Un mio caro amico ama ripetere che la prima volta che la vedi, scendendo verso il LAX, te la fai sotto dalla paura. Perché, dice lui, il canovaccio metropolitano luccica di inquietudini dantesche, invitandoti e al tempo stesso spaventandoti a morte con le prove che sembra avere in serbo per te, sperduto europeo giunto al lembo occidentale della Grande America. «La contea di Los Angeles è come un enorme telo da spiaggia», scrive Ryan Gattis in Giorni di fuoco (Guanda), «è piatta e si estende da nord a sud partendo dal porto, da San Pedro e Long Beach, fino alle colline di Pasadena e alla San Fernando Valley, e da ovest a est partendo dalle spiagge di Santa Monica fino al deserto della San Gabriel Valley». Un ciclopico formicaio per piccoli esseri che giù, nei blocks tagliati dalle highway a sei corsie per carreggiata, si muovono vivendo vite che a noi sono giunte attraverso le pagine nere di James Ellroy, le inquadrature oniriche di David Lynch e le note di mille e più musicisti che hanno cantato ogni sfaccettatura della città degli angeli.
Mentre sulla costa est, nella città americana del libro e dell’editoria, il debutto più chiacchierato degli ultimi anni resta Città in fiamme di Garth Risk Hallberg, un talentuoso scrittore, spilungone pelato dal corpo coperto di tatuaggi e dal sorriso facile, dà alle stampe un grande libro sulla ferita bruciante, tutt’ora non sanata in ogni angolo degli Stati Uniti, che ha sfregiato L.A. negli ultimi cinquant’anni. Giorni di fuoco, romanzo che ha richiesto due anni di indagini sul campo, torna indietro nel tempo regalando ai lettori un ritratto multi-sfaccettato della megalopoli californiana durante i suoi giorni peggiori, la settimana di fuoco in cui la città fu teatro di una vera e propria guerra fra gang che causò morti, feriti e danni per oltre un miliardo di dollari. La miccia che incendiò Los Angeles fu il celebre caso Rodney King, tassista afroamericano pestato da quattro poliziotti bianchi nel marzo del 1991. Quando la giuria, l’anno successivo, giudicò non colpevoli i cops dell’LAPD, in città scoppiò il caos. Qualche giorno dopo arrivò la Guardia Nazionale.
Hooks
Ryan Gattis ha esposto la sua idea di scrittura in un TED Talks, articolandola in cinque punti essenziali e un’attitudine generale. Il primo punto, che lui chiama hooks, concerne tutti quegli elementi che fanno presa sul lettore. Sono gli ami arcuati contenuti in un testo, grazie ai quali l’autore attira l’attenzione di chi in libreria adocchia la copertina di un libro, lo sfiora, ne legge la quarta e lo sfoglia rubando qualche frase o uno scampolo di dialogo. Giorni di fuoco si presenta letteralmente pieno di ami, fin dal libro stesso, la cui versione italiana è stata curata in modo esemplare da Guanda: pagine nere a dividere le sezioni del libro, una copertina esplosiva e un’impaginazione dei capitoli a dir poco accattivante. Ma non è soltanto nell’estetica che il best-seller di Gattis, già destinato a diventare la base di una serie TV curata dalla HBO, è accattivante. È l’argomento stesso, la caduta di una città nella follia violenta e incendiaria, a stregare, a incuriosire. Che cosa successe a L.A. in quei giorni, nei quartieri di dominio delle gang afroamericane e ispaniche? Chi appiccò gli incendi che devastarono intere aree della metropoli? Chi venne ucciso sfruttando l’assenza della legge in strade dimenticate dai poliziotti?
Ryan Gattis ha deciso di raccontare quei giorni attraverso le voci di numerosi personaggi, dentro e fuori le gang, fra le fila dei pompieri impegnati a spegnere incendi sotto le fucilate e dal punto di vista di coloro che vedono L.A. come una città «fuori di testa. Completamente andata» e dalla quale vogliono scappare in un modo o nell’altro. La sinfonia di Los Angeles musicata da Gattis è composta da molte voci e dai rumori più sfrenati, quelli della guerriglia e della violenza. Ma lo scrittore americano è stato bravo nell’evitare il cliché, perché di quei giorni, ancora oggi, si parla soltanto in termini di opposizione fra gang nere e poliziotti bianchi.
