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Maestra di Lisa Hilton: un caso scottante per due investigatrici letterarie

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di Michela Capra e Amelia Cartia

Maestra di Lisa Hilton è appena uscito per Longanesi e, oltre a essere già in cima alle classifiche europee, è anche un caso editoriale.

La storia intorno al romanzo è da manuale: una colta storica britannica, autrice di biografie celebri, decide di scrivere un libro diverso dal solito, per se stessa. Lo comunica al suo agente, che la incoraggia per poi però liquidare il manoscritto come “ripugnante”, niente di meno. La scrittrice continua a proporlo, ma incassa un rifiuto dopo l’altro, tanto che arriva a pensare di auto-pubblicarsi sul web, ma l’interessamento di un’insospettabile la salva dalla catastrofe. Un’amica ristoratrice propone il progetto a un editore suo cliente abituale: è così che Maestra spicca il volo, diritti cinematografici compresi.

Per introdurlo è purtroppo d’obbligo citare Le cinquanta sfumature – o, come dice l’autrice nell’intervista rilasciata a Finzioni, le “Fifty shades of fucking Grey” -, a cui spesso il nuovo romanzo di Hilton è stato paragonato.

Evidentemente da chi non ha letto il libro e vive di sensazioni.

Vi spieghiamo: Maestra è un romanzo a metà tra l’erotico e il thriller, che ha come protagonista la bellissima e “un po’ sociopatica” (sempre parole dell’autrice) Judith Rashleigh: personaggio a metà tra una donna fallita e delusa che riparte da zero, Sherlock Holmes e 007.

Sì, rimane solido l’impianto narrativo in prima persona, la citazione qua e là di qualche marca di vestiti di troppo, cospicui rimandi espliciti al sesso – che, per intenderci, sono un super plus del libro – ma a parte questo, in comune con E.L. James, Lisa Hilton non ha nulla. La frustrazione che emerge non è quella della casalinga disperata che si cela sotto la gonna dell’improbabile Cenerentola Anastacia, è piuttosto lo scontento di una donna intelligentissima che deve trovare il suo posto nel mondo da sola, con la consapevolezza di avere imboccato diverse strade sbagliate e che continua però a provarci, senza attendere di venire salvata.

Ho amato molto questo romanzo, lo confesso senza mezzi termini. Mi ha accalappiato già dal prologo che mi ha fatto tornare in mente vividi i bordelli baudelairiani, con una decadenza esteriore che è splendida promessa della decadenza interiore di una protagonista dai ricchissimi intrecci psicologici, e scusate se è poco per un romanzo da top 3. Ha continuato a tenermi legata per l’introspezione intimamente femminile, ma scevra di cliché triti del genere. Mi ha definitivamente conquistata con una cultura di sostrato che va ben oltre le citazioni colte, stagliandosi anzi come base su cui tutto l’elaborato si poggia. Trovare questo in un “prodotto” d’intrattenimento è oro, al momento.

Non è nemmeno ascrivibile alla letteratura di genere perché, se fossi un uomo, me lo leggerei e anche con un discreto godimento.

Non tutti però condividono l’entusiasmo, a quanto pare. Il contraltare ve lo offriamo subito, qui, adesso, dentro questo stesso articolo: la parola adesso passa ad Amelia.

Lisa Hilton durante l'intervista
Lisa Hilton durante l’intervista

No, ecco, proprio non è per me. L’ho detto, a Lisa Hilton: il suo personaggio è antipatico. Spocchioso.

E, per quanto mi concerne, anche poco credibile. Lei, adorabile. E bellissima. E coltissima. La sua Judith pure, ma, lo dice lei stessa, in lei “qualcosa dev’essersi rotto”.

E tagliano, i cocci di quel qualcosa che si è rotto, nella sua anima, nel suo cuore, non lo so: a giudicare da larghissime pagine del libro quel qualcosa sta più in basso del cuore, e la sua rottura è qualcosa di ben meno poetico, ma non è questo il punto. Perché ovunque siano – e questa cosa non è chiara in nessuna parte del libro, è solo data per scontata: la ragazza è così, non ha niente dentro, non cercate di capire perché – questi pezzi di lei che chissà chi chissà quando chissà come ha mandato in frantumi, tagliano. Ma tagliano le vene di chi legge, però. Perché c’è troppo, eppure sembra sempre che manchi qualcosa. Un prologo, una spiegazione, un motivo. Un senso, forse. Forse, se tutto questo avesse un senso, avrei trovato la lettura piacevole. Ma lei è rotta, e non si capisce perché. Persegue il suo obiettivo passando sopra corpi e anime.

“Come Machiavelli – ci ha detto l’autrice – come Lucrezia Borgia. In fondo non ho inventato niente: il Rinascimento italiano ha visto personaggi peggiori”.

Vero. Personaggi, però. Persone. Ciò che disturba – parlo per me – in Judith, è invece che procede come un automa – e dev’essere questo il tratto distintivo del personaggio: non è una persona, è un automa – verso un obiettivo, la smodata ricchezza, che è di estrema banalità ancorché ambizioso.

