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Molte birre con… Francesca Manfredi

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C’è una domanda che rimbomba nella testa di tutti i bevitori di birra, come un lungo e squassante hangover: posso bere esclusivamente al bar con i miei amici oppure anche in casa, da solo? Come dire: la birra è un fatto sociale o anche individuale? Faccio la figura dell’alcolizzato se, sul divano, con la copertina sulle gambe e il computer su Netflix, invece di una tisana mi scolo una Morettona da sessantasei?

Lasciando la risposta alle vostre sensibilità – e al vostro feed di Instagram – vi diamo il bentornati a Molte birre con…, la rubrica che ha la mano ferma nonostante gli incipienti segni di alcolismo. Dopo aver parlato di editoria americana con Giulio D’Antona, di criminalità organizzata con Simone Sarasso, di sciabattamenti del Novecento con Marco Rossari, di agenzie e riviste con Pastrengo, di racconti e Messico con Alessandro Raveggi, di Topolino e incomprensioni con Tito Faraci, di amore e antichità con Giorgio Fontana, di giochi di ruolo e bottiglie che esplodono con Vanni Santoni, di mummie e specifici letterari con Andrea Morstabilini, di messaggini e intrattenimento con Federico Baccomo, di praticamente qualsiasi cosa con la cittadinanza di Ivrea, di lavoro per il lavoro e di Giancarlo Magalli con Daniele Zito e di categorie abominevoli con Fabio Geda, oggi è il turno di Francesca Manfredi, autrice, vincitrice del premio Campiello Opera Prima e amante dello stare in casa, in libreria da qualche mese con la raccolta di racconti Un buon posto dove stare (La nave di Teseo).

Le birre e la location sono del fantastico Santeria Social Club di Milano, le foto e i video di Alberto Cocchi, che a questo punto la prossima volta preparerà anche gli alcolici nella sua vasca da bagno di casa.

Prima birra

Hai studiato alla scuola Holden, hai iniziato a scrivere un po’ di racconti e poi li hai messi insieme per il libro? Com’è andata?

Sì, studiavo alla Holden, e uno dei racconti del libro, “Ricorda chi sono”, era un esercizio del primo anno. Avevamo una classe di scrittura con Elena Varvello e Marcello Fois, i lunedì dedicati al racconto. Fois ci mandava un sacco di materiale, in quel caso nello specifico un video dello smemorato di Collegno, poi ci dava il tema del racconto, la memoria, e iniziavamo.

Però il tuo libro ha un filo conduttore abbastanza evidente, quello della casa, degli ambienti. 

Quello si è sviluppato dopo. Prima scrissi altri due racconti, che erano per il compito finale della scuola, poi ne ho scritti altri e ho capito che mi stavo indirizzando da sola verso l’ambiente domestico, casalingo.

E come funziona la scelta dell’ordine dei racconti? 

Come quando fai un disco. L’ordine l’ho deciso io, tranne “Cloro” che era secondo ed è stato spostato al primo posto dalla mia editor. In generale mi baso molto sul mood, sul suono, su come risuonano insieme i racconti. L’ultimo della raccolta, “Quello che rimane”, è stato anche l’ultimo che ho scritto, e lì l’ho lasciato perché era adattissimo a chiudere il libro.

E poi c’è la storia di Andrew Wylie, il più famoso agente letterario del mondo. 

Lui è arrivato alla Holden quando io ero circa a metà del percorso del mio libro, non avevo ancora scritto tutti i racconti. Ha tenuto una lezione e ci ha dato la possibilità di mandargli i nostri progetti, promettendo che li avrebbe letti e che avrebbe selezionato i migliori. E alla fine ha scelto i miei.

Come funziona adesso? 

La mia agente lavora per Wylie, è turca, cresciuta a Milano, parla perfettamente italiano, inglese e turco e adesso si è trasferita a Londra, la sede dell’agenzia. Si chiama Ekin Oklap e traduce anche Orhan Pamuk dal turco all’inglese.

