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Molte birre con… Giulio D’Antona

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Basta andare in un bar, o fuori da un bar in una qualsiasi sera di primavera per capirlo: le persone, anche i secchioni come noi, quando si incontrano, orientano tutte le loro conversazioni alla minchiata. Come in una tentacolare puntata del Last Week Tonight di John Oliver, ogni discorso che si fa con una birra in mano oscilla continuamente tra l’alto e il basso, tra il leggero e il greve, spesso con un solo obiettivo finale, che di fatto coincide con l’adagio “stare bene con i propri amici”: la risata. Ridono tutti. Ridiamo tutti, o almeno cerchiamo di (far). Si può anche discutere delle mille e passa pagine della scuola cattolica di Albinati, ma a un certo punto qualcuno spara una cazzata e tutti giù a ridere, e quella cazzata, e quella risata, non sono accidenti ma, al contrario, il punto.

Tutto questo per dire che anche un’intervista dovrebbe essere così: bere delle birrette, chiacchierare attorno a un libro (senza parlarne troppo, non è credibile, nessuno si mette a parlare di un libro senza deviare talmente tanto da rendere le deviazioni il pallino del discorso), dire delle minchiate: perfetto frattale della condizione umana. Ed ecco dunque la prima di una lunga serie di interviste di Finzioni che non si chiamano interviste ma “Molte birre con…”, in cui beviamo, chiacchieriamo di un libro e diciamo delle minchiate su quel libro, con il suo autore. Fotografati magistralmente dall’obiettivo di Alberto Cocchi che, sì, anche lui si beve le birrette, ma solo dopo aver fatto le foto.

E visto che le inaugurazioni sono cose serie, inauguriamo la rubrica con un autore che ne sa a pacchi, come dicono i giovani americani (“knowing packages”): Giulio D’Antona, che di fatto vive a Brooklyn da ormai due anni e, da laggiù, ha scritto Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America, un saggio-reportage-cronistoria sull’editoria americana e sull’America in generale, e un bellissimo diario di viaggio. Ecco come sono andate le cose.

Prima birra

Tante birre con - Giulio-3 good

Sei andato a New York per scrivere questo libro o  è stata New York a dirti di farlo?

Ho sempre avuto in testa l’idea di lavorare con l’America e in America e, a pensarci, l’ho sempre fatto, nel senso che quando ho cominciato a poter scrivere liberamente, ho sempre scritto di America, che fosse letteratura, cinema o televisione. Non mi sono mai appassionato approfonditamente delle cose italiane.

Ehm… fighetto… hmm [detto fingendo un colpo di tosse]

Sarò anche fighetto, ma quello mi interessava: l’America [detto con tono come per dire cazzo vuoi?]

Tra l’altro, quando dici America tu intendi gli Stati Uniti.

Quando si parla di America, gli americani intendono sempre gli Stati Uniti. Poi lo so che l’America è un continente ben più esteso ma, solitamente, quando si parla di America si parla di Stati Uniti, magari giusto il Canada. Comunque, ogni volta che sono potuto andare in America, anche indebitandomi, ci sono andato. Quando ho finito di pagare i debiti ci sono tornato e sono rimasto.

Luogo abbastanza comune vuole che la percezione dell’americano medio non sia particolarmente lusinghiera, almeno dal punto di vista intellettuale e culturale. Visto però che la produzione letteraria, televisiva, teatrale, cinematografica americana è ad altissimi livelli, chi la fruisce? Sembra che non esista una borghesia intellettuale, una classe media culturale: o sei un redneck, o un newyorchese da salotto. Alla fine, per chi producono gli americani?

Loro producono per una cultura di massa, che esiste, ma che è distribuita così: New York e San Francisco sono i due grandi poli culturali americani, se parliamo di letteratura. I lettori forti stanno lì e il novanta percento dei romanzi vengono prodotti e letti esclusivamente a New York e a San Francisco. Questo però non vuol dire che la cultura americana sia piatta, anche perché se produci un libro a New York, non è che la storia deve essere per forza ambientata a Manhattan, o a Brooklyn.

