Bere birra è una delle cose più facili del mondo: la chiedi, la paghi e la bevi. Un po’ più complicato risulta fermarsi alla prima, o alla seconda, o alla terza, senza finire riverso sul pavimento chiedendo direttamente una flebo di fernet Branca.
Anche leggere libri è una delle cose più facili del mondo: li scegli, li paghi (o te li fai mandare a gratis, se, come dicono a Bologna, ci hai le bazze) e li leggi. Un po’ più complicato risulta capire esattamente quello che stai leggendo, senza finire riverso sul divano chiedendo direttamente una flebo di serie tv con i sottotitoli in italiano, ché non voglio concentrarmi troppo.
Per fortuna che c’è la nuova puntata di “Molte birre con…”, la rubrica che complica le cose già complicate. Dopo aver parlato di editoria americana con Giulio D’Antona, di criminalità organizzata con Simone Sarasso, di sciabattamenti del Novecento con Marco Rossari, di agenzie e riviste con Pastrengo, di racconti e Messico con Alessandro Raveggi, di Topolino e incomprensioni con Tito Faraci, di amore e antichità con Giorgio Fontana e di giochi di ruolo e bottiglie che esplodono con Vanni Santoni, oggi è il turno di Andrea Morstabilini, editor, scrittore e luminare, da qualche mese in libreria con Il demone meridiano, una storia di terrore e stupefazione, di mummie rubate dal museo di Paolo Gorini a Lodi e di scritture difficili ed evocative.
Per l’occasione, ci siamo incontrati nelle sale gotiche del bar Picchio a Milano, che ci sentiamo caldamente di consigliarvi, soprattutto adesso che arriva il bel tempo. Gli scatti sono, come al solito, di Alberto Cocchi, il fotografo che sta scalando le classifiche della simpatia e della professionalità.
Prima birra
Tu lavori in una casa editrice, di più, al Saggiatore, una casa editrice che pubblica spesso libri “alti”, qualunque cosa questo significhi (e ne parleremo meglio dopo), dunque sai meglio di tutti che il tuo è un libro difficile. Di difficile lettura, intendo. Non ti voglio chiedere perché l’hai fatto, non è interessante; più interessante è sapere per chi l’hai fatto. Quali sono le sensibilità che tocca questo libro?
La difficoltà del mio libro è una difficoltà solo linguistica, semplicemente perché uso un lessico e una sintassi desuete. È anche vero, però, che l’ossessione per la comprensione definitiva, etimologica, dizionariale non è un requisito necessario per leggerlo. Il mio intento era quello di utilizzare una lingua morta che avesse una capacità evocativa al di là di una comprensione precisa di ogni singolo termine e di ogni singolo costrutto sintattico. Nel leggerlo ad alta voce, o per il valore linguistico delle parole, si può superare la necessità di una comprensione che preveda il dizionario di Niccolò Tommaseo sempre a fianco.
Per quanto riguarda le sensibilità che entrano in contatto con questo libro, al di là dei temi, al di là dell’apparato linguistico che potrebbe far pensare a un tentativo di parlare solo a persone che conoscono la tradizione nera, gotica e i barocchi italiani, la mia volontà era quella di parlare a chi ancora crede che il fatto letterario si risolva nella lingua, non nello stile. Il mio tentativo è stato quello di andare oltre lo stile, perché ciò che mi interessa è quell’infinito, o infinitudine, presente nella lingua. Poi, certo, mia madre mi ha confessato di non essere mai riuscita ad andare oltre a pagina dieci, ma quello che spero è che non ci si fermi al dato della difficoltà linguistica.
Non volevo fare un libro volutamente difficile, ma utilizzare una lingua morta per parlare di materie morte. E non intendo solo materie narrative di tradizione nera o gotica (fantasmi, mummie, streghe, riti, evocazioni spiritiche), quanto proprio la materia letteraria, che è il regno dei morti per definizione perché è composta da voci che ci giungono da un altro tempo e da un altro luogo; nel migliore dei casi da nessun tempo e da nessun luogo.