E La nave di Teseo?

Quando ho finito la raccolta ho mantenuto un contatto diretto con l’agenzia, e insieme abbiamo deciso di mandarlo a un po’ di case editrici, il più classico dei percorsi. La nave di Teseo era una delle mie prime scelte, stava nascendo proprio mentre terminavo la scrittura, a fine 2015. E penso che, per un autore, sia molto utile avere un agente, italiano o straniero che sia, soprattutto per quelle cose barbosissime tipo i contratti, in cui rischi sempre di essere infinocchiata. E poi per diminuire, e di molto, i tempi di lettura e di risposta dagli editori.

Seconda birra

Dopo averla frequentata, adesso tu insegni alla Holden, e questo significa anche, mi pare, dover sistematizzare molto la tua scrittura. Nelle lezioni che fai, gli aspetti teorici li hai desunti dalla tua pratica oppure ci sono teorie generali che hai studiato da qualcun altro e che sono applicabili un po’ a tutto?

 

Parlando dei tuoi racconti, risulta chiaro come l’ellissi, la sottrazione, il minimalismo siano un po’ la tua cosa. Come ci hai lavorato? Ah, dichiaro che non pronuncerò mai in questa intervista il nome di Carver (tranne questa volta).

Io credo di avere il sacro dono della sintesi, fin dalla nascita. Anche proprio a parole, non sono certo una di quelle che fa sproloqui.

Per quello che ti facciamo sbronzare. 

Ottima tattica! La scrittura, comunque, mi viene allo stesso modo. Ho più difficoltà a scrivere che a tagliare. Io vengo tagliata proprio automaticamente da me stessa, in un percorso di autocastrazione! Quando ho buttato giù la prima stesura di un racconto, ho fatto il grosso del lavoro. L’unico che è stato davvero tagliato è “Cloro”, che aveva dieci pagine in più, originariamente.

Proviamo a snebbiarci la mente facendo due conti. Tu hai consegnato il libro a fine 2015, immagino dunque che tu stia scrivendo qualcos’altro, adesso, e immagino che sia un romanzo, visto che nessuno avrà mai il coraggio di proporre due libri di racconti consecutivi. 

Effettivamente sì, è un romanzo! Nessuno mi aveva specificatamente chiesto di farlo, e di cambiare dalla forma racconto, ma è un’ebbrezza che volevo provare.

E com’è questa ebbrezza?

La mia indole votata alla sintesi e all’ellissi è un po’ un problema, applicata a un romanzo. Per esempio, non riesco proprio a scrivere più di una pagina al giorno, dunque si allungano i tempi. E di certo non arriverò mai a un libro di trecento pagine, troppo lungo!

Terza birra

Scrivendo racconti come quelli del tuo Un buon posto dove stare, conferisci un ruolo attivo al lettore, che deve riempire i vuoti con la sua testa, i suoi ragionamenti. È sempre vivo il dibattito su come gestire il rapporto con i lettori, se imboccarli, provocarli o attivarli. Tu come la vedi?

Anzitutto, il mio terrore più grande è quello di risultare banale, di scrivere cose banali, e il mio modo per aggirare il problema è proprio quello di dire il meno possibile e passare la palla al lettore, per far sì che sia lui a colmare i vuoti a suo modo, modi che possono essere molto diversi da persona a persona. Questo mi interessa moltissimo, mi piace sapere che lettori diversi hanno dato interpretazioni diverse allo stesso racconto. Ed è in generale ciò che amo di più della forma breve, che si presta particolarmente a dare un incarico a chi legge.

Secondo te è nato prima il lettore che non legge racconti o l’editore che si è convinto che i lettori non leggono racconti?

