i 22 e i 27°C; domenica nuvoloso su tutto il territorio e deboli piogge sulle Alpi occidentali.  

Consiglio di lettura: il sole e la spiaggia sono ormai un lontano ricordo e sul vostro desktop è già scattato il conto alla rovescia per il prossimo ponte? Iniziate a ingannare l'attesa con Il re pallido (trad. Giovanna Granato), romanzo distopico, postumo e incompiuto incentrato sull'utilità della noia. Forse non si tratta esattamente di narrativa di evasione, ma è di gran lunga il libro più adatto per archiviare definitivamente l'abbronzatura. 

Centro

Sabato sereno e massime tra i 22 e i 27°C, ma le nuvole sono in arrivo; domenica coperto ovunque con piogge sparse. 

Consiglio di lettura: uh, le prime pioggerelline autunnali, la croce di tutte le persone tricologicamente irrisolte; se anche voi fate parte del club, lasciate perdere taglio e piega e buttatevi su La ragazza dai capelli strani (trad. Martina Testa), uno dei libri più accessibili di Wallace in cui troverete tutti i principali temi della sua opera (cultura pop, società capitalistica, nevrosi e solitudine). Fidatevi, anche il miglior parrucchiere di Parigi è d'accordo. 

Sud e isole

Sabato sole e massime tra i 24 e i 29°C; domenica pioggia su Sicilia e sereno o parzialmente nuvoloso sul resto del territorio. 

Consiglio di lettura: godetevi il bel tempo fin che c'è, cari i miei fortunelli, e se la situazione dovesse peggiorare consolatevi con Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), imperdibile raccolta di saggi scritti da Wallace (e tradotti da Vincenzo Ostuni, Christian Raimo e Martina Testa) nella prima metà degli anni Novanta. Vi assicuro che le cose divertenti che non farete più fino all'anno prossimo non vi mancheranno per niente. 

Buona lettura e buon fine settimana!

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David Foster Wallace | Di carne e di nulla

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La maggior parte delle cose che leggo su David Foster Wallace in giro per la rete iniziano col dire che scrivere di Wallace è rischioso e difficile e inutile. Temo che questo accada per due motivi principali: il primo è un modo dell’autore del pezzo di mettere le mani avanti qualora, nel suo scritto, dirà cose che non danno valore aggiunto, o sciocche, o superficiali; la seconda è una sorta di imbarazzo, un velo che tende a posarsi sulle cose, e sulle parole, quando si scrive di David Foster Wallace; come una sorta di strato di neve leggerissima, la prima dell’anno, che ricopre tutto e lascia, attorno a sé, la sensazione di un silenzio destinato a durare.
Per quanto mi riguarda anche io inizio questo pezzo con questa premessa e metto subito per iscritto che scelgo entrambe le motivazioni sopracitate.

Di carne e di nulla g David Foster Wallace | Di carne e di nullaCi sono scrittori che quando li leggi sembra che siano amici tuoi e ti sembra di riuscire ad entrare nella loro testa. Ecco, per quanto mi riguarda con David Foster Wallace non succede. C’è sempre qualcosa che sfugge, che non ci è accessibile, che non possiamo toccare, e, nel mio caso, questa è solo un’altra cosa che me lo fa ancora di più apprezzare. Mi sento, di fatto, un’allieva di terza elementare che guarda un insegnante con tutto lo stupore di cui è capace, pendendo dalle sue labbra.

Di carne e di nulla, uscito per Einaudi un paio di giorni fa, è una raccolta di saggi, inediti in Italia, che mette in luce – se ce ne fosse stato ancora bisogno – la capacità di Wallace di parlare di qualsiasi cosa.
Non scherzo. In questi scritti, pre e post Infinite Jest, David Foster Wallace affronta, in ordine sparso, diversi temi, con analisi precise, accurate, senza che mai tocchino toni accademici o l’auto-adulazione.
Avete presente la cura con cui una mamma prepara il pranzo a un figlio? Sembra che ogni gesto sia mirato, necessario, posato. Leggendo Di carne e di nulla ho avuto la stessa immagine. L’attività saggistica di Wallace e le sue capacità in questo campo non sono una novità, e nemmeno il fatto che questo genere l’abbia formato e reso quello che è tanto quanto quella narrativa. Eppure mi sono sorpresa del mio interesse verso Terminator 2 e gli effetti speciali, L’Aids, la matematica, un elenco di romanzi americani sottovalutati (e a me quasi tutti sconosciuti), la critica (positiva e negativa) di alcuni volumi, l’analisi di alcune parole, e mi sono sorpresa della capacità di Wallace di raccontarne, della sua conoscenza approfondita delle cose, della cura maniacale, della precisione e della chiarezza con le quali preparava il suo pranzo per me.

Potrei mettermi a citare dei brani, o ad approfondire alcuni temi, o parlare delle bellissime interviste in coda al volume, ma è difficile riuscire a parlare di questo libro così ricco e pieno di spunti, e, soprattutto, non voglio togliervi il piacere di scoprire tutte queste cose con i vostri occhi. Quello che invece vi dico è che più di una volta mi sono scoperta impaziente di chiamare una persona che sento vicina, una persona che ha tre nomi, per dirle “ma tu lo sapevi che..”, oppure “senti questa:” e leggere ad alta voce, con stupore, cose a cui mai sarei riuscita a pensare. Credo che quando un libro fa questo, in qualche modo abbia raggiunto il suo obiettivo.
Mi sono anche ritrovata a ridere, perché Wallace ha davvero una vena ironica e una capacità umoristica a mio avviso invidiabili. E più di una volta ho esclamato ad alta voce “Mio Dio!” perché certe pagine sono semplicemente intoccabili, ed esprimono alla perfezione opinioni e pensieri sulla letteratura e sulla lettura, e sull’importanza e sul tipo di intrattenimento che la scrittura offre allo scrittore:

E, se ritrovi la strada del divertimento, scopri che il doppio vincolo mostruosamente sfortunato del tardo periodo vanesio si rivela in realtà una bella fortuna. Perché il divertimento al quale sei riuscito a tornare è stato trasfigurato dalla sgradevolezza della vanità e della paura, una sgradevolezza che sei talmente ansioso di evitare che quello che riscopri è un divertimento di tipo molto piú pieno e generoso. Ha qualcosa a che fare con il Lavoro come Gioco. O con la scoperta che il divertimento disciplinato è molto piú divertente del divertimento impulsivo o edonistico. O col capire che non tutti i paradossi devono essere paralizzanti. Sotto il nuovo governo del divertimento, scrivere narrativa diventa un modo per penetrare a fondo dentro te stesso e illuminare proprio le cose che non vuoi vedere o non lasci vedere a nessuno, cose che di solito si rivelano (paradossalmente) proprio quelle che tutti gli scrittori e i lettori condividono e sentono, quelle a cui reagiscono. La narrativa diventa uno strano modo di tollerare te stesso e dire la verità, anziché essere un modo per sfuggire a te stesso o proporti in una maniera che secondo te sarà massimamente apprezzabile.

