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Scrivere come atto di ricordare. Intervista a Claudia Durastanti

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Incontro Claudia Durastanti una domenica mattina di maggio in cui Londra è invasa dal sole e dal profumo dei glicini.
A Columbia Road c’è il mercato dei fiori, e nelle stradine laterali ogni piccolo spiazzo è buono per improvvisare un bar che venda caffè take-away, croissant e vinili. Ci sono le bancarelle con piante esotiche e iris recisi, ma basta voltare lo sguardo per trovare tazze di latta, vecchi abiti fatti a mano e cappelli.
Percorro a piedi tutta la strada che porta a Broadway Market. Oggi non c’è il mercato, ma London Fields, proprio alla fine della strada, è un ingresso a un prato verde pieno di cani lasciati liberi, bambini che si rincorrono e famiglie che si preparano al barbecue della domenica.
Pensavo avrei riconosciuto io Claudia – come poteva essere altrimenti – e invece mentre guardo in aria sento una voce che mi dice: “Devi essere tu, siamo le uniche due con un foulard in testa”. Camminiamo fino al canale, prendiamo una fetta di plumcake e un caffè americano. Ci sediamo per terra.

Se ti dico “casa” cosa ti viene in mente? Te lo chiedo due frasi che ho letto in “Da Mario Merola a Kendrick Lamar: storia d’amore senza nessuna separazione”, il tuo racconto in Quello che hai amato. Undici donne. Undici storie vere (Utet), ovvero “Ero riuscita a diventare straniera a casa mia” e “Quando mi chiedono da dove vengo, io non so mai cosa rispondere: sono nata americana e per tutto il resto della mia vita ho cercato di non diventare italiana, ma temo di aver svolto con imprecisione entrambe le cose”.
Sei nata a Brooklyn da genitori italiani, sei tornata da ragazzina in Italia in un piccolo paese della Basilicata, ora vivi a Londra da diversi anni. Dov’è casa?

Ci pensavo stamattina, perché domani parto, torno a New York. E per quanto sia forte la sensazione di arrivare là e dire “Sono a casa mia”, in realtà non è così. Sono riuscita nell’impresa bizzarra di non identificare più un luogo come casa, di vedere tutti i posti come stazioni di passaggio, e penso che questo sia funzionale al fatto di scrivere. È una questione di metodo: per me scrivere è soprattutto l’atto di ricordare, di ricostruire un luogo, e avviene sempre quando quel posto lo lascio. Quindi se voglio continuare a scrivere, se voglio continuare a pubblicare libri, in un certo senso devo generare una perdita, un senso di spaesamento. Ho avuto un’esperienza abbastanza strana, mi sono trasferita da Brooklyn a un paese sperduto della Basilicata. È stato buffo, principalmente per questioni linguistiche. Sono passata dalla Lingua per eccellenza, quella più forte, al dialetto, e c’era questa difficoltà estrema a farmi capire. Questi passaggi mi hanno dato tantissime cose. Quando sono arrivata in città, ci sono arrivata che mi innamoravo di tutto. Ed è stato funzionale alla scrittura. Non avevo né corruzione né malizia, era tutto importante. È una cosa che mi manca delle prime cose che scrivevo, la capacità di innamorarmi e di trovare tutto importante, e non avere quel cinismo che porta le cose che scrivo ad essere spesso troppo celebrali. Ero nata nella Città per eccellenza e sono arrivata nel Paese per eccellenza. Ma nessuno di quei posti mi sembra casa. Non penso a quel piccolo paesino come casa, non penso a Londra come casa, non penso a New York come casa. La casa è banalmente quello che viene sempre con me, la scrittura. Ho sempre scritto lasciando quei posti. Infatti qui sento un senso di irrequietezza, perché non ho mai scritto di Londra e vivo qui da cinque anni.

Secondo te non avere una radice, non sentirsi appartenenti a un posto, in quale misura determina ontologicamente una persona? È possibile riuscire a comunicare davvero se non si appartiene ad alcun luogo? O secondo te il fatto di non sentirti radicata ti permette paradossalmente di parlare a tutti, su più livelli?

