L’immagine di copertina è di Caroline Bertolini
Deborah Levy – così lei stessa racconta in The Cost of Living – ha due fotografie appese al
frigorifero, una di Barbara Hepworth intenta a lavorare alle sue sculture, l’altra di Louise Bourgeois.
Delle due è la seconda ad interessarmi. Se dovessi cercare di descrivere il lavoro di Levy in economia di parole, forse suggerirei di guardare le opere di Louise Bourgeois e di immaginarle tradotte in parole. Potrebbe sembrare un paradosso a prima vista – Bourgeois ha sempre affermato di essersi dedicata all’arte perché le paure, le emozioni e l’immaginario dentro di lei erano troppo grandi per poter essere espresse a parole – ma in realtà lo è meno di quanto si possa pensare. I romanzi di Deborah Levy sono infatti cristallizzazioni del pensiero, trascrizioni per immagini del desiderio, materializzazioni delle paure, dove non è nelle parole che leggiamo che si trova il significato, ma nello spazio precipitoso che vi si apre dietro.
Anything covered is always interesting. There is never nothing beneath something that is covered.
Desiderio, pulsione di morte, matricidio, incesto, ipocondria, trauma e malattia, non sono che alcuni dei temi che si trovano nei suoi romanzi più recenti, Swimming Home (A nuoto verso casa, ed. Garzanti, 2014, trad. S. Cherchi) e Hot Milk.
Ambientati entrambi in un’estate torrida, A nuoto verso casa racconta la storia di Kitty Finch e il caos che la sua presenza porta all’interno di due coppie di inglesi in vacanza in una villa della costa azzurra, Hot Milk invece esplora la relazione tra una madre forse paralitica e la figlia durante un soggiorno estivo ad Almeria presso una clinica il cui misterioso direttore si sarebbe detto capace di curare l’invalidità della madre.
Ricostruirne la trama, non solo è difficile, ma anche riduttivo. Sono le immagini e il loro ordine che contano: meduse che pungono, corpi che scivolano sotto il bordo dell’acqua, mani che si sfiorano, donne che appaiono a cavallo in mezzo a ristoranti o sul bordo della spiaggia, corpi nudi in mezzo alla folla, serpenti che spuntano nelle stanze, sedie a rotelle abbandonate in mezzo alla strada. Il tutto avvolto in un’atmosfera vischiosa, rallentata, dove eros e thanatos si confrontano con indolenza, un’atmosfera che è allo stesso tempo reminiscente quella di film come Le Mépris o Ava e quella delle piazze deserte di alcuni quadri di De Chirico.
In questi brevi ma densi romanzi, Deborah Levy si interroga costantemente su come si possa reclamare la propria identità e il proprio desiderio, come (e se) si possa essere liberi dalle sovrastrutture in un mondo che obbliga costantemente a indossare delle maschere che non sono modellate su di noi, ma alle quali ci si deve adattare.
Imperialismo, patriarcato, malattia mentale, i rapporti di affiliazione familiare: l’intero lavoro di Levy si pone come scopo quello di rivelare e forzare queste maschere per dare spazio alle pulsioni che vengono costantemente soffocate.
I want to get away from the kinship structures that are supposed to hold me together. To mess up the story I have been told about myself. To hold the story upside down by its tail.
Rovesciare la storia, scardinare le premesse e così facendo rivelare l’indicibile. Così Deborah Levy nasconde la rivoluzione in una narrazione apparentemente (inizialmente) realista. Si parte da una donna che nuota in piscina per arrivare al confronto di un uomo col trauma dell’Olocausto, da un laptop dallo schermo frantumato per arrivare alla contemplazione del matricidio. All’interno di questi punti fissi si muovono i personaggi mascherati, gli outsiders domati che sognano la libertà del desiderio e del pensiero, e la libertà dalla memoria e dalle interpretazioni.
Your boundaries are made of sand, Sofia.
Mescolando la tradizione modernista inglese a una certa sensibilità letteraria continentale (Duras, Simone de Beauvoir, Genet, Breton…), Deborah Levy esplora i confini dell’identità, lo spazio in cui avviene la negoziazione tra se stessi e l’Altro. Centimetro dopo centimetro, come se fosse un argine di sabbia, lo spinge un po’ in là e vi affonda la penna fino al limite dell’indicibile.
Se l’inesprimibile per alcuni può risultare incoerente e difficile da apprezzare – e questo spiegherebbe tristemente la ragione del tardo successo, essendo stato A nuoto verso casa rifiutato da vari editori prima di vedere la luce e apparire tra i candidati al Booker Prize – i volumi autobiografici, Things I don’t Want to Know e The Cost of Living, offrono al contrario una guida chiara e razionale alla vita e poetica di Deborah Levy, alle sue influenze e al suo pensiero.
Pensati da lei stessa come living autobiography, questi testi esplorano due decadi della vita interiore – quella dei quaranta il primo e cinquanta il secondo – di una donna nata in Sudafrica, cresciuta in Inghilterra, che ha dovuto ricostruirsi una vita dopo il divorzio cercando allo stesso tempo di curare il rapporto con la figlia e di non rinunciare all’arte della scrittura.
Sono volumi toccanti: gli anni di prigione del padre (militante dell’ANC), il confronto con
l’apartheid, l’emigrazione e l’adattamento a una nuova cultura, il femminismo, il divorzio, il crollo, la ricostruzione, la morte della madre, e la scrittura, soprattutto la scrittura.
Si assiste leggendo queste pagine alla trasformazione di una vita nel terreno fertile della parola, si scopre da dove nascano alcune delle immagini che tornano nei romanzi, si fa luce sugli spazi oscuri che circondano i frammenti di ogni libro, si individuano le forze che li tengono assieme, ma soprattutto si scende lentamente nell’interiorità di Deborah Levy per uscirne ristorati, riempiti di vita.
Leggere, o rileggere, i romanzi dopo aver letto le biografie è un’esperienza viscerale e di rara intensità come se dopo una conversazione il nostro interlocutore si fermasse, prendesse una pausa, staccasse la maschera dal viso e ci lasciasse guardare nel vertiginoso e ribollente spazio che v’è dietro. Come se messo da parte l’Io, ci fosse dato diretto accesso all’Es.
Art is a guarantee of sanity. (L. Bourgeois)
L'articolo Oltre le maschere. Introduzione minima all’opera di Deborah Levy sembra essere il primo su Finzioni Magazine.