La fotografia a cui penso, quando penso a David Foster Wallace, è tra le sue più famose.
È seduto su una poltrona, ha la sua solita bandana in testa, addosso una maglietta bianca con un rettangolo azzurro e le mani sui braccioli. Accanto a lui c’è una lampada, di quelle che oggi definirebbero “vintage”, con la lampadina a vista. David è tra quelli che non guardano il dito, ma quello che il dito indica; e allo stesso modo, in quella foto, non guarda la lampada, ma qualcosa sopra di lei, qualcosa che dalla lampada è illuminato, e che noi non riusciamo a vedere perché è fuori dal nostro raggio di osservazione.

Ecco, è così che vedo David Foster Wallace, anche alla fine della lettura de Di carne e di nulla: un uomo che guarda più in là e che vede qualcosa che noi non vediamo ancora, che vedremo sicuramente dopo di lui, e che lui ci vuole raccontare.

 

David Foster Wallace, Di carne e di nulla, Einaudi, 2013. (Traduzione di Giovanna Granato)

 

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(Ri)leggete questo

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Una civiltà letteraria non è fatta di letture, è fatta di riletture; forse semplicemente una civiltà. Ci sono generazioni che hanno conseguito una dignità duratura leggendo e rileggendo un solo libro, la Bibbia. Non leggevano altro, ma tanto bastava a farli individui colti, talora artisti, letterati, scrittori.
(Giorgio Manganelli)

 

A parlare di Infinite Jest, si rischia ormai di tutto. Di solito: o sei banale, perché dici qualcosa che hanno già detto e ridetto gli altri, oppure sei un poser, la cui vera intenzione è autoincensarsi per l’impresa appena compiuta (tanti altri evitano tutti questi problemi: fanno la foto al libro per poi condividerla – l’osservatore in qualche modo inferirà che è stato effettivamente letto).

E io mi sono sempre rifiutato di scrivere qualcosa su questo libro perché 1) non mi ritengo all’altezza dell’ermeneutica di un mattone di 1.179 pagine scritte da uno che non è proprio l’uomo della strada, 2) non voglio essere banale o presuntuoso e 3) non voglio essere un poser (sembra che sto vantandomi di non aver mai scritto nulla su Wallace, ma qui dovete fare un atto di fede, come ne fate tanti quando leggete, e vi prego di sospendere la vostra incredulità).

In redazione, però, abbiamo deciso di organizzare una giornata dedicata a Wallace in occasione del quinto anniversario della morte, e una cosa che potevo dire, forse l’unica, riguarda la mia esperienza di lettore e rilettore. Tutte le mie reazioni, infatti, sono sempre rimaste a livello sinaptico, non ho mai approfondito – per la paura di impazzire, forse. Se l’ho fatto è solo grazie ai lavori degli altri lettori, dei quali – e qui in Italia siamo fortunati, perché oltre ad essere stati i primi a importare Wallace vantiamo una comunità di appassionati enorme – ammiro l’acribia. Ma qui mi sono fermato. Una cosa che invece ho fatto, e ho sentito il bisogno di fare, senza andare ad appesantire inutilmente tutto il paratesto che già soffoca il libro e crea troppe aspettative, troppi malintesi e troppi spoiler, è stata rileggere, a distanza di un anno, il mattone. Da qualche parte sentivo che un solo incontro con la sensibilità letteraria di Wallace espressa lì dentro non era sufficiente. Sentivo che era durato troppo poco, un lungo attimo di riconoscimento, di identificazione e scaturigine di tanti dubbi che non mi davano tregua, e che forse sono condannato a non sciogliere mai. Prima di Infinite Jest non avevo mai riletto un libro: è stato un momento epifanico nella mia carriera di lettore.

L’ipertrofia del mercato editoriale, l’ubiquità degli stimoli sensoriali, la F.O.M.O., che è la paura di mancare a un evento e anche una delle sigle registrate nel nuovo dizionario di Oxford, lo scaricamento istantaneo di libri, cinquemila titoli nello stesso dispositivo, Instapaper e il tasto per leggere dopo, i link salvati tra i preferiti che non aprirò mai e libri in wishlist che non leggerò mai (ma che forse comprerò), tutto questo, insomma, collide con la nostra limitatezza di esseri umani, in senso fisico, psichico e temporale, e il pericolo paventato da Infinite Jest, quello dell’intrattenimento compulsivo, è reale. Si legge/guarda/ascolta senza interruzioni, perché il piacere e le gratificazioni che si ricavano sono immediati.

Quest’ansia di fare e accumulare la percepisco bene. Per starne alla larga ci vuole un esercizio di disciplina quasi zen. Provo a stare calmo, a non dare retta alla bacheca di Facebook e ad uscire dall’infinite scrolling di Tumblr (che, detto tra noi, è un ottimo surrogato della cartuccia del romanzo). Cerco di prendere tempo, perdere tempo e leggere piano; Wittgenstein diceva che usava un sacco di punteggiatura perché questa rallenta il ritmo della lettura, e leggere piano è l’unico modo per leggere.

Se queste righe hanno un contenuto troppo normativo, o forse addirittura dogmatico, è perché si tratta dell’unica regola che rispetto e che non so infrangere (anzi, la infrango a caro prezzo) quando si parla di libri – io che mi voglio credere un anarchico. Se non avessi letto Infinite Jest non so se avrei capito l’importanza dell’intrattenimento e degli infiniti effetti collaterali che ne derivano.