Il fatto è che quando noi diciamo di venire da un posto, c’è una realtà oggettiva. Cioè sulla tua carta di identità c’è scritta una cosa, un nome. Ma conta tanto anche come tu scegli di rappresentarti, quello che tu scegli di inventare su te stesso. Non so se riguarda anche gli studi che uno fa, però ricordo che quando mi sono iscritta ad Antropologia avevo questo senso di felicità quando i miei docenti mi spiegavano che c’era sempre una resistenza dell’individuo all’attribuzione. E anche quella è una sovrastruttura, un’ossessione patriottica. Penso a quello che sta succedendo ora in America, “make America great again”, questa iper americanizzazione legata a Trump. È anche quella una questione di fiction e di invenzione. E quando ti ritrovi a inventare e creare delle storie, tu vuoi parlare al maggior numero di persone possibile, quindi un po’ ti spaventa limitare il racconto a un determinato luogo geografico. Uno dei grandi problemi che ho avuto con il cantautorato italiano degli ultimi quindici anni per esempio, è stato questo eccesso di toponomastica, che era bizzarro perché all’improvviso le canzoni erano popolate da vie, da piazze Verdi, da San Lorenzo.

Un leggero accenno ai cani (rido)

Ma anche Calcutta! (ride)

Io Calcutta non lo sopporto!

Dico: com’è possibile che a un certo punto irrompe questa vocazione così localistica e particolareggiata? È interessante, ovviamente, perché ti dà dei ritratti, ma se io penso a come ho scritto, non ho mai avuto un’ambizione – uso questa parola così limitata – e tutto quello che ho fatto è stato un po’ un controsenso. Quando è uscito il primo libro effettivamente era totalmente ambientato in America. Anche il secondo era scritto da una ragazza che era più italiana che americana, era scritto per un pubblico italiano e non sono stata tradotta in inglese. (Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra e A Chloe, per le ragioni sbagliate sono entrambi editi di Marsilio, ndr) E mi sono basata sulla fiducia. Cioè tra quell’America là, tra quella Newark che descrivevo, c’erano più somiglianze con Pavia che tra la Sicilia di Gesualdo Bufalino e Pavia. Mi dovevo e mi devo basare sull’assunto che tutto quello che faccio fosse comprensibile per il maggior numero di persone possibile. Quando ho iniziato a scrivere ho pensato a un target limitato. Persone come me, dei complici, post adolescenti, ossessionati da un determinato tipo di musica, di cinematografia. Invece ho perso quest’impostazione. È strano, perché nel libro che uscirà a ottobre per Minimum fax – ambientato a Roma, la mia prima storia italiana – ci sono i quartieri, c’è una certa periferia. Però l’altro giorno rileggevo l’ultima stesura ed ero contenta perché ho detto: scrivere di Roma è la cosa che terrorizza di più, forse, cioè può far davvero paura, c’è sempre un certo retaggio storico, Pasolini, c’è tutto questo peso sulle spalle del dover fare un racconto politico e sociologico. Se invece racconti Roma come uno spazio di transizione, come qualcosa di tropicale… non è che mi sono buttata sul realismo magico (ride), però davvero era una cosa quasi onirica. Ho fatto una cosa estremamente radicata al luogo, ma penserei di aver fallito se ne uscisse un ritratto su Roma.

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E invece come la mettiamo con la lingua? Una cosa che mi perseguita molto è il concetto di incomunicabilità, e quando leggo libri di persone bilingue, o di persone che sono nate in un posto e si sono trasferite da altre parte – penso ad Aleksandar Hemon, Teju Cole, ma anche Gary Shteyngart – mi chiedo cosa si provi. Senti di poter comunicare davvero in una lingua che è tua ma che è anche la metà di quello che sei? E c’è un’altra cosa a cui pensavo. So che tu fai anche la traduttrice, e leggendo Purity di Jonathan Franzen mi chiedevo: quando leggo Purity in italiano sto leggendo Franzen o sto leggendo Silvia Pareschi che fa suo Franzen, e lo modella, lo tramanda, lo interpreta e ce lo rimanda in un modo nuovo? Quanto posso dire di amare Franzen se non ho mai letto Franzen nella sua lingua? Tu senti di riuscire a comunicare davvero, essendo quasi in una bolla tra due lingue e due culture?

