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Joan Didion non indossava mai l’orologio

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Joan Didion non aveva mai con sé l’orologio. Nulla di assurdo ai tempi nostri, abituati come siamo a vedere il tempo scandito da orologi digitali che stanno sempre nelle nostre tasche o negli angoli degli schermi sui quali lavoriamo più di otto ore al giorno e che ci ricordano sempre in che momento della giornata siamo. Ma quando Joan Didion non portava mai con sé l’orologio erano gli anni Sessanta e Settanta, e se di giorno si poteva chiedere l’ora a qualcuno per strada, la sera ci si ritrovava nella propria stanza di un motel a lavorare sul pezzo da dover consegnare il giorno dopo, senza sapere l’esatto attimo temporale in cui si viveva. È conoscendo questo aneddoto che vorrei immaginare la Joan Didion dei saggi raccolti in Verso Betlemme e in The White Album con i capelli arruffati, che non vuole richiedere alla reception che ore sono e che quindi si rimette a testa bassa sulla propria macchina da scrivere, immergendosi nel suo lavoro come se non ci fosse né spazio né tempo, tanto che nel silenzio della stanza, invece delle lancette dell’orologio, sono i ticchettii della sua macchina da scrivere a scandire il tempo. Inutile aggiungere che è di questa Joan Didion che mi sono subito innamorata.

9788842814818 4f69640f10baa007152a36c0f70e85cb 392x550 Joan Didion non indossava mai lorologioRaccontare ciò che si nasconde nelle raccolte di scritti editi da Il Saggiatore non è facile perché i temi affrontati dalla scrittrice californiana sono pressoché infiniti. Una certezza però l’abbiamo ed è una verità palese: Joan Didion è sempre presente in ciò che racconta. Non è mai esterna, non è mai indifferente. In tutto ciò che accade intorno a lei, e che finisce nero su bianco, c'è una sua sfumatura ed è grazie a questa sua particolare caratteristica che nei suoi scritti possiamo trovare pensieri e pareri personali uniti a opinioni che non sono mai sfrontate ma libere e leggere, come se fossero solo un piccolo ma importante dettaglio a incorniciare le storie e gli spazi che la giornalista vuole narrare. Perché Joan Didion è perfetta in ogni contesto, perché, come rivela lei stessa, "in gonna, body, e calze, passavo l'esame in tutti gli ambienti della cultura". Mi sono innamorata della Didion del New Yorker e del New York Review of Books perché mi ricorda una bambina in un mondo di grandi e come ogni bambina non ha freni, non ha vergogna, racconta il suo stato fisico e mentale, la sua particolare indole forse un poco nevrotica, come se fosse un fatto di cronaca, uno dei tanti avvenuti nell’America degli anni Sessanta e di cui ha voluto scrivere. E Joan Didion questo lo sa, sa benissimo di non riuscire a rimanere indifferente a ciò che scrive e lo spiega nella premessa di Verso Betlemme quando svela che “qualunque cosa io scriva riflette, a volte in modo gratuito, quello che penso”. Leggere Verso Betlemme e The White Album sembra quasi una caccia al tesoro al pensiero della scrittrice e giornalista californiana.

Mi sono innamorata di Joan Didion, poi, perché è curiosa da morire, proprio come la bambina di cui parlavamo poco fa. Leggi Verso Betlemme e The White album e vieni catapultato in infiniti mondi: come è possibile che un’autrice possa scrivere del California Department of Transportation e dei matrimoni improvvisati a Las Vegas con lo stesso fervore e interesse? E particolare attenzione è rivolta soprattutto alla California, al desiderio di raccontare la terra d’origine, come se per Joan Didion fosse una necessità sottolineare la propria appartenenza a un luogo, come se attraverso le storie del proprio territorio potesse lasciare altre tracce di sé. E non la si biasima, perché il segreto di tutto ciò sta forse in un passo di “Osservazioni di una figlia nativa”  (1965 – in Verso Betlemme), dove Joan Didion trascrive una conversazione avvenuta fra la propria madre e una signora molto anziana di Sacramento, una donna che aveva le idee molto chiare sull’appartenere a un luogo.