Ho capito che la rilettura è l’attività più nobile del lettore perché, oltre ad aprire il dialogo con la coscienza di uno scrittore, ne apre un altro con se stessi. È una triangolazione che arricchisce a un livello di profondità superiore, perché il dialogo con il sé del passato aiuta a collocarsi nel tempo, a tracciare la nostra linea evolutiva e a capire meglio lo spazio occupato all’istante. Mi ricordo che la prima volta che lessi il libro, come quasi tutti, rimasi spiazzato. Non avevo tanta voglia di andare avanti, non capivo nulla, facevo fatica a tenere la palpebra alzata e le pupille mi schizzavano di qua e di là. Ho voluto mettermi alla prova, abbrustolendo tutti i neuroni che avevo a disposizione. Ero un lettore immaturo e ambizioso, che aveva alle spalle poche letture importanti. Da qui, la prima epifania: ci sono libri fatti apposta per essere letti in certi momenti; seconda epifania: c’è un rapporto, che assomiglia molto a una formula matematica, tra la qualità di un libro e quella di un lettore. Se un libro non ci piace, non è sempre colpa sua. Bisogna essere pronti e avere i requisiti di sistema giusti. Infinite Jest è tra quelli che non ho mai consigliato a nessuno perché la prima volta non ci credo che piace davvero a tutti, e non voglio perdere la fiducia di chi mi chiede aiuto per orientarsi. Tanti, forse io per primo, sono vittime di una dissonanza cognitiva e un po’ se ne convincono (che gli piace). Ho capito, però, che della Burla infinita bisogna sentire quella che misticamente è “la chiamata”. Perché a certi libri non possiamo rimanere indifferenti e la nostra identità di lettori è definita da un rapporto dialettico inesorabile, forse fatale, con questi.

È stato a distanza di un anno che l’ho riletto. Ho lasciato tutto a decantare nel mio subconscio, ero certo di non aver capito tutto, anzi, di aver capito molto poco, e nel frattempo ho affrontato altre letture impegnative che mi hanno preparato. Dalla rilettura ne sono uscito completamente diverso, esausto ma allo stesso tempo arricchito in un senso molto spirituale, e so che ancora non ho spremuto tutta la polpa, che forse non si potrà mai spremere del tutto, perché il libro sembra un oggetto immobile, ma è magico e cambia insieme a chi lo percepisce. Sono molto curioso di rileggerlo una terza volta, magari a distanza di tanti anni, perché adesso mi sento ancora molto simile al lettore che ero all’epoca della seconda volta. Ci sono libri che meritano di essere riletti, e quelli, come diceva Calvino, se hanno tante altre cose da dire, chiamiamoli pure classici. Ma a forza di leggere sempre cose diverse mi sono fatto l’idea che rimaniamo solo ospiti dei libri, per giunta alla lontana. Io invece, dentro a un libro, voglio camminare scalzo, aprire tutti i cassetti (questo, a scanso di equivoci, non è più Calvino, sono io che invento analogie). La seconda volta non sei un ospite, sei come un amico che viene a casa tua ma fa come se fosse a casa sua: non suona il campanello e va in bagno lasciando la porta aperta. Con una casa labirintica come quella di Wallace, poi, come fai a carpire tutto al primo passaggio, senza perderti, soprattutto durante le prime 200 pagine, che secondo i più sono lo scoglio da superare e se sei appunto al primo giro non hanno tanto senso (e i più mollano)? Lo stesso Wallace, tra l’altro, ha ammesso di chiedere uno sforzo ai suoi lettori, perché la verità costa, è una cosa che si ottiene in cambio di qualcos’altro, e questa transazione non avviene mai nella cultura del prêt-à-porter e della tv, cara ossessione dello scrittore. Viviamo in un’epoca in cui la cultura si consuma (molti libri bisogna solo masticare e sputarli, come una gomma).

Per rileggerlo ci ho messo un mese e mezzo, quanto avevo impiegato la prima volta. In quel periodo avrei potuto leggere qualcos’altro; mi consolo dicendomi che in fondo ogni scelta è anche una rinuncia. In un mese e mezzo, a quel ritmo, potrei leggere 5 libri da 200 pagine. Se sommo lettura+rilettura ottengo 2.562 pagine, che avrei potuto distribuire in 11 libri da 232,91 pagine o 17,08 libri da 150 pagine, e così aumentare il numero di volumi sullo scaffale di casa. I libri che ho letto saranno sempre meno di quelli che voglio leggere, e pazienza. Sono un lettore edonistico, il principio che mi guida è quello del piacere e non lascio che l’importanza oggi attribuita all’accumulazione produca interferenze. Citando a metà il Wallace del Re Pallido, vi dico: rileggete questo.

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David Foster Wallace | Un antidoto contro la solitudine

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Se fai parte della gente comune e non hai l'autostima di Napoleone, la sensazione principale che un libro di DFW innesca è l'inadeguatezza. I libri su (e non di) DFW riescono in qualche modo a duplicare questa sensazione. Questo però lo sapete già se avete letto qualcosa di suo, e una raccolta di interviste come Un antidoto contro la solitudine non fa altro che aumentare la cosa.

wallace conversazioni e1378570659440 David Foster Wallace | Un antidoto contro la solitudineTra i tanti libri su DFW, minimum fax ha pubblicato non troppo tempo fa Come diventarse se stessi (che avevamo recensito qui), la sbobinatura di una lunghissima intervista fatta da Lipsky. Il titolo italiano è orribile e associato alla copertina fa un po' libretto adolescenziale, ma merita davvero di essere letto. DFW è tra gli autori che hanno potuto sperimentare la sfortuna di diventare più famosi delle loro stesse opere, e libri come Un antidoto e Come diventare se stessi nutrono senza dubbio la nostra vena voyeurista, ma mostrano un lato di Wallace che dalle sue opere non può trasparire. A differenza di tanti grandi, la persona di DFW è per alcuni importante quanto Infinite Jest. Così, come si scopre che nel 1998 aveva detto addio alle note o all'umorismo che caratterizza Una cosa divertente che non farò mai più, allo stesso modo si legge delle sue reazioni allo scrivere verità senza danneggiare gli altri, di come la sua ingenuità gli ha remato contro. In un'intervista sostiene che la letteratura alta mostra cosa significa essere un essere umano: ecco, una volta sfamato il voyeurismo, le interviste raccolte in Un antidoto rivelano cosa significa essere un DFW.

Quando studiavo antropologia lessi che gli studi sugli scimpanzé, presi nel loro insieme, mostravano un fenomeno curioso. Nell'arco di venti o trent'anni è lecito ipotizzare che lo scimpanzé (come specie, come gruppo di individui) non sia cambiato in maniera radicale, eppure chi li osservava era capace di vedere negli anni '60 una società governata dalla pace, ma governata dalla forza bruta negli anni '80. A leggere le interviste si nota qualcosa di simile: c'è un David Foster Wallace impacciato al quale gli intervistatori riservano il trattamento tipo dell'esordiente tanto promettente quanto probabile meteora; poi c'è il DFW di Infinite Jest, ossia quello colpevole dell'aver monopolizzato l'attenzione mediatica; poi ce n'è uno molto simile al primo, ma più stanco e cupo che attira l'attenzione non tanto per ciò che scrive, ma per la grande mente che gli altri hanno definito; e infine l'ultimo raccontato da Lipsky in "Gli anni perduti e gli ultimi giorni di David Foster Wallace", un DFW diametralmente opposto a quello conosciuto nella Cosa divertente che non farò mai più. E la cosa più strana è che alla fine, unendo i lati della personalità che gli intervistatori volevano evidenziare, non sembrano più persone diverse, ma si comprende l'ingenuità del primo nella genialità dell'ultimo, la cupezza di quello del 12 settembre 2008 nella comicità dei suoi paragrafi più divertenti.