Sì, ho una posizione nettamente impura e appena inizio a scrivere in realtà sto tradendo me stessa, perché scrivo in italiano, però la struttura di tante azioni e del pensiero è in inglese. E viceversa, adesso che ho iniziato a scrivere in inglese mi rendo conto che saccheggio dalla lunga italiana. Però, anche là, c’è stato un estremo atto di fiducia. Ogni lingua è uno scontro tra varie influenze. Cinicamente è stato anche un vantaggio, perché poter saccheggiare da due bacini abbastanza forti, da due lingue diverse, è bello. Però vedi, la Pareschi, che è una bravissima traduttrice, ha fatto un ottimo lavoro. Non dico che abbia migliorato Franzen, però magari gli ha fatto perdere questa cosa “piana” che io lamento nella sua scrittura e di cui parlavamo mentre venivamo qui. Banalmente: perché scrivo? Perché voglio scrivere una frase bella. Ne parlavo con una mia amica scrittrice che diceva: “I do this for the sentences”, ed è vero! Lo fai perché vuoi che ci sia un bel suono. Scrivo anche con l’orecchio, se scrivessi una cosa che ha un suono brutto non sarei contenta. È difficile, ovviamente, perché tutta la scrittura non può essere solo una serie di assoli. Io per esempio odio il metal, quindi pensa che affronto quando mi hanno detto che quello che scrivo sembra un pezzo metal, tutto pieno di tu-tu-tu-tu. Però dico: che lo facciamo a fare se no?

Quindi la traduzione non è solo un tradimento

Non dobbiamo sottovalutare il fatto che la traduzione venga spesso vista come un tradimento, però sì, è solo una parte. Per me si tratta anche di un miglioramento. È un mestiere artigianale, e credo molto in questa cosa. Non solo di riuscire a rendere il testo migliore nella lingua di arrivo, ma anche a migliorarlo più che puoi. Non ho una visione pessimista sul fatto di stare tra due fuochi, credo solo che possa rendere la letteratura più interessante.
Sai quando si parla di letteratura di seconda e terza generazione? Sono definizioni che non amo molto e mi annoio quando sono cose che si riflettono solo a livello tematico e non nel linguaggio. Hai letto Atticus Lish?

Ne ho sentito molto parlare – e molto bene – ma non l’ho letto.

Io ho letto sia il testo originale che la traduzione. Deve essere stata una cosa colossale, perché lui ha fatto una cosa così viva, così urticante. Parla di un’emigrata cinese di origine musulmana ma non c’è solo il tema dell’immigrazione, lo riesce a far riflette nelle scelte linguistiche che fa. Quindi essere bilingue, trilingue, quello che vuoi, non è importante se questo poi non si riflette in quello che scrivi. In alternativa diventa una cosa schematica, alla Unicef-Benetton.

Ho letto un tuo articolo scritto su Biancamano2, il blog di Einaudi, in cui parli di Boy, Snow, Bird, il libro di Helen Oyeyem, in cui dici che tutto il libro ha come sottofondo la domanda: Chi sono io? Ecco, chi sei tu? Non voglio tirare fuori l’espressione cittadino del mondo, perché mi viene da vomitare ancor prima di pronunciarla, però in un’epoca in cui possiamo essere chiunque, vivere ovunque, in cui io mi posso sentire a casa qui, senza che ovviamente questo sia un fatto nemmeno lontanamente possibile e reale, ogni tanto mi porta a fare i conti con la domanda delle domande. Tu chi senti di essere?

Facendo determinate letture, o comunque stando al passo con quella che è la sociologia, la filosofia di massa, tutto si basa tutto sulla fluidificazione delle identità, sul fatto che tu puoi ascriverti a qualsiasi cultura tu voglia, e che ognuno segua e guardi anche alla rappresentazioni di se stesso, che va al di là dei dati oggettivi. Il punto è che in realtà questo funziona soprattutto da un punto di vista teorico, molto affascinante, ma non si è risolta la nevrosi. Lo vivo molto questo fatto, che per quanto uno voglia disaffrancarsi dalla staticità in un luogo, ci sono però delle aspettative sociali su di me. Io sono una donna 32 anni e queste aspettative esistono: dal non essere in coppia visto come un fallimento, da una maternità come una cosa che a un certo punto devi risolvere per forza, dalla stabilità…

Ti capisco benissimo, perché anche io mi scontro molto con queste aspettative sociali, che sono quasi vere e proprie pressioni a volte. Un po’ le rifuggo, un po’ ne faccio inevitabilmente parte.