È nei quartieri di quegli anni che esplode il gangsta rap, nelle strade afroamericane di Compton, in piena South Central, vale a dire una delle aree più difficili dell’intera metropoli. I testi infuocati dei N.W.A., band seminale del genere, non fecero che gettare benzina sul fuoco, rivelando al mondo attraverso la musica lo stato d’animo dei giovani neri dei quartieri più poveri. Se scrittura, cinema, ma soprattutto musica hanno messo in luce la voglia di rivalsa razziale proveniente da questi blocks, Gattis ha spostato la focalizzazione sui vicini sobborghi di Lynwood, a maggioranza ispanica. «Io sono messicano» dice uno dei personaggi del libro: «la razza nascosta».
Unespected
Il libro si apre con quello che gli sceneggiatori della vicina – ma al tempo stesso lontanissima – Hollywood chiamerebbero “incidente scatenante”. Ernesto Vera, giovane messicano di Lynwood che lavora sodo e onestamente per uscire dal ghetto, viene ammazzato come un cane per vendetta da una gang rivale. Gattis apre il romanzo con un episodio inaspettato, portandoci all’interno del mondo delle gang ispaniche dalla porta peggiore: quella della violenza fine a se stessa, della ritorsione infinita che mutila una famiglia dietro l’altra a colpi di rivoltellate sparate durante missioni punitive che ricordano i livelli di GTA per follia e numero di morti che si lasciano alle spalle. L’inaspettato, il destino crudele, la Moira, attraversa tutto Giorni di fuoco, dando la sensazione che nulla sia al sicuro quando una città come L.A. sprofonda nell’anarchia. Come recita il titolo originale, All Involved, nessuno rimane fuori dal turbine di violenza che si abbatte sulle strade in seguito alla celebre sentenza. Quando la legge viene meno, le regole sono dettate dalle necessità dei cholo, termine che il glossario alla fine del libro illustra bene, talmente bene che possiamo vedere questi criminali di fronte a noi, in ogni momento: «Gangster chicano, che generalmente sfoggia un look tipico della California del Sud: camicia di flanella, canottiera e pantaloni kaki».
Subito le note di Kid Frost escono dalle casse dello stereo. Il più famoso rapper chicano nel 1990 pubblicava il suo maggior successo discografico: Hispanic Causing Panic. Nel romanzo di Ryan Gattis risuona in lungo e in largo il mantra delirante di ogni gangster di Lynwood con sangue messicano nelle vene: «La clica es mi vida!». La clica, la mia gang, è la mia vita. La mia razza e il mio quartiere sono il mio unico interesse, vivo soltanto per loro. Realtà scioccante in tale città cosmopolita, Babele entro i cui confini sono rappresentate centoquarantasei nazioni e vi si parlano novanta lingue. La Raza è tutto.
Cause and effect
C’è una logica illogicamente perversa nel romanzo di Ryan Gattis: chi la fa l’aspetti. Eredita della legge della strada, questa legge attraversa le quattrocento pagine del romanzo determinando vita e morte di ogni personaggio. Nessuno è al sicuro, perché nella narrazione di Gattis nulla resta impunito. Tutto ritorna. Se questo terzo principio dello scrivere è innegabile, lo stesso non si può dire delle coscienze dei popoli e dei cittadini.
Nel 1966 Thomas Pynchon si chiedeva se dopo i fatti di Watts (altro tempo, altro distretto, altra rivolta; medesima violenza) la situazione fosse migliorata. No, urlava a gran voce sul New York Times l’autore de L’arcobaleno della gravità. Gattis scrive, raccontando le riflessioni di un personaggio di fronte ai disastri causati dalle rivolte: «E niente è cambiato da allora. Quindi quant’è? Vent’anni tra una rivolta razziale e l’altra? Abbastanza perché tutti abbiano dimenticato l’altra volta, giusto? Perché adesso è il millenovecentonovantadue e ne sono passati quanti? Una trentina, tipo? Forse un po’ meno. È lo stesso. Da come sta bruciando, era ora». Per interrompere il flusso continuo servirebbe una reazione a quanto è successo, servirebbe innescare un meccanismo di causa-effetto. Eppure, «Los Angeles ha la memoria corta. Non impara mai niente».