 

Un antidoto contro la solitudine, David Foster Wallace, minimum fax 2013

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“Non ti conosco bene, e non so come sono fatti i tuoi amici”

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Photocredit: Forsyth Harmon

Una mattina ci siamo svegliati e David Foster Wallace non c'era più. A seconda dell'età, eravamo all'università o al lavoro (qualcuno era in casa editrice, a gestire il marketing della postumità), a seconda del caso avevamo letto tutto il possibile o non sapevamo neanche chi fosse. C'è chi già aveva una fissa per lui, e c'è chi l'ha scoperto in quei giorni in cui era impensabile confessare di non conoscerlo e si correva in libreria con la coda tra le gambe. Qualche anno dopo, qualche casa editrice dopo, qualche orecchia alle pagine dopo, si possono dire parecchie cose (in più) di David Foster Wallace: che era bravissimo ma che il successo post-mortem non ha giovato alla sua opera, che apparteneva a un ambiente letterario – quello di McSweeney's – di geni snob eppure amati, che la sua bandana era un po' tamarra, o chiederci come abbia fatto il suo amico Franzen, compagno di antidepressivi, a sopravvivergli, in questo naufragio letterario generazionale.

A 5 anni dalla morte, cosa dicono quelli che coi libri (a volte anche con i suoi libri) ci lavorano? Puntata speciale dell'Anti Questionario di Proust tutta a tema DFW, con alcuni dei giovani editoriali che abbiamo già conosciuto in questa rubrica: Francesca Crescentini, Giulia Taddeo, Giulio Passerini, Mariavittoria Puccetti, Alessandra Maffiolini, Laura Atie.

 

FRANCESCA CRESCENTINI, 27 ANNI, EINAUDI

Quando hai letto il primo libro di DFW?

Tardi. Tardi. Nel 2009, appena ho cominciato a fare questo lavoro. La mia collega, che al tempo aveva l’ingrato compito di farmi da tutor (“Ecco, e adesso, dopo le nove macro che abbiamo lanciato sui tre fogli, prendiamo la colonna AJ del piano di produzione e facciamo un cerca verticale per capire se sul report di quest’anno…” – “… che cos’è un cerca verticale?”), ecco, la mia collega mi cacciò in mano La scopa del sistema e mi raccontò un mucchio di storie super entusiasmanti. Io mi vergognavo come un cane perché non sapevo niente di niente, vivevo nel terrore di cercare verticalmente nei posti sbagliati e andavo in ufficio sempre con gli stessi quattro vestiti perché in America ero pure ingrassata e l'altra roba non mi entrava più, e insomma, quello di mettermi in mano La scopa del sistema è stato un atto di umana gentilezza e autentica meraviglia che mi ha fatto tornare in mente perché mi trovavo lì a provare a lavorare nei libri e mi ha anche consolata un sacco. La mia collega mi ha praticamente presentato LaVache, non sarò mai in grado di sdebitarmi.

Lo chiami Devidfosteruollace, Wallace, o DFW come gli amici?

Non lo nomino, sarebbe sacrilego. 

Meglio Infinite Jest, La ragazza con i capelli strani o Una cosa divertente che non farò mai più?

Infinite Jest lo sto leggendo adesso. Mi mancano un trecento pagine e sono così contenta che ogni tanto fotografo il libro, ma così, per ricordo, come se non fosse un libro ma una località di villeggiatura. C'è uno su Twitter che mi ha pure detto "Ah, le foto a Infinite Jest, ma quanto vi sentite intelligenti a leggere Wallace?". Personalmente, pochissimo.  
Se devo scegliere tra i due che ho finito, però, il mio cuore è tutto per Una cosa divertente che non farò mai più. L'enigma della cameriera Petra mi accompagnerà per tutta la vita. 

Hai una citazione preferita di DFW?

È un pezzetto di All that: "I was never the sort of child who believed in “monsters under the bed” or vampires, or who needed a night-light in his bedroom; on the contrary, my father (who clearly “enjoyed” me and my eccentricities) once laughingly told my mother that he thought I might suffer from a type of benign psychosis called “antiparanoia,” in which I seemed to believe that I was the object of an intricate universal conspiracy to make me so happy I could hardly stand it." 

DFW è un sopravvalutato o è meglio di Zadie Smith?

Mi stufano da matti queste storie. Poi passa uno e ti dice "Ecco, adesso che è morto tutti qua siete, volevo vedervi quando era vivo!". E una volta qui era tutta campagna, signora mia. Ma mi dica, cos'è che sta leggendo? Zadie Smith? 

Essere stato così amico di Jonathan Franzen gli avrà rovinato l’umore?

Mettiamola così. Ho serie difficoltà a visualizzare una persona che si siede lì e scrive, toh, Infinite Jest. Ma anche solo i fogli, ci sarebbero fogli stampati e scarabocchiati da tutte le parti, mucchi di carta con un tizio seduto in mezzo, uno con una maglietta un po' abbondante e gli occhiali che si inventa una confraternita di spietati e cigolanti assassini canadesi sulla sedia a rotelle, le regole di Eschaton e la filmografia completa di papà Incandenza. Ho davvero molti meno problemi, invece, a immaginare uno che si mette seduto e scrive Le correzioni. E secondo me lo sa anche Franzen, tra una cinciallegra e l'altra.

 

GIULIA TADDEO, 30 ANNI, EDIZIONI PIEMME

Quando hai letto il primo libro di DFW?

Ho letto Girl with Curious Hair in inglese dopo averlo comprato in una libreria a New York attratta dal titolo. Era l'estate tra la quarta e la quinta superiore.

Lo chiami Devidfosteruollace, Wallace, o DFW come gli amici?

Lo chiamo Foster Wallace… il fatto che non sia compreso nell'elenco mi fa pensare di aver toppato di brutto per anni. In alternativa lo chiamo DFW.

Meglio Infinite JestLa ragazza con i capelli strani Una cosa divertente che non farò mai più?