Ne parlavo l’altro giorno con alcuni amici: il fatto è che pensavamo di essere più intelligenti di così, nel senso che con la vita che facciamo, con le cose che scriviamo, con la letteratura che amiamo, pensavamo che questi problemi così contingenti non sarebbero stati reali per noi. Però in realtà ce li ho da qualche parte nella testa, per cui in realtà quel “chi sono io” probabilmente nasce dalla frizione tra una rappresentazione di me totalmente libera e una seria di paure e sovrastrutture. Io quando ho iniziato a scrivere, ho iniziato a farlo per rispondere a due domande. Una delle cose a cui non mi sono mai rassegnate è che tu non sei la tua famiglia, e io ho avuto un percorso biografico abbastanza particolare. Vengo da una famiglia particolare. Mia madre ha cresciuto me e mio fratello, era una sottoproletaria, con un handicap importante, in un piccolo paesino in cui non avevamo assolutamente famiglia, quindi tutta la prima parte della mia vita è stata una storia di emarginazione. Sin da piccola, dai sei-sette anni, vedevo già il futuro che mi era prescritto. Perché nei paesini è così: c’è il matto, la prostituta, il prete, il medico e poi c’è quella che rimarrà incinta a sedici anni o quella che vivrà di sussidio o quella che non avrà accesso alle cose. Sin da subito in me c’è stata una ribellione fortissima a questo destino che mi era prescritto, e l’ho attuata scrivendo. Quindi se penso a chi sono penso di essere una persona che ha scelto come strumento di libertà di emanciparsi da una condizione esistenziale attraverso la scrittura. In realtà devo fare ancora i conti, non con quelle cose, ma con l’idea che dovevo diventare un’altra persona o con quello che ci si aspetterebbe da me in quanto donna di 32 anni che vive in una determinata città. Credo che dallo scontro tra quello che vuoi e quello che invece ti era prescritto esca fuori la scrittura e quindi la mia identità.

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Che lettrice sei stata? Come ti sei avvicinata ai libri? Hai avuto il percorso di lettrice in ogni sua tappa, dalla letteratura per l’infanzia a quelle per l’adolescenza? Io ho iniziato tardissimo a leggere, e c’è un mondo incredibile che non ho mai affrontato. E questo fatto, a volte, mi sembra costituisca un handicap grosso appiccicato a me.

E invece no. Non è importante aver letto tutto. Se parli con molti scrittori, o con le persone che sono finite a lavorare attorno ai libri, pochi hanno avuto una formazione “classica”

Giusto Piperno, magari…

Ecco, esatto, forse lui. Io mi annoiavo, veramente tanto. Mi sentivo fuori posto. A casa mia i libri c’erano, anche se c’è una cosa strana. Mia mamma non sente, è sorda, ma aveva questi libri che parlavano di musica. C’erano libri su Bob Dylan, su Patti Smith… Io all’inizio pensavo che Patti Smith fosse una poetessa, perché avevo questo suo libricino, che ancora conservo. Leggevo queste poesie che erano aggressive, sboccate. Avevo sette anni, e ricordo di essere rimasta incantata dal suono, ne ero molto affascinata, ma non leggevo solo queste cose. Mia mamma aveva prevalentemente libri di controcultura, aggressivi, che parlavano di figure marginali, di carceri. Il primo libro che ho letto è stato Ultima fermata a Brooklyn. Ho marinato la scuola per leggerlo. Non volevo andare a scuola, ho fatto cento giorni di assenza.

