Nel mese di maggio è stato protagonista assoluto Zerocalcare con il suo Macerie prime – sei mesi dopo, la prosecuzione del volume uscito lo scorso novembre; un progetto editoriale ambizioso – quello di casa Bao Publishing – che ha visto l’autore romano imporsi con un racconto di ampio respiro (pari solamente a Dimentica il mio nome).
Ma c’è stato spazio anche per il giovanissimo Francesco Guarnaccia, autore di Iperurania.
Quella che segue è il risultato di un’intervista-fiume su fumetto, musica e aspirazioni nel campo artistico. Il tutto svolto nella cornice dell’Arfestival, dove l’autore di From here to eternity si è sentito subito a casa con una mostra dedicata alla sua produzione.
From here to eternity ha come protagonista una rock band guidata da un anziano vocalist, una scelta singolare. Un ottantenne come? Ti sei ispirato a dei punk rocker veramente esistiti?
Non mi sono ispirato a figure particolari eccetto il cognome utilizzato (Fugazi, ndr). Lui è un anziano vero, non ha niente a che vedere con il mondo del punk. Ha la coppola e il bastone. Cova quel rancore tipico dei vecchi al termine di una vita difficile. L’atteggiamento alla fine è prettamente punk, le linee di contatto con il carattere sono esilaranti. Estrazione ed estetica sono diametralmente opposte, utili come spunto iniziale: due mondi diversi e lontani che hanno dei punti in comune insospettabili.
Tramite l’anziano ho veicolato un discorso su uno scontro generazionale, una riflessione di chi è giunto al capolinea, e di altri che devono cominciare da zero.
Una tematica che possiamo ritrovare in Iperurania, specie nel personaggio di Cage che in qualche modo si atteggia da anziano.
Sì, anche se di anziani veri non ce ne sono. Quello che incarna Cage è un modo di concepire l’ambiente e il proprio lavoro passatista. Ormai siamo in una situazione in cui la competizione non valorizza, ma dovrebbe invece stimolare a fare meglio e non a piangersi addosso e a non pestare i piedi all’avversario.
Cosa ti ha insegnato la gestione di una serie webcomic?
Per me era la prima esperienza, prima di allora lavoravo alle storie brevi e alle vignette; è stato fondamentale per la riuscita di Iperurania. From here to eternity ha 13 storie brevi/capitoli, ne facevo uno al mese, non percepivo il carico che richiederebbe un libro intero. Quindi è stato molto leggero lavorare di volta in volta, a differenza della mole di lavoro prevista per Iperurania, che ho accusato e sentito tantissimo sebbene sia stata una bella sfida. Sono due approcci di lavoro differenti, non ti saprei dire quale dei due preferisco.
La competizione ti salva, o ti mastica per poi risputarti? Riguardo la musica?
Sono due temi ricorrenti nelle tue opere, che ne pensi al riguardo?
Io da piccolo giocavo a basket e ho avuto un terribile momento con la competizione, perché ad un certo punto il basket è diventato agonistico, significava quindi la perdita del fattore divertimento. Ho dovuto riavvicinarmi a un tipo di competizione purtroppo malsana. Con il fumetto ho scoperto una forma di competizione più sana che stimolasse a fare meglio, a provare stima per le persone.
Il punto è che non c’è un solo vincitore con al suo seguito i perdenti. Quando lavoro non sto togliendo spazio ad altre persone, non c’è motivo di pestarci i piedi, anzi, è bello condividere saperi, spronarsi e aiutarsi a vicenda. Entra in gioco la competizione per rendere interessanti e stimolanti i lavori. Non rappresenta più un ostacolo. La musica in From here to eternity era qualcosa da tributare. Della musica mi piaceva l’ambiente. Praticamente l’ascolto ogni giorno. C’era la volontà di omaggiarla perché la ritengo la mia linfa vitale.
E cosa ascolti di preciso?
Molte cose. Quando ero impegnato con le ultime consegne ascoltavo Childish Gambino, un genio, e una cantante indie italiana che si chiama Adele Nigro, leader degli Any other. Un filo conduttore di tutto il mio ascolto sono i Gorillaz, li ho visti a Londra e li vedrò al Lucca Summer Festival.
Brian O’Malley è una costante dei tuoi lavori, vedi le forme tondeggianti, la messa in scena e i protagonisti praticamente giovanissimi. Quanto è stato fondamentale il suo lavoro e perché?
Assolutamente. Ci sono un tot di fumetti che hanno rappresentato un passaggio da lettore a fumettista, li ho sempre visti distanti perché non sentivo di poter produrre io stesso. A farmi pensare di lavorare nel campo creativo è stato Scott Pilgrim, impattante sul mio percorso. Uno dei miei idoli e punti di riferimento assoluti.