Difficile da dire, sembra proprio come la storia dell’uovo e della gallina. Partiamo dal fatto che, come dicevamo prima, il racconto è una lettura meno di intrattenimento e di relax; secondo me, comunque, la letteratura, oltre che intrattenere, dovrebbe anche fare altro, chiamare in gioco, far pensare e partecipare il lettore. Il racconto è per sua natura complesso, forse non è una forma dedicata a tutti.

Poi, in realtà, l’Italia ha una grande tradizione di novelle, ma a un certo punto il meccanismo si è inceppato. Questo dipende probabilmente anche dall’istruzione, dalle scuole, dove ci si concentra sui grandi romanzi e sulla poesia, e questo fa sì che il lettore si disabitui ad avere a che fare con una forma breve di narrazione. È un po’ un circolo vizioso. Poi, ultimamente, si vede una grandissima attenzione in rete per le forme brevi, come le piattaforme web e le riviste letterarie online, ma il mondo dell’editoria arriva sempre dieci passi dopo, adagiandosi sull’usato garantito.

Qualche mese fa hai vinto il premio Campiello Opera Prima. Che cosa succede quando lo vinci? Ti pagano?

Sì, c’è anche un premio in denaro. Poi vai alla serata di gala, con il vestito buono. A me hanno regalato un vassoio pesantissimo – puoi scegliere tra un vaso e un vassoio, io ho scelto il vassoio – e mi hanno fatto salire sul palco per darmelo, e io non sapevo fisicamente come tenerlo perché avevo già il microfono in mano. Ci sono delle foto in cui sembro una cameriera, i miei amici mi hanno preso molto in giro per questo. E pensa che il vincitore del Campiello Giovani, Andrea Zancanaro, ha scelto il vaso, e il suo vaso si chiamava, giuro, “Pantegana della laguna”, ed era a forma di topo, anche se a me sembrava piuttosto un maialino salvadanaio.

E poi che è successo?

Dopo la vittoria inizia a squillarti il cellulare, quando di solito ti chiama solo tua madre. Messaggi e chiamate per farmi i complimenti, anche da persone che non sentivo da un sacco di tempo.

Ah! Gli avvoltoi!

Esatto!

Quarta birra

I temi dei tuoi racconti affondano nella normalità della vita quotidiana. A volte si sente dire che la scrittura, non avendo costi per gli effetti speciali, dovrebbe concentrarsi su argomenti lontani dalla nostra vita di tutti i giorni, e dunque sarebbe preferibile una letteratura che ci permetta di spaziare in altri campi, meno “normali”. Che ne pensi?

In realtà la mia cultura letteraria viene dall’horror e dalla fantascienza, il mio amore per i racconti è nato da Horroriana, una vecchia raccolta di mia madre, con dentro Lovecraft, King e altri. Però in realtà non riesco a scrivere quelle cose, riesco a scrivere di persone e situazioni comuni. E comunque ogni narratore dovrebbe mettere in piedi un modo di raccontare e una visione del mondo personale, unica, anche se scrive di due persone che chiacchierano al bar.

Il tuo libro è pieno di case. Qual è il tuo rapporto con le case? 

Io sono molto casalinga, infatti adoro questo mestiere – se così si può chiamare – perché mi permette di stare a casa. Sono una tipa da finestre, mi piace guardare fuori le vite degli altri, e ho abitato tantissime case nella mia vita, le porto tutte un po’ con me.

Potrebbe allora diventare il tuo riconoscimento come scrittrice? La tua peculiarità?

Effettivamente il romanzo che sto scrivendo è ambientato in una casa di campagna, con una madre, una figlia e una nonna che quasi non riescono a uscirne. Ma prima o poi credo che ne uscirò anch’io. Sono pronta a uscire di casa.

Ultima birra

Com’è cambiata la tua vita dopo Wylie, il Campiello e tutto il resto? Che cosa ti aspetti?

 

Francesca Manfredi – Un buon posto dove stare – La nave di Teseo 2017 – 165 pagine – sedici euro

 

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