Cento giorno di assenza? (rido)

Sì, prendevo lo zaino, dicevo a mia mamma e a mio fratello: Io vadoooo e invece no, andavo in soffitta e leggevo. Ho pescato quel libro perché c’era scritto Brooklyn nel titolo e sulla copertina c’era una tizia che veniva dal film ed era bionda. A me sembrava Marilyn, e per me Marilyn era una cosa americana. Io volevo tornare in America ogni giorno, non volevo assolutamente stare a Gallicchio, allora ho iniziato a leggere questo libro e mi ricordo, mentre lo leggevo, che andavo a cercare sul vocabolario “marchetta”, “benzedrina”, “culattone” (ride).
Mia madre quando ha visto che avevo letto questo libro non si è arrabbiata per niente e anzi mi ha detto: bene, prima impari e meglio è, la vita è questo.
Certo, io volevo che mi leggesse le fiabe, e me le leggeva. Mi leggeva i fratelli Grimm, poi ero appassionatissima di fumetti, leggevo tutti i Topolino, mio fratello aveva gli X-Men, leggevo un sacco di cose che erano adatte alla mia età, ma non c’erano altri libri in casa se non quelli di mia madre. Non c’erano vie di mezzo, o i fumetti…

… o le marchette

O le marchette, ecco. (ride) Tutte le mie storie all’inizio, mi fanno pure tenerezza ora, erano cose disperate, di strada, gotiche, dove tutti morivano di stenti. Ci ho messo un po’ ad emanciparmi da quella cosa, perché per me la letteratura non era vera se non dava un posto a chi non aveva un posto.
Poi quando incontri scrittori alla Piperno, che parlano della letteratura come di una cosa generosa, in cui la rappresentazione solo del male è falsa… Insomma io non volevo essere generosa, io volevo risolvere i miei problemi, quindi ho iniziato a scrivere per quel motivo, per me era tutto catartico.
Oggi sono abbastanza pacificata da rendermi conto che sono stata fortunata, perché al Mucchio ho avuto ottimi caporedattori che mi dicevano di resistere al narcisismo o di pensare che comunque quello era funzionale alla mia esistenza nel mercato. È ovvio, i libri sono prodotti che si vendono, ma noi lo facciamo per comunicare con gli altri. Anche il pezzo più insignificante di non fiction, anche la recensione più sfigata, deve essere fatta in quest’ottica, non dico di servizio, ma nell’atto generoso di comunicare qualcosa agli altri. Quindi penso che nella mia scrittura il passaggio più importante sia stato quando mi sono resa conto che non scrivevo cose solo per curare me stessa ma era anche per curare gli altri. Una delle cose più belle che ho fatto è stata quando sono andata a fare una lezione in carcere. È stato un bell’incontro che è servito più a me che a loro. La tipa che lo organizzava mi ha detto che molte persone che andavano in carcere a parlare di libri erano, anche giustamente, molto intimidite, e si arroccavano sulle loro posizioni, oppure iniziavano a dare delle lezioni puramente didattiche in cui rimarcavano vuoi o non vuoi il loro ruolo di scrittori, inibendo l’altro. Io mi ricordo che ho fatto una lezione su David Foster Wallace e Sylvia Plath, ma per dei motivi specifici: pensavo agli scrittori che hanno una funzione liberatrice nella mia vita. Io non relego assolutamente Sylvia Plath all’ambito confessionale. La scrittrice è più forte del destino, quindi tutta quella sociologia della ragazza interrotta non mi interessava.

A me Sylvia Plath piace tantissimo e mi incazzo quando ne esce solo questa versione di “depressa”, “pazza”, o qualsiasi altro aggettivo. Voglio dire: prima di tutto era una donna che scriveva.

Quando l’ho letta ho letto solo le sue poesie, e all’inizio non sapevo altro. Ricordo che ne ho parlato, ed è anche una scelta particolare perché voglio dire, ho portato una scrittrice di quel tipo in un contesto di detenzione, ed era rischioso, invece è andata bene.
(pensa) Poi, vedi, con tutta la retorica della “new sincerity”, David Foster Wallace che da scrittore quasi da canone adesso sembra essere diventato il più sfigato del mondo perché diceva che bisognava capire gli altri… Prendi Questa è l’acqua: da quando l’ha citato Renzi praticamente è come se Wallace fosse il padre delle gramellinate, che è una cosa che io dico: ma come siamo arrivati a questo punto?

Questa foto è stata presa qui: https://it.pinterest.com/pin/73957618858080485/
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Di Franzen mi piace questo, e anche in Purity lo vedo, e cioè non solo il desiderio di essere rilevante in un sistema in cui è impossibile esserlo, ma quella progressione generosa nel racconto. Voglio dire, intrattenimento non è una parola volgare o brutta..