Specific Details
Dal glossario ai termini in lingua originale passando per le descrizioni minuziose delle tecniche di street art, Giorni di fuoco è un condensato di dettagli. Il lungo lavoro di ricerca, al quale l’autore si è dedicato e che gli ha permesso di penetrare a fondo l’universo della L.A. di quegli anni, ha generato un romanzo specifico, informato sui fatti, gigantesco nella sua capacità di restituire a generazioni che non hanno vissuto quel periodo e le rivolte uno spaccato di vita ricco di particolari. Come detto poc’anzi, la sensazione è che le cose non siano cambiate più di tanto, nonostante gli sconvolgimenti storici e tecnologici degli ultimi decenni. Pur essendo un mondo lontano (americano), una nicchia difficilmente conoscibile (il crimine organizzato delle bande di quartiere) e un momento di assoluta inquietudine (rivolte cittadine) il mondo raccontato in Giorni di fuoco è perfettamente riconoscibile anche da noi, abitanti del 2016. Basta guardarsi attorno per poter riconoscere nella realtà odierna gli stessi semi dell’odio che Gattis descrive, siano questi propugnati da leader politici o dai peggiori criminali raccontati da libri d’inchiesta e serie televisive.
L’opera di Gattis è talmente precisa che un paio di artisti ne hanno realizzato dei dipinti. Essi rappresentano uno degli apici del romanzo: il masterpiece del graffitaro FREER, in fuga da L.A. ma determinato a lasciare una testimonianza in favore del suo amico Ernesto Vera, ucciso nelle prime pagine dell’opera. I disegni, realizzati da Evan Skrederstu e Steve Martinez della UGLARworks, sono visibili sul sito dell’autore.
How did it feel?
Ultimo punto della cinquina di regole di regole di scrittura di Ryan Gattis è l’espressione dei sentimenti. Come si sentono i protagonisti in ogni punto del romanzo? Per l’autore americano è di fondamentale importanza riuscire a comunicare lo stato d’animo di ogni personaggio, tentando in questo modo di donare umanità e spessore a ogni parte della storia. Come si sentono i personaggi di Giorni di fuoco? Si potrebbero spendere molte pagine sulle loro emozioni e sui loro desideri, ma ciò che traspare in ogni momento è il sogno di libertà che ognuno di loro incarna. Tutti quanti sono imprigionati dalla città degli angeli: chi dal proprio quartiere, chi dalla propria gang, chi dalla propria pazzia, chi dalla droga, chi dalla bieca sete di potere, chi dal destino, chi dalla propria razza, chi dalle condizioni sociali.
Ognuno di loro chiede libertà. Anche chi non è cosciente del proprio stato di prigioniero degli eventi. Ogni personaggio di Giorni di fuoco fa proprio il grido, ripetuto e ossessivo, di Zack de la Rocha, frontman dei Rage Against The Machine, band di culto che in quegli anni pubblicava il proprio devastante e omonimo debutto: «Freedom!».
Autenticità
Per scrivere bisogna essere autentici, dice Gattis. Per essere liberi pure. Tutti i personaggi del romanzo sono coinvolti nei fatti che sconvolsero Los Angeles nel 1992, ma più di ogni altra cosa essi sono stravolti dalla sofferenza. Una sola costante attraversa le loro vite: il dolore. Nessuno è al riparo dalle conseguenze scaturite da odio, ingiustizia e rancore; All Involved identifica nel dolore la componente umana trasversale, l’unico vero fuoco autentico di cui tutti facciamo esperienza a prescindere dal colore della pelle, dalla terra d’origine e dalla nostra storia.
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