Per avvicinarsi a lui meglio partire secondo me con UCDCNFMP… francamente è il libro di DFW che ho regalato di più, insieme a La scopa del sistema. Ma se si è volitivi come Alfieri, Edoardo Nesi o Tegamini la soddisfazione di leggere tutto Infinite Jest senza aggrovigliarsi la mente tra ciò che è scritto nel romanzo e le note è di una goduria rara. Io però ho cominciato con La ragazza… insomma, non so, secondo me per ognuno di noi c'è il libro di DFW che fa al caso suo perché lui ha saputo parlare con uno stile ineguagliabile di tutto. O quasi.

Hai una citazione preferita di DFW?

La prima che mi viene a mente è questa da La scopa del sistema, credo che dica molto di lui. Che dica molto di me: "Be', credo che non sia esattamente che la vita va raccontata anziché vissuta; è piuttosto che la vita è il suo racconto, e che in me non c'è niente che non sia o raccontato o raccontabile. Ma se è davvero così, allora che differenza c'è, perché vivere?".

DFW è un sopravvalutato o è meglio di Zadie Smith?

Domanda difficile, non saprei dirlo. Posso dire che lui è più bravo e lei è più bella?

Essere stato così amico di Jonathan Franzen gli avrà rovinato l’umore?

Sarebbe il colmo. Tutti noi abbiamo degli amici scomodi ma Franzen non può essere così letale, dai. 

 

GIULIO PASSERINI, 25 ANNI, EDIZIONI E/O

Quando hai letto il primo libro di DFW? 

Circa quattro anni fa, era La scopa del sistema, era estate ovviamente. È sempre estate quando si legge DFW. O almeno, spesso lo è. 

Lo chiami Devidfosteruollace, Wallace, o DFW come gli amici? 

Lo chiamo per esteso, che sono sei sillabe belle piene e goderecce. Lo scrivo DFW. Anche perché pronunciare DFW è un casino. Poi ci sono le illusioni ottiche. Come qualche tempo fa che è morto David Frost, buonanima, e io leggevo dappertutto “David Frst”… e il mio cervello ci aggiungeva “Wallace” di sua iniziativa, “David Froster Wallace”. Il postmoderno, anche da morti, è questione di pattern. 

Meglio Infinite JestLa ragazza con i capelli strani Una cosa divertente che non farò mai più?

Non ho ancora letto Infinite Jest ma fra i due che restano preferisco La scopa del sistema, perché mi sono innamorato di Lenore. Poi viene Una cosa divertente che non farò mai più perché la vita è piena di cose divertenti e di mai più, ma La ragazza con i capelli strani è più bello.

Hai una citazione preferita di DFW?

Ho una pessima memoria per le citazioni, però mi pare che quella della quarta della La scopa del sistema nell’edizione Fandango fosse molto commovente. 

DFW è un sopravvalutato o è meglio di Zadie Smith?

C’hanno la bandana tutti e due, nelle foto pare sempre che li abbiano appena spaventati a morte e sono molto bravi e ironici, ma finita lì. Siamo in due campionati diversi, mica puoi fare giocare i Lakers contro il Toro (dove il Toro è Zadie Smith). DFW non è sopravvalutato, è idolatrato che è peggio. Le chiese non vengono mai bene come i messia.

Essere stato così amico di Jonathan Franzen gli avrà rovinato l’umore?

Tu ce li vedi loro due che colorano felici un album della vispa Teresa? Io no. 

 

MARIAVITTORIA PUCCETTI, 31 ANNI, AGENZIA LETTERARIA

Quando hai letto il primo libro di DFW? 

Non molti anni fa, ma non ricordo con precisione. 

Lo chiami Devidfosteruollace, Wallace, o DFW come gli amici? 

Devidfosteruollace tutto attaccato, noi gente col nome lungo ci teniamo.

Meglio Infinite JestLa ragazza con i capelli strani Una cosa divertente che non farò mai più?

È giunto il momento di confessare: non ne ho letto neanche uno. Di Devidfosteruollace ho letto solo Questa è l’acqua e qualcosa di Brevi interviste con uomini schifosi. Mi avete beccata!

Hai una citazione preferita di DFW? 

Ahimè no (vedi sopra).

DFW è un sopravvalutato o è meglio di Zadie Smith? 

Non lo so (vedi sopra sopra)! Temo però che in casi di idolatria come quella che spesso si percepisce verso Devidfosteruollace il rischio che il mito superi la realtà ci sia.

Essere stato così amico di Jonathan Franzen gli avrà rovinato l’umore? 

Di sicuro gli avrà rovinato le diottrie (mi piace immaginarli fare a gara a chi ha letto più libri), ma ecco, diciamo che l’umore di Devidfosteruollace, purtroppo, era già compromesso. Provando a essere seria, invece, ho letto L’isola più lontana (si trova in Più lontano ancora di Franzen) e da quelle pagine si capisce il grado di sincera amicizia che c’era tra i due: un’empatia totale e profonda. Avranno anche avuto dei caratteracci, ma si volevano bene! 

 

ALESSANDRA MAFFIOLINI, 29 ANNI, FREE-LANCE PER MONDADORI

Quando hai letto il primo libro di DFW?

Dopo la sua morte. Ho una passione sconclusionata per gli scrittori suicidi. Nel mio personale elenco, DFW si incasella alla perfezione tra Anne Sexton e Virginia Woolf.

Lo chiami Devidfosteruollace, Wallace, o DFW come gli amici?

Devidfosteruollastuttoattaccato.

Meglio Infinite JestLa ragazza con i capelli strani Una cosa divertente che non farò mai più?

La ragazza con i capelli strani. Ma se a un party ti vuoi liberare di una corteggiatrice molesta, basta chiederle se ha letto Infinite Jest (di cui non riesco ad andare oltre alla p. 63. Forse dovrei iniziare la lettura da p. 64). Si eclisserà rapida come una folgore per tentare di rimorchiare la cubista. 

Hai una citazione preferita di DFW?

“Sono così bella che sono deforme”. Potrebbe essere il titolo perfetto per una canzone di Ke$ha.

DFW è un sopravvalutato o è meglio di Zadie Smith?

DFW portava la barba e probabilmente aveva un petto irsuto. Preferisco Zadie Smith.

Essere stato così amico di Jonathan Franzen gli avrà rovinato l’umore? 

Senza dubbio! Jonathan Franzen odia un sacco di cose, sarebbe quasi stato meglio essere il BFF (best friend forever) di Philip Roth. Quasi, eh.