Anzi, io leggo perché mi diverto, mi fa stare bene

Certo, perché ti da un altro rapporto con il tuo tempo, con la tua vita, con la solitudine. L’altro giorno parlavo con un mio amico che lavora nell’arte contemporanea, e lui mi diceva: è incredibile. quando all’inizio si è così staccati dall’ambiente, sei così ingenuo che vuoi fare solo cose belle, non hai vergogna di usare la parola “bello”, di fare qualcosa che piaccia a qualcuno. E io mi ricordo di una cosa che è successa quando ho scritto il mio secondo libro. Improvvisamente mi è successa una cosa terribile, che non è tanto il pensiero della classifica – magari – ma ti entra in testa la critica, il voler essere importante e rilevante. E questa cosa ti stacca tantissimo dal tuo lavoro, e ci metti una vita a ritornare alla tua intenzione originaria di voler fare una cosa bella, che piaccia, e che faccia dire a qualcuno: sono contento di aver letto questo libro. Iniziano ad arrivare tutta una serie di condizionamenti. Se sei bravo e sei capace di tenere il controllo, sono cose che ti possono migliorare, altrimenti ti distraggono tantissimo. Ed è triste quando perdi la capacità di dire che volevi fare una cosa bella. È un momento angosciante e malinconico.

Ti faccio una domanda che faccio sempre quando intervisto un autore, perché credo che possa farci riflette un po’ sulle nostre scelte. Due anni fa a Parma c’è stata un’alluvione che ha sommerso di acqua e fango una parte della città. Mi sono trovata a fare in fretta e furia uno zaino con dentro alcune cose per poter passare un paio di notti da amici. Ho preso tre libri e li ho infilati nello zaino, e alla fine lo zaino era troppo pieno, ho dovuto fare una cernita su ogni cosa. La sera, a casa di quegli amici, ho guardato l’unico libro che avevo scelto, e ho di fatto capito che quella scelta non era banale, significava che se avessi dovuto leggere un solo libro nei successivi trenta giorni, avrei scelto quello. Se andasse a fuoco il tuo palazzo, quali libri di quelli che hai in casa porteresti?

È una scelta istintiva. Ti posso dire i libri che mi piacerebbe aver avuto, e che sono i libri che rileggo in continuazione. Conosco persone che dicono: io non rileggo mai un libro, invece trovo che sia una cosa bellissima, perché la letteratura è tutto un rapporto con la temporalità, e avere dei libri che porti sempre con te e sono volutamente dei romanzi mondo è una cosa bella. Porterei Underworld di DeLillo, che è un libro che mi ha cambiata. Mi ricordo distintamente una Claudia che c’era prima e una Claudia dopo quel libro. E questa è una delle cose più belle che si possa dire di un libro, credo, cioè che una storia ha un’azione trasformativa. E non ha cambiato solo il modo in cui scrivo, ma anche come guardo il mondo. Mi ha trasfigurata.
Quindi DeLillo, e poi forse… (ci pensa) Le onde di Virginia Woolf, per lo stesso motivo.

Oddio, se mi dici Virginia Woolf mi si apre il cuore.

Sì, Le Onde è un libro infinito. Mi fa impressione, mi sembra quasi esoterico. L’ho riletto l’estate scorsa, sia in italiano che in inglese. La traduzione di questo libro è una delle cose che mi fa più impressione perché è riuscitissima. Con lei ho avuto proprio uno shock fisico, mi piace tantissimo quando i libri poi li senti fisicamente, quel libro ogni tanto quando lo leggo e lo rileggo lo devo mettere da parte perché tremo, e quello è bello. Sì, porterei Le onde perché è il libro che mi ha insegnato come irrompere nel mondo esterno, nella coscienza e viceversa. E poi porterei The beauty of the husband di Anne Carson.
Sai cosa c’è? i libri dopo un po’ si perdono. Nelle prime interviste ero molto precisa. Dicevo che DeLillo mi aveva dato delle cose, I sotterranei di Kerouac mi aveva dato il ritmo e che Fitzgerald mi aveva dato lo stile. Oggi, ad anni di distanza, non riuscirei più a dire queste cose.
Dopo un po’ cambi, come persona, e i libri si perdono. E questa è una cosa che mi dispiace.

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