Più volte su queste pagine ci siamo posti una domanda che forse non ha una risposta definitiva: esiste un problema di genere in letteratura, qualcosa che si può avvicinare alla discriminazione sessuale? Gli autori di sesso maschile hanno maggiore facilità di accesso al sistema editoriale, maggiore spazio nei media e pertanto maggiore successo commerciale?
Questa riflessione viene sollevata almeno a cadenza annuale in coincidenza con la pubblicazione dei risultati del Vida Count, la statistica relativa allo spazio dato dai media a titoli e autori maschili e femminili, stilata ogni anno dalla Vida Women in Literary Arts, organizzazione istituita nel 2009 a sostegno della letteratura femminile. Numeri che ogni anno evidenziano un forte predominio circa la presenza degli scrittori uomini su tutte le più importanti testate americane. Una fotografia del sistema statunitense certo, ma che, data la centralità della della letteratura US nella cultura occidentale, si ripercuote necessariamente oltreoceano e mette in luce un meccanismo che con buona probabilità non è esclusivo della scena letteraria americana.
Non ci sono dubbi che a gettare benzina su questa polemica mai sopita ci abbia pensato la testimonianza di una giovane aspirante scrittrice, Catherine Nichols, che attraverso un test molto semplice è arrivata a una scoperta (o forse cercava una conferma?) inquietante. Come la stessa Nichols racconta in questo pezzo uscito su Jezebel e poi ripreso da molte testate, le è bastato mandare il suo manoscritto con uno pseudonimo maschile per ricevere oltre otto volte il numero di risposte che aveva ricevuto con il suo vero nome.
La Nichols racconta infatti di aver proposto il suo romanzo a 50 agenti (non direttamente a un editore) e di aver avuto in risposta solo due richieste di ricevere il manoscritto. Ma quando ha deciso di inviare la stessa lettera di presentazione e le stesse pagine iniziali a 50 agenti da un indirizzo di posta con un nome maschile, le richieste sono salite a 17. E, secondo il parere dell’autrice, anche il tono delle risposte era diverso. Mentre il suo pseudonimo maschile – al quale si riferisce come George – riceveva commenti positivi rispetto al romanzo anche in caso di rifiuto (il lavoro veniva descritto come brillante, ben costruito e avvincente), il tono dei commenti che riceveva Catherine era di questo tipo: «beautiful writing, but your main character isn’t very plucky, is she?» (Bella scrittura, ma la tua protagonista non è molto coraggiosa, non trovi?).
La Nichols ha scelto di non sovrapporre gli invii, ovvero di non mandare il suo romanzo agli stessi agenti, tranne in pochi casi e racconta che in uno di questi casi un agente che aveva rifiutato il romanzo inviato da Catherine ha chiesto di poter leggere quello spedito da George per poi passarlo a un agente senior.
Questo atteggiamento si è riscontrato sia da agenti uomini che donne, a dimostrazione del fatto che probabilmente non c’era da parte loro la consapevolezza o l’intenzione di essere sessisti o discriminatori. L’idea che si è fatta la Nichols di questa vicenda è che sono molte le motivazioni ad agire in modo più o meno consapevole: in primis, probabilmente agli agenti viene spontaneo dare più attenzione al libro di George se sanno che per loro sarà più facile “vendere” un autore uomo. Inoltre, l’aspettativa di un agente nel ricevere un romanzo di un’autrice di aver a che fare con la cosiddetta Women’s Fiction avrebbe creato un pre-giudizio nei confronti dell’opera di Catherine che non si aveva invece verso il lavoro di George.
Quali che siano le motivazioni, provate a immaginare l’impatto che risposte di questo tipo possono avere sulla vita e sul futuro di una persona che sta provando a pubblicare un libro e che dà per scontato che la mancanza di risposte positive sia dovuta esclusivamente alla qualità del suo romanzo. Se volessimo generalizzare questo esperimento – sbagliando, sia bene inteso, in quanto si tratta di una singola esperienza su un campione ristretto di persone – potremmo arrivare ad affermare che un’autrice esordiente ha a priori meno possibilità di farcela rispetto a un uomo nella stessa situazione e con un romanzo della stessa qualità. Con questo non stiamo dicendo che un’autrice di enorme talento non possa emergere (possiamo citarne a decine!) ma può essere che le sia richiesto uno sforzo maggiore di quello che viene richiesto a un uomo con lo stesso talento? E ancora, possiamo supporre che uno scrittore mediocre possa pubblicare con più facilità di una donna con le stesse qualità? Domande che si possono applicare a molti altro settori al di fuori di quello letterario.
Non è tardato il commento sulla vicenda da parte di Joanna Walsh, l’autrice che ha dato vita al progetto #readwomen, che ha raccontato sul suo account Twitter di essere rimasta così scioccata dall’esperimento da aver deciso di diventare George.
Nel frattempo la Nichols ha scelto di utilizzare i consigli e i feedback che ha ricevuto nei panni di George per rimettere mano al suo romanzo. E oggi ha un agente.
L'articolo L’importanza di essere uomo (se volete pubblicare un libro) sembra essere il primo su Finzioni.