 

LAURA ATIE, 30 ANNI, ELECTA

Quando hai letto il primo libro di DFW?

Ho iniziato una Infinite Summer di non molti anni fa – per quell’idea che solo d’estate si potessero incontrare o rileggere le opere ‘inabbracciabili’. Ero decisa a seguire le tracce di un gruppo di lettura da silenziosa indipendentista ma non sono riuscita a stare al passo e dopo aver ricominciato almeno tre volte e aver perso il filo innumerevoli altre, la mia lettura si è trasformata in un Infinite Winter.  

Lo chiami Devidfosteruollace, Wallace, o DFW come gli amici?

Dico Foster Wallace e scrivo DFW. 

Meglio Infinite JestLa ragazza con i capelli strani Una cosa divertente che non farò mai più?

IJ. Sempre fedele al primo amore. 

Hai una citazione preferita di DFW?

Non è facile, citerei interi brani. Forse quello che preferisco è il tesoro del suo lessico, la sintassi da sciogliere in bocca, le note a piè di pagina, l’a-marginalità. Tutto, nella sua opera, dice resistenza e bellezza, come Medusa. Così bella da essere deforme. 

DFW è un sopravvalutato o è meglio di Zadie Smith?

#teamDFW: game, set, match. 

Essere stato così amico di Jonathan Franzen gli avrà rovinato l’umore?

Sei crudele, povero Johnny. E ora, tutti a rileggere Farther away

* David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, minimum fax, Roma 2010.

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D.T. Max | Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi

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C’è un punto verso la fine della biografia di David Foster Wallace in cui l’artista Karen Green, sua futura moglie, bussa alla porta di Wallace per mostrargli un suo lavoro. Mesi prima, quando ancora non si conoscevano, gli aveva chiesto di poter trasporre in tavole illustrate un suo racconto dal titolo La persona depressa. Il racconto si chiudeva senza speranza per la persona depressa di uscire dal suo «terribile e incessante dolore», mentre nelle sue tavole la Green aveva cambiato il finale, facendola guarire dalla sua malattia.

E quando Wallace ammirò il risultato delle fatiche di Karen se ne rallegrò, complimentandosi perché era stata in grado di trasformare il racconto in qualcosa che le persone avrebbero voluto leggere.

Questa invece non è una storia a lieto fine, come già saprete nel momento in cui vi accingerete a leggere questa biografia; una consapevolezza che non vi impedirà per oltre 400 pagine – o almeno così è stato per me – di avvertire quella sensazione che si prova vedendo per l’ennesima volta un film di cui conosciamo già il finale tragico, ma ci illudiamo che possa andare diversamente. «Non è questo l’epilogo che ci si augurava per lui, ma è questo l’epilogo che ha scelto», così l’autore, il giornalista D. T. Max, sceglie di concludere – quasi affacciandosi per la prima volta nella narrazione – la sua corposa e dettagliata biografia di DFW, da lui stesso definita nella lunga sezione dedicata ai ringraziamenti come «uno sforzo congiunto, un esercizio di memoria collettiva».

piccola D.T. Max | Ogni storia d’amore è una storia di fantasmiLa biografia di DFW è un libro molto onesto sulla fatica di vivere quando si è preda di sintomi depressivi fin dall’età adolescenziale, vittima di attacchi periodici che Wallace intuì presto sarebbero stati una costante della sua vita e ai quali si riferì sempre come alla Cosa Brutta
Un libro ricco di momenti nei quali il lettore affezionato di Wallace potrà rafforzare quella sensazione che provano tutti i lettori affezionati di Wallace di conoscerlo personalmente, di volergli bene come se ne vuole a un amico. È tutto lì sotto i nostri occhi, nelle lunghe lettere che Wallace scriveva continuamente e in testimonianze di parenti, amici, allievi e compagni di vita, ricostruite scrupolosamente da Max, dalle quali emerge il ritratto di una persona straordinariamente fragile e altrettanto intelligente, generosa e divertente in modo raro, desiderosa di essere felice. E nelle esperienze di vita di Wallace – i mesi passati alla Granada House su tutti, ma anche la passione per il tennis e la dipendenza televisiva – al lettore già familiari grazie alla trasfigurazione letteraria nei suoi romanzi.

Ma l’aspetto che più mi ha colpito, forse perché di tutti gli aneddoti che ho sentito sulla vita di Wallace questo è l’argomento che mi era meno noto, è il suo rapporto con la scrittura. Questo infatti è anche e soprattutto un libro molto onesto sulla fatica dello scrivere, che in Wallace è un tutt’uno con la vita, sul rovello continuo di mettersi ogni giorno davanti alla pagina bianca perché la fiction è la cosa che Devi Fare Per Davvero – così la definì in una lettera a DeLillo – ma è anche la cosa più difficile. Lavorare, scrisse a Franzen nel 2006, è come cacare rocce acuminate. Wallace si interrogò tutta la vita, letteralmente fino alla fine, sulla sua scrittura: sui modelli e le scuole da superare (Pynchon e il postmodernismo), sui maestri (Dostoevskij su tutti), sugli scrittori della sua generazione, ma soprattutto sul senso dello scrivere e sul rapporto con il lettore, tema che arrivò ad ossessionarlo. Dai primi anni '90 in poi, durante la stesura di Infinite Jest e ancora di più nei dodici anni nei quali lavorò al suo terzo e incompiuto romanzo, Il Re Pallido, da lui ribattezzato la Cosa Lunga, Wallace si sforzò di allontanarsi dall’ironia fine a se stessa e dall’autocompiacimento che intravedeva nelle sue opere giovanili e in tanta narrativa contemporanea e di individuare un fine nel suo essere scrittore: «praticare il massaggio cardiaco agli elementi di umanità e magia che ancora resistono» e ancora, «parlare di cosa significa essere un fottuto essere umano». 

Wallace non terminò mai la stesura della Cosa Lunga, non riuscì a mettere nero su bianco in modo compiuto l’idea di letteratura che si era formata in lui negli ultimi anni. Solo noi lettori possiamo dire oggi se e quanto la sua scrittura ci abbia praticato il massaggio cardiaco, se e quanto la sua figura ci abbia parlato di cosa significa essere un fottuto essere umano. Forse se c’è un lieto fine in questa storia, come sottolinea Norman Gobetti in una recensione apparsa su L’indice dei libri del mese e riproposta dall’Archivio David Foster Wallace Italia, esso è da cercare nelle sue opere straordinarie e nella relazione di amore che questo scrittore è riuscito a instaurare con i lettori, prima e dopo il 12 settembre 2008.