Nel tuo libro scrivi e ti ispiri a temi ottocenteschi legati alla tradizione nera e gotica; qual è il tuo rapporto con questi temi? Perché ti affascinano così tanto?
Da che io ricordi, sono sempre stato interessato a questo tipo di materie. L’incontro fondamentale l’ho avuto al ginnasio, quando ho letto La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz; il suo mondo è di bellezza e bizzarria, dove la bellezza è indissolubilmente legata al dolore, al tormento. Anche Milton, Marlowe e quella letteratura inglese si muove in una regione dell’immaginario dove la bellezza si coniuga al tormento, la grazia alla perdizione, un reame all’insegna della carne, della sensualità, della morte.
Qual è il gancio che hanno questi immaginari su di te?
Credo sia una questione di sensibilità. Ci sono, come diceva Lovecraft, delle sensibilità che si sentono in distonia con il proprio tempo. Nel reame della letteratura, almeno, mi piace pensare che l’unico modo per apprezzarla sia essere in distonia con tutti i tempi; l’ottocento inglese, in particolare, è stata forse l’ultima grande epoca saldamente inscritta nel nostro immaginario, e ha guadagnato una capacità di astrarsi dal tempo e dal luogo preciso in cui è nata che mi ha sempre affascinato molto.
Seconda birra
Ogni libro, ogni racconto, ogni testo, chiede un certo grado di collaborazione al suo lettore. Qual è il grado del tuo libro? Ma soprattutto: in che misura bisogna riflettere sul quanto chiedere al lettore? Tanto? Poco? Si deve imboccarlo, o confonderlo? Ed esiste un “troppo”?
Il demone meridiano richiede un lettore molto attivo. Una delle primissime ispirazioni che ho avuto viene dalla citazione che apre il libro di Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, che dice: una verità è tanto più vera quanto è nascosta. È un’idea misterica, esoterica, ed è un’idea in cui mi sono sentito di credere molto. L’intreccio del mio libro è affondato sotto la lingua, confonde, crea specchi e simulacri nel tentativo non tanto di confondere il lettore solo per il gusto di farlo, quanto di renderlo parte attiva nella costruzione del testo.
Chiedo troppo? Non sta a me a dirlo, tuttavia il momento generativo della scrittura, ciò che mi ha comportato come studio, ricerca e sospensione di me stesso, per me è stato fondamentale. C’è quasi un momento medianico nel processo di scrittura, perdere la cognizione dello spazio e del tempo. Io posso solo sperare che la mia esperienza di scrittura sia la medesima di lettura per chi lo prenderà in mano e ne sfoglierà le pagine.
Prima di proseguire, bisogna parlare di Paolo Gorini, una figura centrale nel tuo libro. Chi era? E che tipo era?
Gorini è un nume tutelare a Lodi. Non puoi nascere, crescere e vivere a Lodi senza conoscerlo. È sicuramente molto meno famoso di scienziati come Efisio Marini, che trasformava sezioni di cadaveri in oggetti di arredamento; Gorini era anzitutto uno scienziato che voleva studiare l’anatomia umana, e visitare il suo museo è un’esperienza davvero incredibile, anche perché non era un mummificatore preciso, le sue mummie hanno una qualità orrorifica, non sono piacevoli da vedere, non hanno la compostezza egizia. Ci sono tante leggende attorno alla sua figura, come il maggiordomo/mummia che accoglieva gli ospiti, o il corpo mummificato della moglie a tavola con i commensali, che spesso non si accorgevano del trapasso della donna, da tanto sembrava viva. Per me è sempre stata una figura molto presente, e non si può cercare di scrivere un libro dell’orrore ambientato a Lodi senza parlare di Paolo Gorini.