E forse (sorry, Lisa, nulla di personale) nell’insieme è tutto il romanzo a essere troppo ambizioso. Vuole troppo, mette insieme troppo, e così perde ogni appeal. Scegli le tue battaglie, Judith. Una mercante d’arte espertissima e bla bla bla, che per ottenere i pezzi più prestigiosi e la vendetta sul capo che la umiliava dandola in pasto a laidi clienti dalle mani viscide sceglie la strada dell’astuzia, e del crimine, e dello sfruttamento dell’altrui cupidigia nei suoi confronti: ok, un po’ articolato ma può reggere. E reggerebbe, se non desse sin da subito l’impressione di voler essere troppi romanzi contemporaneamente.

Che cosa stai tessendo, Judith? Un thriller? Un thriller psicologico con derive di erudizione artistica alla Giulio Carlo Argan? Uno sfoggio di luoghi e usanze italiani, una cartolina esotica a uso e consumo del lettore americano, così scontata per il lettore italiano? Il diario di una ninfomane? Un romanzo erotico? No, non convince: è proprio questo, forse, l’elemento che stride di più. Il più superfluo.

La trama del thriller non perderebbe un’oncia di linearità, se si tagliassero via tutte le digressioni voyeristiche, tutta la pruderie che, riconosco, è l’elemento che invece è più utile per le vendite. Ma che, semplicemente, qui non serviva. Stona, addirittura. E non perché sia volgare, o scabroso, ma perché è gratuito. Denso di una violenza ingombrante, scioccante, descritta con analitiche quanto asettiche didascalie. Perchè, appunto, Judith viviseziona i corpi – vivi e morti, e anche il suo – come fossero coleotteri, seguendo un copione didascalico.

E didascalico, dopo un iniziale effetto disturbante, finisce per risultare tutto. Didascalico nelle descrizioni, didascalico nell’elencare i marchi e le firme di cui la furbissima venuta dal nulla riesce a farsi ricoprire succhiando le tasche (ehm scusate, un lapsus) di tutti gli stupidissimi milionari che, oh, lei si ritrova casualmente tra le mani con la frequenza con cui tutti gli altri si trovano sul capo gocce di pioggia a Milano. Didascalico perfino negli escamotage fantasiosissimi con cui la fortunella si disfa sistematicamente delle prove dei suoi crimini.

“Li ho provati io, tutti i trucchi di Judith”, ci ha assicurato Lisa. “Ho trascinato un uomo come se fosse un cadavere, ho nascosto le prove come fa lei, ho verificato”. Plauso. Ma ai miei occhi qualcosa stride ancora.

E non so quante volte ho pensato: “Ecco, adesso lo chiudo e addio Judith”. Questa Judith che donna è, così sottomessa agli stereotipi, in un primo momento, da volerli sovvertire in massa, subito dopo. E l’ho trovata concorde, Lisa: “Chi ha detto – mi ha risposto – che non può essere una brava ragazza solo perché le piace il sesso?” Bingo, Lisa, è uno stereotipo quello che tu vuoi scardinare. Ci sto, mi piace. Non mi piace però la caricatura che ne viene. Perché è un altro eccesso. Una nota troppo alta: spezza i vetri, e siamo al punto di partenza.

Tanto spregiudicata, tanto scandalosa, tanto eccessiva da abituare il lettore agli eccessi, che dopo il primo smettono di essere colpi di scena, e diventano routinari. E noiosi. Yawn, Judith.

Ma magari mi ricrederò nelle puntate successive: perché anche in questo caso, come è ormai d’uopo, si preannuncia la trilogia. Nella quale, mi promette l’autrice, ciò che mi è sfuggito qui, verrà spiegato. E la signorina perderà un pochino della sua alterigia. Speriamo.

Niente a che vedere con le Sfumature, certo, assicura la Hilton, e su questo siamo d’accordo. La James ha fondato la sua fortuna sull’illusione che una qualsiasi insignificante Cenerentola d’accatto possa prendere un pervertito e trasformarlo nel principe azzurro, mutando il bacio in un frustino. Illusione: banale e pure parecchio sciatta. E Judith, invece, di cosa ci convince? Del fatto che una bella – bellissima stupenda, una cosa mai vista prima, si ripete una pagina sì e l’atra pure – ragazza, spregiudicata quanto basta, cattiva quanto basta, dall’anima rotta quanto basta, riesca a sfruttare il gioco delle tre carte a suo favore, sempre a suo favore, usando il proprio corpo – e ok, la letteratura in tal senso inizia con Salomè e finisce con Pretty Woman, sai che scandalo – e, incidentalmente, anche la propria preparazione.

Ma l’assunto di base è quello: Judith non crea un modello, è ovvio, ma si basa sulla stessa aderenza alla realtà che muove Anastasia. Nessuna.

Sicura che non c’entri proprio niente, quel fucking Grey?

 

La foto in copertina proviene dalla cartella stampa. Quella in mezzo è stata scattata da Michela e Amelia.

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