Infatti nel libro tu dici che il Midwest è un po’ il grado zero dell’ambientazione letteraria americana.

I libri vengono prodotti a New York ma sono portati da tutta l’America, ogni scrittore porta il suo pezzo d’America e la racconta. Rendiamoci piuttosto conto che il 90% degli americani non legge la letteratura che noi solitamente identifichiamo come americana – Roth, DeLillo, Carver… – quanto piuttosto romanzi di genere, spesso rosa, che comunque sono sempre prodotti a New York e che comunque raccontano tutta l’America.

New York è, o almeno era un polo d’attrazione per gli scrittori che da giovani arrivavano, facevano gavetta, si sbattevano e qualcuno poi riusciva anche a sfondare. Dal tuo libro mi è parso di capire che, al contrario, ultimamente gli scrittori tendono ad andarsene. Come stanno le cose?

Usciamo un attimo dalla letteratura. Durante le grandi ondate migratorie, dalla fine dell’ottocento agli anni cinquanta del novecento, tantissime persone arrivavano a New York, si incastravano in città e formavano delle sacche di resistenza, tipo i quartieri ebraici, italiani, cinesi, russi, irlandesi, eccetera; poi, piano piano, se ne andavano e si sparpagliavano per l’America. È come se New York fosse un filtro, un retino, e infatti anche la città è costruita così, sembra una rete gigantesca che blocca qualcosa e fa scivolare via tutto il resto.

Con la letteratura è andata allo stesso modo: NYC riceveva in entrata e in uscita tutta la narrativa d’America e ne conservava un po’. Un tempo, infatti, la classica storia newyorkese raccontava di uno scrittore che per fare lo scrittore arrivava a NYC, un giovanotto che voleva istruirsi e sfondare, e mi vengono in mente libri come La scelta di Sophie, o Il giovane Holden. Adesso però la rete si è rotta, perché non è più necessario per uno scrittore essere lì.

Ma questo vale solo per quelli con uno status affermato?

In realtà uno scrittore che vuole iniziare a lavorare negli Stati Uniti ha bisogno di un agente, qualcuno che si occupi dei suoi affari; una volta trovato, poi è a posto, è l’agente che parla per lui, è l’agente che deve stare a New York. Gli scrittori vogliono stare da altre parti, rimangono solo se devono.

New York però è una città bellissima, soprattutto per una persona che lavora nel campo della cultura. Perché mai vogliono scappare, allora?

La storia degli scrittori a New York è sempre una storia difficile, almeno in generale. Prendi Jonathan Ames: è arrivato, ha fatto il tassista per mantenersi, ha scritto un libro di successo e, appena è entrato nel giro della televisione – più soldi, più facile da scrivere – si è trasferito a Los Angeles e tanti saluti, ai romanzi non ci pensa più da anni. Quella generazione di scrittori, ormai, ha sulle spalle il peso degli anni duri e la loro New York, molto romantica da leggere, è stata in realtà pochissimo romantica da vivere. John Updike, per esempio, è stato uno dei primi a fuggire: soffriva il dover andare alle feste, conoscere e salutare tutti; anche Joan Didion, pure Renata Adler si è inimicata un bel po’ di persone, Roth ha addirittura smesso di scrivere. Fare questo lavoro è una sofferenza.

Ma scusa, questi scrittori che arrivavano a NY e facevano i tassisti per vivere, come potevano conoscere la città abbastanza bene da scarrozzarci la gente?

Imparavano a memoria le cartine. Adesso se prendi un taxi a New York i guidatori non sanno niente, non accendono nemmeno il navigatore, e ti fanno incazzare.

Hai detto una parolaccia. 

Sì.

Seconda birra

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Tu hai prodotto un oggetto culturale sull’America, dall’America, e l’hai pubblicato in Italia. Qual è il nostro rapporto con l’editoria americana?