“Quel ragazzo Johnston non ha mai concluso gran che” disse. Mia madre protestò timidamente: Alva Johnston, disse, aveva vinto il Pulitzer quando lavorava per il New York Times. La nostra ospite ci guardò impassibile. “Non ha mai concluso niente qui a Sacramento” disse.

Sembra quasi che il suo voler menzionare la California sia un modo per scusarsi di averla abbondata per New York durante gli anni della propria gioventù, quando volò dalla parte opposta dell’America per iniziare ufficialmente la carriera da giornalista.

Negli scritti di Joan Didion, però, ci sono anche l’amore per i luoghi che ha visitato più volte come dimostra in “Nelle Isole” (1969/77 – in The White Album) narrando di vari punti delle Hawaii in modo nostalgico ma affettuoso, senza tralasciare tutte le emozioni provate in riva all’oceano Pacifico alla fine degli anni Sessanta, quando la vita era più difficile e in ogni pezzo di carta sentiva la necessità di descrivere la propria identità.

Voglio che capiate esattamente chi vi trovate di fronte: vi trovate di fronte a una donna che ormai da qualche tempo si sente radicalmente distaccata dalla maggior parte delle idee che sembrano interessare agli altri. Vi trovate di fronte a una donna che lungo il percorso ha smarrito qualunque barlume di fiducia abbia mai avuto nel contratto sociale, nel principio di miglioramento, in tutto il grandioso sistema dell’impresa umana.

the white album 397x550 Joan Didion non indossava mai lorologioE i luoghi che ama, Joan Didion, li descrive con un fervore tutto suo. La Bogotá che tratteggia in The White Album è la sua Bogotá, una Bogotá che nessun’altro potrà vedere e vivere nonostante l’articolo comprenda ampie descrizioni sul passato della città colombiana: ancora una volta la voce della scrittrice si insinua fra le righe, in modo educato ma lasciando un segno. E i luoghi hanno un forte valore anche nella letteratura: nelle raccolte edite da Il Saggiatore, infatti, c’è anche l’amore e la passione di Joan Didion per il mondo dei libri e dei territori in essi descritti come se si innamorasse di quegli spazi “soprattutto perché qualcuno ne ha scritto”.

Joan Didion è dentro a ogni storia che scrive, a ogni frammento di vita reale che vuole riportare nero su bianco per renderlo indelebile o forse, mi piacerebbe pensare, per rendere incancellabile il suo pensiero e per sentirsi più reale, più viva. Da un decennio all’altro, da Verso Betlemme a The White Album, si nota una certa maturazione che non sfocia mai nella presunzione ma sempre nell'entusiasmo, il vero protagonista di tutti i suoi scritti giornalistici insieme alla voglia di conoscere e sapere.

Nel mio cuore rimarrà soprattutto “Sul tenere un taccuino” (1966 – in Verso Betlemme), in cui Joan Didion sottolinea l’importanza di “tenersi in contatto” perché “dimentichiamo fin troppo in fretta cose che pensavamo non avremmo mai potuto dimenticare”.  Sono pagine delicate in cui la scrittrice manifesta la necessità di annotare qualsiasi piccolo dettaglio accaduto nella propria giornata: osservazioni, riflessioni, piccole epifanie e stralci di conversazioni origliate. Sono piccolezze, forse, ma aiutano a delineare e definire una figura così complessa e poliedrica come Joan Didion, una donna, nel mio immaginario, che è la summa di tutti questi episodi svelati da lei stessa nelle sue raccolte, un insieme di dettagli che la rendono sempre più speciale e particolare. Mi piacerebbe tanto immaginare che quando nella stanza di Joan Didion non si sente più il ticchettio della macchina da scrivere è perché il taccuino del momento ha attirato la sua attenzione: sfogliarlo, per la scrittrice, è come rivivere le giornate trascorse, ritrovare le insicurezze che l’han fatta incespicare in un determinato momento ma soprattutto un modo per prendere coraggio da esse, dai propri appunti e dai propri vagheggiamenti su ciò che sogna e desidera. Ed è anche, e soprattutto, di questa Joan Didion che mi sono innamorata.

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