
Chiamatemi Uomo Senza Tonno. Imbarcatomi sulla baleniera di Letto e Mangiato con il mio uncino ricavato dalla linguetta dell’ultima scatoletta di tonno al naturale consumata ormai anni or sono, mi imbattei in un'avventura culinaria ai limiti dell'umana immaginazione. Ve la narrerò, aaaargh!
Mentre mi aggiravo sul ponte della baleniera finzionica rimembrando la lettura di quel mattone di Moby Dick di Herman Melville, d'improvviso sentii degli inenarrabili suoni provenienti dalla cucina della nave. Cosa poteva mai essere, mi domandai. Preso dalla curiosità, discesi le scale e, una volta aperta la porta della cucina, corpo di mille fornelli! Dal sacchetto della pescheria che il ramponiere Queequeg aveva acquistato poco prima di salire a bordo, gli otto tentacoli di una seppia bianca gigantesca emergevano contorcendosi come quelli di un kraken. Liberatasi del plastico impedimento, la Seppia Bianca mi spruzzò addosso inchiostro al sapor di vendetta. Il leviatano si dimenava e dibatteva, ma siccome voglia di finire come Achab non ne avevo, mi fiondai verso la zona cottura a sfidare il mollusco ribelle.
Una volta che l’ebbi ghermita con un arpione prima, con l'uncino poi e immobilizzata coi tentacoli legati a uno dei pilastri della cucina, mi misi all’opera.
Preparai del brodo vegetale con carote, sedano e cipolla. Con gli stessi ingredienti feci una brunoise, che poi stufai e a cui aggiunsi prima una scatola di fagioli cannellini scolati e sciacquati, poi alcuni mestoli di brodo, che condussi a totale evaporazione. Sostituii il mio uncino con un braccio meccanico ad azione frullante, ovvero il fido Minipimer. E frullai ottenendo un paté che resi morbido con l’aggiunta di un filo d’olio extravergine d’oliva. Aggiustai di sale e preparai un trito finissimo di scorza di limone e menta fresca che unii al paté.
La Seppia Bianca sfiatava rabbia dall'antro, ma deciso a non lasciarmi soverchiare, proseguii tagliando due zucchine a cubetti e facendole rosolare con una noce di burro di spermaceti ricavato da un antico capodoglio. Aggiunsi parte del brodo rimasto, onde di brodo che si abbattevano sulla pentola e lasciai andare a fiamma vivace. Il fido Minipimer si fece carico di un’ennesima frullata: non appena il brodo fu del tutto assorbito dalle zucchine, ridussi il tutto a una crema. Aggiunsi del sale.
Eccomi al punto più periglioso dell’intera vicenda: la farcitura della Seppia Bianca. Slegai il Cefalopode che tentò una nuova rivolta schiaffeggiandomi con i tentacoli, ma gli assestai un colpo di mestolo e, stordito, potei spalancargli le mobili diramazioni. Con generose cucchiaiate, la farcii con il paté di cannellini, che suturai poi con degli stuzzicadenti. Ormai esanime, la Seppia Bianca venne definitivamente immolata quando l’accomodai in forno a 190°, solo dopo averla avvolta in un lenzuolo di alluminio per evitare che il biancore si rovinasse con la cottura.
Avevo sconfitto il leviatano. Immobile e sfrigolante, lo adagiai in una ciotola di terracotta su un letto di crema di zucchine e lo irrorai con un filo d’olio di oliva. E quando ne assaporai le morbide carni, il grande sudario del mare tornò a rollare come rollava cinquemila anni fa.
Stay tuna.
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