Il settanta percento dei romanzi stampati negli Stati Uniti viene tradotto in italiano, prima o poi, ed è una cosa sorprendente. Se c’è un romanzo americano, a un certo punto qualcuno lo scopre e lo traduce. Noi abbiamo sempre avuto una sorta di timore reverenziale verso l’America: ci sono raccolte bellissime come Americanacurata da Vittorini nel ’43, e dentro già ci vedi una ricerca profonda nello scoprire autori nuovi. Negli anni sessanta, poi, Fruttero e Lucentini hanno pubblicato La verità sul caso Smithdove c’erano tutti i beats: ci hanno fatto conoscere Kerouac, Burroughs e gli altri che allora nessuno aveva mai letto. Poi il recentissimo New York Stories curato da Paolo Cognetti, anche il lavoro di selezione e traduzione che ha fatto Martina Testa per minimum fax ha portato cose straordinarie.

Ma gente come Roth, o Carver, qua da noi vendono? Roth, tipo, vende centomila copie o diecimila?

Diecimila, ma anche meno. C’è da dire, comunque, che gli italiani sono più attenti verso una certa letteratura americana rispetto agli americani stessi. Roth, DeLillo, Carver, Cheever e i classiconi negli Stati Uniti sono letti solo da una élite culturale: l’americano medio non legge un premio Pulitzer, per esempio.

E Franzen dove lo metti?

Franzen è un pochino a metà perché è noto per fare queste operazioni pseudocommerciali in cui cerca di intercettare tutte le fette di pubblico possibile, ma anche lui, come tutti i romanzieri, si rivolge o, comunque, dovrebbe rivolgersi a un pubblico ristretto. Gli italiani sono un pochino più attenti, siamo abituati a editori come Einaudi o Feltrinelli o minimum fax che ci hanno trattato sempre molto bene, ci hanno venduto bene libri difficili, che non è da tutti.

Parliamo di editoria americana. Contano più le persone che ci lavorano o il sistema che le colloca? Conta di più l’industria o chi fa l’industria?

Per molto tempo l’industria letteraria è stata simile a quella cinematografica; per questo voglio raccontarti una parabola: la fondazione di Hollywood – la scrive Oriana Fallaci nel suo I sette peccati di Hollywood. Le cose sono andate così: all’inizio del secolo scorso, tutti i film si facevano sulla East Coast: le case di produzione a Manhattan e gli studos in New Jersey, semplicemente perché c’era più spazio per costruirli. Un giorno, tre produttori di New York – tra i quali il signor Goldwin, che fonderà la Metro Goldwin Mayer – si fanno finanziare un film per 300.000 dollari, un sacco di soldi in quegli anni, e scappano a Los Angeles, dove incontrano l’ultima discendente dei coloni che avevano civilizzato l’area di Burbank chiamandola Holy Woods, cioè boschi sacri. Con i soldi del film, i produttori comprano il terreno, lo ribattezzano Hollywood e ci costruiscono tantissimi studios, visto che lo spazio di certo non gli mancava. Risultato: dieci o venti film alla settimana e una massiccia migrazione di produttori da New York a Los Angeles.

Solo a quel punto si è costituito il sistema che resiste ancora oggi, grazie a una scintilla di alcune persone geniali o che, comunque, facevano le proprie regole. La stessa cosa è accaduta nell’editoria: grandi innovatori, gente alla Mad Men, che facevano a modo loro e quel modo loro pian piano si è trasformato nel modo di tutti.

Questo però significa che ormai ci siamo fermati.

Adesso abbiamo un sistema funzionante, nel bene o nel male, ma non ci sono più persone così.

Terza birra

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Le riviste letterarie funzionano un casino negli Stati Uniti. Le leggono in molti? Come campano?

Non dobbiamo immaginarci che tutti vadano in edicola a comprare il New Yorker, c’è sempre la questione dell’élite culturale.

Ma cosa intendiamo per rivista letteraria?

