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Stephen Amidon, l’uomo dal linguaggio universale

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Photo credit: https://unsplash.com/@iammrcup
rielaborata da Federico Tamburini

 

Prima di incontrare Stephen Amidon, avevo una sola cosa in mente: come avrei fatto a porgli domande che non riguardassero Il capitale umano?

Dopo averlo letto e dopo il film di Paolo Virzì non riuscivo a superare quel senso di ammirazione che l’universalità narrativa sempre mi provoca. Pur avendo amato il libro, forse non ne avevo intuito subito la grandezza, così ero rimasta a lungo a rifletterci, stupita del come un romanzo ambientato nella provincia americana avesse potuto reggere benissimo la prova cinematografica, senza perdere una goccia di polpa, nonostante la radicale scelta del regista di ambientare i fatti e i personaggi in Brianza. In Brianza, il locus horribilis ai margini del quale ho sempre vissuto.

Dovevo farmene una ragione, poteva esserci una sola risposta: mi trovavo di fronte a un gran libro.

Faccio però un passo indietro: la prima volta che sentii parlare di linguaggio universale in relazione a un romanzo ero seduta al banco delle superiori, di fronte a un professore – nella vita faceva anche il preside – particolarmente illuminato, che spiegava i Promessi Sposi ribaltando la cattedra e facendo finta fosse una barca su quel ramo del Lago di Como… Ecco nemmeno le pagliacciate riuscivano a farmi piacere l’opera di Manzoni, fino al giorno in cui arrivammo a quel passo in cui Lucia si addormenta pregando, chiedendo il miracolo. A quel punto il prof. Valsecchi, con inusitata pacatezza, disse: “Vedete, può anche non piacervi ‘sto libro, ma non potrete mai negargli la grandezza del linguaggio universale”. Coincise con il momento in cui vidi per davvero la barca e Renzo dentro in piedi a remare, lo sguardo smarrito, che era anche un po’ il mio e pensai, che sì, aveva ragione, quel libro parlava un po’ a tutti e un po’ di tutti era raccontato in quel libro.
Per la cronaca, mi illusi di amarlo fino alla fine dell’anno, dopo di che affibbiai alla letteratura manzoniana un infimo posto nella mia personale scala delle preferenze, dove risiede indisturbata da 16 anni.

Quindi quando mi sono approcciata alla lettura de La vera Justine, appena uscito per Mondadori, avevo tutta la mente fasciata dall’amore per l’esperimento di incroci provinciali italoamericani, avevo l’universalità del Manzoni come imponente sottofondo e un’inedita, giganorme aspettativa: il nuovo titolo e la nuova copertina, i quali esprimevano una delicatezza che, beh, in Amidon non è la regola. Sebbene sia il tipo di lettore che si fa abbindolare da un progetto grafico ben riuscito, sotto questa nuvola di morbide attese si celava in realtà il rimando (per me) nettissimo al Marchese De Sade. Lo stesso genio che mi traviò al primo anno di università, quando di nascosto nella sala consultazione della Cattolica (sì, tengono a catalogo De Sade!), mi divoravo La nuova Justine, ovvero Le sciagure della virtù. Insomma, tutta piena di ricordi romantici dei miei anni formativi, colma del nostalgico buonismo che la citazione degli imperituri classici nelle opere contemporanee mi risveglia, mi sono dimenticata totalmente della crudezza del libro del Marchese. Innamorata dell’idea del Marchese piuttosto che del Marchese stesso, ho peccato di ingenuità, mancanza che ha finito per riversarsi tutta sulla mia esperienza di fruizione dell’ultima fatica amidoniana.