Come ti sei approcciato al circuito indipendente e con il collettivo Mammaiuto?
Ho sempre frequentato Lucca comics ben prima di voler fare il fumettista. In realtà ho conosciuto la Self Area, ne sono stato da subito affascinato. Mi sembrava la via giusta e più vicina per entrare nel campo. Sono partito con Amenità, la rivista antologica di Lucia Biagi. L’esordio è avvenuto sul numero 3 della rivista, in quell’anno ho avuto poi modo di conoscere il collettivo Mammaiuto con una proposta che si è tradotta in From here to eternity.
From here to eternity e Iperurania. Due facce della stessa medaglia. Con la prima ti sei cimentato nella narrazione per le storie brevi, con l’ultima hai addomesticato il linguaggio del romanzo a fumetti. Com’è nata l’idea?
Di solito parto sempre da uno stimolo, da un ricordo molto personale e slegato dalla trama. Un sentimento che nel mio caso mi interessava raccontare: la Sindrome dell’impostore, ovvero, quel profondo disagio mentre le cose vanno bene a delle persone, il cui talento è innato e che permette loro di ottenere risultati eccellenti con minimo sforzo. Ho provato questo sentimento che mi ha lasciato una curiosità, perché tanto bizzarro da volerlo superare e studiare; quindi ho provato a estenderlo e a immaginarlo nella sua forma più invalidante.
La storia ha avuto un matrimonio felice con il genere fantascientifico, adatto per veicolare immagini e messaggio che volevo trasmettere.
Difficoltà ne ho avute poche, ma provate durante il world building perché avevo tra le mani tanta carne al fuoco.
Bun va avanti e Cage rimane sconcertato e avvilito davanti ai suoi successi.
Da qui in poi proverà della malsana invidia per i traguardi che raggiungerà. Bisogna complimentarsi anziché lasciarsi andare e a provare rancore, confermi?
Assolutamente vero. Un caso che mi ha colpito? Il restyling del cartone Thundercats: un attacco feroce come se a qualcuno fosse stato fatto un torto personale, le persone si smuovono sempre con le critiche e mai con gli apprezzamenti sinceri. Un reboot che peraltro c’era stato, ma che è rimasto poi inascoltato. Bisogna assolutamente imparare a fare i complimenti e le critiche nella maniera più costruttiva possibile, il compito è educare le persone a riceverli e a farli.
Quali ispirazioni visive e letterarie sono state utili per l’impianto narrativo di Iperurania?
Due anime in questo caso. Planetes è una serie di fantascienza dall’approccio narrativo ambizioso perché racconta un gruppo di spazzini nello spazio, per loro una routine noiosa. L’altro è FLCL, bellissimo anime dello studio Gainax, all’epoca fatto per testare le tecnologie dell’animazione, è un anime bizzarro ma il punto in comune è lo stesso, la quotidianità che suscita meraviglia sul momento.
La storia spinge l’acceleratore sulla meraviglia nel mero contesto quotidiano. Per esempio: dalle teste dei personaggi cominciano a spuntare dei robot. Il giorno dopo sembra già un avvenimento di ordinaria amministrazione.
Quali sono state le impressioni provate una volta entrato alla mostra che ti hanno dedicato ad ARF?
È stata la prima cosa fatta in fiera, sono veramente fiero, è stata tra le più grandi soddisfazioni ricevute nella mia carriera.
Il fatto di aprire ad Andrea Pazienza (rimasta aperta presso l’ex Mattatoio Testaccio a Roma fino al 15 luglio, ndr) è un onore incalcolabile, sono contento che le cornici siano gialle! (Ride). In realtà è una delle cose che mi fanno capire che c’è stata una curatela perfetta, mi ha dato veramente fiducia perché gli organizzatori avevano colto perfettamente i miei lavori.
Quali sono le soddisfazioni che ti sei tolto durante la lavorazione di Iperurania, e una volta ricevuto il libro?
Quando avevo il libro tra le mani è stato pazzesco perché ho sempre lavorato in digitale, nonostante io stesso abbia progettato il libro: margini, impaginazione ecc.
Una grande possibilità che mi è stata data è che mi sono sempre interfacciato con Lorenzo Bolzoni, responsabile grafico di BAO, perché appunto tutto venisse al meglio, stampato nella forma migliore possibile, con una perfetta corrispondenza tra schermo e i colori utilizzati.
L’essere in grado di fare un libro da solo e non era mica scontato.
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