Ciò che la rivista letteraria ha in più di un magazine è la narrativa. Nel New Yorker trovi la narrativa in mille forme, come fiction e come non fiction, critica letteraria, cinematografica e televisiva. Tra l’altro, Emily Nussbaum, la critica televisiva del New Yorker, ha appena vinto un Pulitzer, e questa è una cosa molto grossa perché è una donna e perché scrive di serie tv. Pensa: vincere un Pulitzer parlando di serie tv!

Le riviste. [Tossisce ambiguamente]

Sì, le riviste. Dunque: il vero valore aggiunto delle riviste letterarie negli Stati Uniti è il fatto che sono un bacino di ricerca di giovani talenti. È pratica comune per gli editori quella di prendere le riviste, sfogliarle, trovare qualcuno che scrive bene e contattarlo per un libro. È altrettanto pratica comune esordire su una rivista per poi passare ai romanzi.

Ma i soldi?

Quello è la vera differenza con l’Europa. Negli Stati Uniti, chi vuole finanziare un progetto culturale può dedurre tutto dalle tasse. E i ricchi spesso sono veramente ricchi: c’è chi investe in arte, chi nel sociale, chi nella rivista letteraria. E poi ci sono le serate di raccolta fondi.

Robe da fighetti?

Robe da americani. Ci si va in smoking, si paga il tavolo (quello per la cena di gala della Paris Review costa diecimila dollari) e si contribuisce al budget annuale delle riviste. Il resto lo fanno i milioni degli investitori che, e questa è una bella cosa, non impongono linee editoriali e, anzi, si defilano subito.

Quindi è un mercato che esiste solo grazie ai finanziamenti?

Sì, perché altrimenti le riviste venderebbero troppo poco. Il mercato culturale americano funziona così bene perché ci sono persone disposte a investire a fondo perduto nella cultura. Anche il cinema indipendente, per esempio. E non sono i soliti magnati texani che comprano tutto a scatola chiusa solo per non pagare le tasse, ma persone interessate, che pensano di fare una bella cosa per delle buone arti.

Ultima birra

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Raccontami una bella storia che non sei riuscito a mettere nel libro. 

Ma devo per forza bere anche l’ultima birra?

Be’, sì. Lo dice anche il titolo dell’intervista.

Va bene, ti racconto la storia del mio incontro con Philip Roth. Questo libro contiene un capitolo su Philip Roth dove racconto i miei vari e vani tentativi di agganciarlo. Dopo alcuni mesi, quando il libro è già in stampa, ho l’occasione di sedermi vicino a lui durante un pranzo, in una tavolata un po’ angosciante: io, un paio di italiani, il padrone di casa e sua moglie, Don DeLillo e sua moglie, Nathan Englander e sua moglie e Mary Karr. Roth, ottantatré anni appena compiuti, ogni tanto aveva dei momenti di vuoto da cui si riprendeva con battute fulminanti. A un certo punto, mentre qualcuno raccontava di un suo amico disabile con un sacco di donne, Roth si è ripreso all’istante chiedendo: secondo voi, quanto invalido dovrei essere per avere un sacco di donne? Insomma, un tipo un po’ così.

Alla fine del pranzo gli chiedo se posso incontrarlo per raccontargli del libro e del capitolo che parla di lui e, tre giorni dopo, mi invita a casa sua. Faccio un rapido sondaggio con un po’ di amici in comune per avere un consiglio su cosa portare come cadeaux e tutti mi dicono: portagli del caffè italiano, assolutamente. Io prendo il caffè, arrivo tutto tremebondo a casa sua e la prima cosa che Roth mi dice è: non bevo caffè. Poi la situazione si è distesa, abbiamo parlato per tre ore ed è stato bellissimo. Poi, purtroppo sono dovuto andare via. Era un giorno piovoso e avevo delle caloscine di gomma che avevo tenuto dentro casa di Roth, mentre lui era in calzini. Quando esco da casa sua incontro l’amico che me l’aveva presentato e gli racconto com’è andata. Lui mi ascolta con calma, mi guarda le scarpe e mi dice:

«Ti sei tolto le scarpe, vero? Perché lui ci tiene molto».

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