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace, D.T. Max, Einaudi. Traduzione di Alessandro Mari.

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Se David Foster Wallace smollasse la tipa

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Bene. Sono le 19, è quasi ora di cena ed è tempo di riposare le stanche membra.

Oggi, in occasione del #DFWday, vi abbiamo messo alla prova proponendovi articoli sì belli, ma un po' meno "lievi" del solito. Abbiamo fatto parlare chi, tra noi, conosce meglio l'autore e, soprattutto, chi meglio lo ha esperito. 

Adesso, sul far della sera, sfregatevi gli occhi un po' inumiditi (non dite che non è così, non ci crede nessuno), spaparanzatevi sul divano e rilassatevi. È ora di (sor)ridere.

Conoscete tutti The Onion, vero? La testata web satirica famosa oltreoceano e non solo per il riportare unicamente notizie assolutamente false. Ebbene, qualche anno fa quei buontemponi pubblicarono una notizia tanto ilare quanto potenzialmente vera

La ragazza di David Foster Wallace smette di leggere la lettera in cui lui la lascia a pagina 20

Stando alla fonte, Claire Thompson, professore di Scienze Politiche all'Illinois State University (dove lo stesso Wallace insegnava Scrittura Creativa), si sarebbe vista recapitare una lettera nella quale, fondamentalmente, il fidanzato David Foster Wallace la lasciava.

Un break-up wallaceiano in piena regola, chiaramente; 67 pagine di missiva, le cui prime 11 riportavano un'attenta e scrupolosa cronologia di tutte le situazioni che li avevano portati al deterioramento del rapporto. Titolo della sezione era, nemmeno a dirlo, "Come Posso Sapere Che Le Cose Sono Cambiate".

Nella lettera, David ammette di aver spesso frugato nella borsa lasciata incustodita di Claire per spiare nella sua agenda e calcolare quanto tempo avrebbero potuto passare assieme. Indizio palese della crisi fu il fatto che una volta, compiendo il consueto peregrinaggio nella borsa della fidanzata, David avesse optato per
 

leggere da cima a fondo una copia della rivista "Fine Cooking", racimolando informazioni sulla coltivazione, le tradizioni culinarie e i metodi di preparazione dell'asparago bianco anziché informarmi sul prezioso poco tempo a nostra disposizione.

Tra le varie sezioni in cui è suddivisa la lettera, possiamo citare "Sul Perché Non Potremmo Mai Invecchiare Assieme", "I Modi in cui Tutto – Noi, Il Mondo e Qualsiasi Cosa – È Cambiato" e "Le Cose Che Non Ti Ho Mai Detto (Che Ti Faranno Certamente Cambiare L'Opinione Che Hai Di Me".

Sorpresa ma non più di tanto, la Thompson afferma di non avere capito subito che si trattasse di una lettera d'addio circa la loro relazione, tant'è che, inizialmente, nemmeno l'aveva aperta.

Pensavo fosse uno dei suoi tomi su, che so, il perché ha smesso di mangiare zucchero o le ragioni per le quali avesse buttato il televisore. Oppure una roba come quella di 88 punti nella quale spiegava perché non volesse una festa di compleanno.

Una volta svelato l'arcano la Thompson avrebbe poi incominciato la lettura senza, però, portarla a termine: «Magari un giorno la riprenderò, sono curiosa di sapere come va a finire.» 

Come abbiamo sottolineato a inizio articolo, The Onion è una testata web satirica, pertanto la lettera in questione non esiste. Ma fa sorridere pensare a Wallace alle prese con carta, penna e dinamiche amorose. Conoscendo la sua capacità di sintesi e l'amore smodato per l'annotazione a piè pagina, non risulta così incredibile pensare che forse, da qualche parte nel mondo, vi sono donne con plichi infiniti nel cassetto dei ricordi del college che potrebbero dire, non senza fierezza: «Sì, sono stata smollata da David Foster Wallace.» 
 

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David Foster Gif

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David Foster Wallace Finzioni H. Sesta

Quando abbiamo deciso di parlare di David Foster Wallace durante il #DFWday, ho chiesto se avrei potuto onorarlo a modo mio, con qualche gif. I boss mi hanno detto:

gE4ykQa David Foster Gif

Quindi con un po' di passione e molta reverenza ho iniziato a cercare 5 espressioni di DFW che avremmo tutti potuto apprezzare.

1- La prima è tipo "ti va di leggere Infinite Jest con me?"

Davidfostergif David Foster Gif

2- Cosa succede se ti cade Infinite Jest su un piede? Più o meno questo

Davidfostergifhurt David Foster Gif

3- Aggiustarsi gli occhiali quando si ci arrabbia con qualcuno che non capisce la profonda comicità di DFW.

David foster wallace gif glasses.gif David Foster Gif

4- Se proprio insiste possiamo ribattere con un "dafuq!"

David foster wallace gif wtf David Foster Gif

5- E poi uno dei miei discorsi preferiti: Questa è l'acqua.

David foster wallace this+is+water.gif David Foster Gif

5bis: Davvero? Puoi ripeterlo?

David foster wallace this+is+water 2.gif David Foster Gif

Spero che queste gif, per voi, non siano state troppo postmoderne. Qualunque cosa questo significhi, grazie DFW!

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LIBRO (Fascetta)

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LIBRO (Fascetta)

Allora io ho alzato il braccio destro, poi ho spostato il sinistro, ho mosso l’anca e ho abbassato il braccio destro e ho fatto così con la spalla e questo si chiama ballare.

Poi ho inserito la lingua nella bocca di una persona e lei ha mosso la lingua intorno alla mia e della saliva è colata per terra e questo si chiama baciare.

Da quando sono guarito ne ho di cose da re-imparare e ne ho di cose da provare e mi piace davvero un sacco farlo e questo si chiama vivere.

Non è difficile, alla fine. Simon me l’ha spiegato così: copia quello che fanno gli altri e se non capisci qualcosa fai uscire l’acqua dagli occhi (piangere). In caso di risultati positivi alza gli angoli della bocca (sorridere), altrimenti muoviti velocemente verso un posto diverso (scappare).

Ho preso appunti bucherellando un piatto di plastica ma se devo essere sincero non capisco quasi un cazzo di quello che succede. Per esempio ieri uno aveva le palle degli occhi nella mia direzione e io so che in quel caso di solito parlano e invece non ha parlato. Ha fatto un’altra cosa che non ho capito, cioè ha chiuso un solo occhio per un secondo, e allora io ho fatto lo stesso (educazione). Mi ha portato in bagno, sembrava stesse per succedere qualcosa di divertente. Invece è venuto fuori che questo si chiama dolore.