Terza birra
Quando è uscito il tuo libro, Giuseppe Genna ha scritto un post in cui diceva cose tipo: “uno dei libri più decisivi di questi ultimi anni di lingua italiana”, “letteratura autentica” e “bentornata letteratura”. Ora, questi tipi di discorsi attorno a un oggetto culturale che, al netto di qualsiasi giudizio di valore, è senza dubbio complesso, non rischia di allargare ulteriormente lo scarto tra la Letteratura (che la gente “normale” non capisce) e tutto il resto? Lo senti questo rischio? A me, personalmente, il “Bentornata letteratura” fa un po’ paura.
Dunque. Io credo che la divisione, la frattura di cui tu parli, abbia tutta una serie di ragioni e responsabilità storiche, anche editoriali, perché, se ci pensi, anche non così tanto tempo fa, in cima alla classifiche c’era uno dei libri più ostici mai pubblicati, il Finnegans Wake di Joyce, e anche l’Ulisse è stato un grande successo di vendite. Credo che questo scarto abbia meno a che fare con la qualità, la struttura e il contenuto degli oggetti letterari, ma piuttosto con una slavina storica che non so quanto siamo in grado di arginare o modificare oggi; di certo c’è stato un progressivo allontanamento dalla letteratura, e spesso la si è scambiata con qualcos’altro.
E che cos’è questo qualcos’altro?
Non penso esistano sbarramenti letterari insiti nei testi. Chiunque, continuando con l’esempio di prima, può accedere al Finnegans Wake. Lo scarto risiede piuttosto nella percezione che si ha della letteratura, e la percezione è stata “educata” negli ultimi anni a orientarsi altrove, verso altri tipi di produzione, trascurando quello che, secondo me, è lo specifico letterario. Già Mark Twain, nel suo Huckleberry Finn, parlava della tirannia dell’intreccio. Oggi, l’intreccio è stato messo in una posizione predominante negli interessi letterari delle persone: la trama, l’evoluzione e le psicologia dei personaggi.
Quarta birra
Forse è una questione di comprensibilità, come se l’intreccio fosse appunto il gradiente di comprensibilità di un’opera?
Vero, perché l’intreccio, soprattutto quando è logicamente ricostruibile, e dunque scioglibile in una fabula, permette di avere una salda presa sul reale e di conferire un ordine logico al mondo. È accogliente, rassicurante, così come la psicologia del personaggio, che è una definizione che mi fa sempre un po’ sorridere, perché anzitutto non è un’invenzione del romanzo. Il fatto che questi elementi siano diventati gli unici a cui si presta attenzione, gli unici a determinare il successo o meno di un’opera, o anche solo la sua ricezione, mi sembra ponga la letteratura in uno scacco molto forte, perché se lo specifico letterario è la lingua, l’intreccio e la costruzione dei personaggi non lo sono, e le serie tv, per esempio, dimostrano bene che c’è chi lo sa fare molto meglio.
Le parole sanno fare altro, devono tornare a fare altro; l’unico modo che la letteratura ha per sopravvivere è tornare a fare quello che solo lei può fare.
Proviamo a ribaltare la classica regola delle narrazioni: show, don’t tell, mostra e non dire. Ecco, per una serie tv va benissimo, ma per la letteratura forse dovremmo ricominciare con il tell, don’t show. Dire le cose, invece che mostrarle.
Ultima birra
C’è però un rischio, e cioè che affermazioni di questo tipo sembrino vecchie, come vecchia può sembrare la scrittura del tuo libro. Nelle varie recensioni che ho letto, molte dicono cose tipo: è sorprendente che l’autore de Il demone meridiano sia nato nel 1983. Come per dire: è troppo giovane per scrivere così. Ma così come? L’essere vecchio e l’essere giovane, nella scrittura, mi sembrano categorie arbitrarie.
Dagli anni ottanta in avanti, è iniziato quel processo di cui parlavamo prima, che è un processo anche editoriale, non solo culturale. L’editoria ha compiuto certe scelte che hanno portato a certi risultati. E sì, c’è la percezione che questo tipo di scrittura sia vecchia, e per me è un complimento, non credo di avere un’anima particolarmente giovane. Non avevo diciott’anni nemmeno quando avevo diciott’anni, figurati se devo averli adesso.
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