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Di Inside Out e Ritorni letterari (dall’America di Soldati)

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Bando alle ciance: se Inside Out è piaciuto o meno dipende un poco anche dalla sensibilità di ognuno di noi nei confronti di quella sensazione – stato d’animo chiamato ritorno. Quando Riley capisce che la sua fuga è un enorme sbaglio, e decide quindi di scendere dal bus e correre verso casa, io ho cominciato a singhiozzare senza ritegno con il cuore che a momenti stava per esplodere. E pensare che il viaggio di Riley non è nemmeno durato molto, praticamente un pomeriggio, eppure nella testa di quella bambina cosa non è successo in una manciata di ore! Siamo abituati a dar così tanta importanza all’andata senza accorgerci che spesso è proprio il ritorno la parte più sensibile, quella che avvia un processo irreversibile. E riflettendoci un poco, ci potremmo accorgere che spesso i viaggi sono solo dei grandi e immensi ritorni e anche in ciò Inside Out ha dato molto: l’avventura di Gioia e Tristezza nella Memoria a Lungo Termine non è forse un grande e sentito ritorno al Quartier Generale?  E ancora: non è forse quando si sta tornando che ci si accorge di quanto si è cambiati e cresciuti? Di quanto smuovere l’animo trasportando il proprio corpo in un’altra dimensione sia così meravigliosamente stupendo?

Gioia e Tristezza scoprono non poco dalla loro avventura tra i ricordi più indelebili di Riley così come la bambina, in quel breve lasso di tempo lontano da casa, capisce quanto sia importante non vedere continuamente il mondo di un solo colore (giallo, blu, verde, rosso o viola che sia) ma che per ciascuna delle sue Isole della Personalità, per ogni sfumatura del suo essere, sia necessario un mix di emozioni tanto da rendere ogni momento più particolare e profondamente vissuto. Dire che per Riley riabbracciare i propri genitori dopo aver colorato le proprie emozioni sia stata un’esperienza meravigliosa è ovviamente fin troppo scontato. Ma cosa sarebbe accaduto se non avesse mai tentato di partire? Probabilmente non avrebbe mai veramente compreso se stessa così come Mario Soldati non avrebbe mai e poi mai incontrato il suo Primo (vero) Amore: l’America.

Ma un grande viaggio intrapreso sui vent’anni, un’emigrazione interrotta, conferisce al paese straniero che abbiamo abbandonato una lontananza religiosa, un’estraneità piena di stupori.

Quando parte per l’America, Mario Soldati è giovane e pieno di sogni. Il suo viaggio è raccontato in poco più di trecento pagine in un qualcosa, America Primo Amore, che mi piacerebbe tanto chiamare memoir in cui lo scrittore torinese racchiude sostanzialmente tutto ciò che il suo grande ritorno ha provocato nel proprio animo. Perché uno è impavido e coraggioso quando partorisce un’idea ma poi dopo poco tempo (e spesso all’improvviso!) si ritrova davanti alla realtà e si accorge inaspettatamente di aver sbagliato, di dover riguardare indietro e tornare dove era partito. È un lampo, un risveglio inatteso, è un autobus che parte con Riley a bordo che però decide di restare dove è mentre il mezzo sta uscendo dalla stazione. Eppure spesso, come nel caso di Mario Soldati, ne seguono anni di ripensamenti dove si cerca di non chiedersi cosa sarebbe accaduto se si fosse stati un poco più coraggiosi ma in cui si tenta di imbastire un eterno racconto di quel viaggio cercando di abbracciare tutte le sensazioni vissute per poter poi spiegare il presente e quella sensazione di eterno ritorno che continua a logorare l’animo. Non è un caso, poi, che Mario Soldati abbia deciso solo dopo alcuni anni di  pubblicare tutto ciò che ha cambiato radicalmente e profondamente le sue visioni: il tempo per digerire un ritorno non previsto, un cambio d’idea che rinnega un ideale passato, non è per nulla semplice.  Ma ancora: se Mario Soldati non fosse tornato sarebbe davvero riuscito a narrare città e persone con lo stesso pathos che respiriamo in America Primo Amore? Non credo.

In fin dei conti, niente di nuovo sul fronte occidentale: un viaggio cambia, sempre, e nulla di quello che c’è stato prima è destinato a rimanere tale e quale al passato. Però (c’è sempre un però!) che gran splendore potersi guardare allo specchio con più coscienza di sé, con una consapevolezza mai sentita prima. Come se tutti quei meccanismi che regolano le proprie sinapsi (qualsiasi colore e forma abbiano) fossero veramente visibili, sotto i nostri occhi, modellati dai nostri eterni ritorni che ci portiamo nel cuore. 

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