A causa di questa esperienza oggi mi è stata assegnata una persona che si occupa di dirmi in ogni momento cosa sbaglio e cosa devo fare, una fidanzata. Credevo fosse bellissima perché è molto simmetrica ma Simon mi ha spiegato che è simmetricamente brutta. Stasera con lei devo ballare, baciare, sorridere e scappare, in questo preciso ordine.

Devo anche evitare di toccare altre femmine, ma distinguere i due tipi biologici principali è molto difficile quando sono avvolti nella stoffa. Non esistono segni esclusivi. Un maschio può non avere peli sotto il naso e una femmina può non indossare un contenitore a tracolla. Un maschio può avere le mammelle sviluppate e appendersi degli oggetti alle orecchie, una femmina può avere i peli del cranio corti e non dipingersi la faccia. In attesa di trovare un metodo migliore del chiederglielo (non funziona bene), cerco il nome di battesimo su una lista maschi/femmine che porto sempre con me.

Quando mi sono rotto prima di tutto non lo faccio capire e poi scrivo delle parole sapendo che subito dopo non ne scriverò altre e questo si chiama finire.

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JK Rowling: in arrivo al cinema lo spin-off di Harry Potter

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(photocredit: hypable)

 

Ehilà, potteriani, spero siate seduti. Se non siete seduti, perché magari state leggendo questo articolo alla fermata dell'autobus o in piedi sulla metro, cercate appoggio da qualche parte. La vostra settimana, infatti, sta per chiudersi in bellezza, con una notizia bomba: JK Rowling ha scritto la sceneggiatura per altri film di Harry Potter. No, non parliamo del seguito della saga, ma di uno spin-off basato sul libro Gli animali fantastici: dove trovarli, edito in Italia da Salani.

L'idea è partita dalla Warner Bros e la Rowling non ha saputo resistere alla tentazione; così, per la gioia di tutti i suoi fan, ci è ricascata. Il libro, come i lettori di Harry Potter ricorderanno, è in sostanza uno dei testi di magia in uso tra gli studenti di Hogwarts, che l'autrice attribuisce a Newt Scamander, inventandosi anche una prefazione di Silente. Proprio per questo, i film non potranno considerarsi «né un prequel né un sequel della serie di Harry Potter, ma un'estensione del suo magico mondo» e difatti si tratterà della storia di Newt, ambientata a New York 70 anni prima della vicenda di Harry. Okay, molti dei protagonisti che hanno reso famosa e amata la saga non ci saranno, ma per i lettori sarà comunque una nuova dose di Potter che interrompe un'astinenza durata due anni (l'ultimo film, Harry Potter e i Doni della morte – Parte 2 è del 2011). 

Ai signori della Warner Bros e alla stessa JK di certo non sarà sfuggito il recente successo cinematografico di Lo Hobbit, perciò si può dire che il loro tentativo è stato fatto a botta sicura, certi di avere davanti un pubblico affamato e pronto a fiondarsi su qualsiasi cosa targata Rowling. Non è un caso che sia proprio l'autrice a scrivere la sceneggiatura di questi nuovi film, dando una sorta di garanzia o di attestato di qualità al prodotto. Sappiamo fin troppo bene come tutti i suoi progetti, perfino quegli extra-Potter come Il seggio vacanteThe Cuckoo's Calling, siano comunque destinati al successo. Perché la Rowling è una specie di Re Mida, oppure più semplicemente non è meno magica dei suoi personaggi. La realtà è che non siamo solo davanti a una grande scrittrice. JK è da considerarsi l'interprete di un nuovo modello di autore in grado di legare la propria opera a un vero e proprio marchio, senza però dare la sensazione che i libri siano divenuti merce pubblicitaria. C'è del marketing quanto ne volete, ma c'è soprattutto letteratura fantastica, grandi storie e grandi personaggi. Se l'autrice e i suoi libri sono una macchina da soldi, in questo caso è comunque difficile sminuire il lavoro in quanto tale. Sembra di trovarsi davanti a un incantesimo per il semplice fatto che, in genere, operazioni editoriali e cinematografiche elaborate nel solco della Rowling finiscono per mostrare troppo indiscretamente i calcoli e i disegni che precedono il tutto.

Noi possiamo credere o meno alla storia di Robert Galbraith, così come possiamo considerare la Rowling solo un mostro assetato di denaro, anziché una scrittrice-imprenditrice coi fiocchi. Personalmente, non demonizzo chi raccoglie un meritato successo e nemmeno chi dimostra di volerlo incrementare. La mia vita non cambia se il conto in banca della Rowling acquista nuovi zeri, mentre posso dire che qualcosa nella mia vita di undicenne è cambiata quando ho letto Harry Potter e la Pietra filosofale. Punti di vista. Ciò che conta, per i potteriani, è che JK sia tornata e che stia arrivando con un bel regalo. L'unica cosa da fare è gustarselo e aspettare di capire dove trovare questi animali fantastici. 

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Re-Kiddo: è il #roalddahlday!

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Domani è il 13 settembre ed è un giorno speciale! Sì perché ogni anno in tutto il mondo si celebra il giorno della nascita dello scrittore britannico di origini norvegesi, il mitico Roald Dahl!

Noi di Hey Kiddo vogliamo rendergli omaggio con una giornata speciale, piena di articoli dedicati all'autore numero uno di classici per l'infanzia. Perché, non vorrete mica raccontarci di non avere mai incontrato sulla vostra strada di Kids Gli SporcelliMatildeLa Magica MedicinaLe StregheVersi Perversii GremlinsGGG , La Fabbrica di CioccolatoIl VicarioCari voi o Minipin? Beh, potete sempre recuperare con un altro capolavoro, la sua meravigliosa autobiografia Boy!

Che dire poi dello splendido duo a cui ha dato vita collaborando con l'illustratore Quentin Blake? Quasi non si riesce a pensare all'uno senza l'altro! 

quentin blake Re Kiddo: è il #roalddahlday!

Godetevi dunque oggi la nostra programmazione speciale tutta dedicata a Roald e mi raccomando, leggete!

"Non ho niente da insegnare. Voglio solo divertire. Ma divertendosi con le mie storie i bambini imparano la cosa più importante: il gusto per la lettura. Si staccano dal televisore, e prendono familiarità con la carta stampata. Più avanti nella vita, questo allenamento gli servirà per affrontare testi più seri. E chi avrà cominciato presto a leggere libri, andrà più lontano”.

 

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