La lettura di quello che è forse il romanzo più psicologico e introspettivo dell’autore mi ha così scioccato più del dovuto, forse più di quanto sarebbe accaduto se fossi partita neutrale, con la mente sgombra e, per quanto possibile, lucida.
La vera Justine riesce ancora una volta a tenere fede al credo creativo del suo autore che, secondo me, è quello di raccontare il più fedelmente possibile, il più chiaramente possibile, la società contemporanea, un pezzettino alla volta. Questo è stato il turno del frammento riguardante la ragazza interrotta, di un ritratto al femminile, novella Frankenstein di abusi, contrasti, rotture e violenze, metà esteriori metà interiori, che funge da perfetto paradigma del lato oscuro della giovane umanità contemporanea. Se si pensa come Amidon, anche appassionato docente in diversi college statunitensi, si sia inizialmente ispirato alle sue stesse studentesse e alle loro narrazioni di abusi più o meno gravi, più o meno fisici, che con suo stupore continuavano a emergere nell’attività didattica – “They couldn’t be all liars!”, non potevano tutte mentire!, ha esclamato durante la nostra chiacchierata – diventa un po’ difficile considerare la lettura di Justine come qualcosa di disimpegnato, bensì questa assume quasi i contorni di un’indagine – di certo assolutamente romanzata – sulle zone d’ombra dell’interiorità umana, così pronta a riflettere i controsensi e i vuoti di una società attuale che non se la sta passando proprio benissimo (e il Nostro non può smettere di citare il fantasma di Donald Trump presidente come il peggiore degli scenari futuri possibili).

Tuttavia non me la sento di negare la prima natura del romanzo, che offre senza dubbio tutto l’intrattenimento di un thriller di prima qualità, ma per farlo, per vivere così queste pagine dense, bisogna mettere in atto un trucchetto di dissociazione preventiva. Bisogna insomma fare finta che lo sfondo su cui si stagliano a ritmo serrato le vicende non ti riguardi. È facile solo in superficie, solo se si rinuncia in partenza a una fetta della grandezza di Amidon, giusto se sei disposto a privarlo della sua universalità. Ecco, allora sì che si fa ancora in tempo a pensare La vera Justine come la storia di un tizio che diventa l’amante di una tizia disturbata in un qualunque bar americano.

Evidentemente stimo troppo la passione che l’autore trasmette con la sua incessante ricerca sociale e in parte storica, la cui lena va di pari passo con l’esplorazione di una forma narrativa funzionale e impeccabile, per vedere volontariamente solo i mezzi toni di un’opera aspra come Justine. Curioso è che questo pare dispiacere l’autore stesso, che si è sinceramente scusato per avermi turbato: “I didn’t want to ruin anyone’s day!”, non volevo rovinare la giornata a nessuno!, ha detto. Ma non è poi questo uno degli scopi dell’arte, un sintomo di riuscita?
Io credo di sì e pensavo di renderlo partecipe di un’intensità positiva e senz’altro lusinghiera nei confronti di chi ha saputo provocarla. Un attimo però, stai a vedere che… non sarà che per scrivere di cotanto scoraggiante presente e ancor più allarmante futuro, Stephen Amidon abbiamo dovuto mettere in pratica in prima persona quel trucchetto percettivo di cui parlavo prima?

Se così fosse penso comunque che Amidon non nutra nessuna intenzione di abbandonarlo proprio adesso, che è già lanciassimo verso le battute finali di un nuovo romanzo ed è coinvolto in due diverse sceneggiature, una delle quali sembra interessi particolarmente l’Italia: proprio in questi giorni a Cannes si è rivelato che il progetto cinematografico riadattato da Amidon con Francesca Archibugi e Francesco Piccolo s’intitolerà ‘The Leisure Seeker’ e verrà diretto, a partire da questa estate, ancora da Paolo Virzì con Helen Mirren e Donald Sutherland come protagonisti.

Con tutto il parlare di contemporaneità, con tutto il dispiacere che gli ho causato, mi stavo quasi risparmiando la domanda sull’origine del titolo, siccome però mi bruciava in gola, gliel’ho intimata mentre mi stavo facendo firmare il libro. La risposta? “Well, you know, it was actually the Marquis”, ecco, sì, effettivamente era il Marchese. Insomma, io e Amidon ci siamo salutati di nuovo in pace.

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