In Russia devono aver compreso presto le potenzialità distruttive del nido, se così possiamo chiamarlo, familiare. Era il 1877 quando Lev Tolstoj fece pronunciare alla sua Anna Karenina una della frase più inflazionate della storia della letteratura mondiale: «Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo» ‒ e tutti sappiamo benissimo come andò a finire; era, invece, il 1879 quando Dostoevskij chiarì definitivamente il concetto con la pubblicazione de I Fratelli Karamazov: se pensate che i legami di sangue siano garanzia di lieto fine, farete meglio a rivedere le vostre posizioni. È vero, hanno già spiegato tutto i drammaturghi greci con le loro tragedie, c’è già stato Shakespeare con l’Amleto e il Re Lear, è arrivato persino Kafka a dire la sua, ma il romanzo di Dostoevskij serve meglio a chiarire il concetto, soprattutto se parliamo di ambizioni, delitti, castighi e pentimenti.
Ammettiamolo, le deprimenti vicende della famiglia della Mulino Bianco non sono mai state particolarmente interessanti, non solo perché sono lontane anni luce dalle reali dinamiche familiari, ma soprattutto perché sono l’orrore, le pulsioni amorali, i pensieri più depravati e meschini e i segreti più impervi nascosti tra le mura domestiche a richiamare l’attenzione di lettori e spettatori. Ed ecco che i Karamazov rappresentano da soli tutto quello che una famiglia, anche la più normale e perfetta possibile, conserva e custodisce gelosamente al proprio interno: lotta alla sopravvivenza e bisogno di trovare se stessi lontano dai legami di sangue, perché se esiste qualcosa di più scomodo e costrittivo di una catena, quella è proprio la famiglia. È da lì che inizia tutto ed lì che finisce tutto: ambizioni, desideri, bisogni e idiosincrasie. Sarà proprio Ivan, il più intelligente e tagliente dei tre fratelli, a urlare una delle frasi più significative dell’intero romanzo, metafora dei quei pressanti legami: «Chi non desidera la morte di suo padre?». Una morte figurata, simbolo di libertà in riferimento ai dettami, agli imperativi e alle maledizioni lanciate nella culla.
Allo stesso modo Scar, perfido fratello del re Mufasa ne Il re leone, film della Disney targato 1994, avrà solo un modo per cancellare definitivamente le tracce di una famiglia che non l’ha mai considerato all’altezza della situazione: uccidere i propri affetti. Qui urge precisazione. Chi scrive ha sempre patteggiato, sin da bambina, per il fratello cattivo, non solo perché i perfidi in generale sono sempre stati i più interessanti, ma perché fu proprio lui a coniare una delle frasi manifesto della mia vita, «sono circondato da un branco di idioti» ‒ anche se questa è un’altra storia ‒ e fu sempre lui a doversi sobbarcare il fardello della pecora nera. Sì, direte voi, è colpa sua, Scar non è proprio una personcina a modino da raccomandare ad amici e parenti, ma provate voi a competere con quel fratello lì: bello, biondo, il che non guasta mai, con una criniera da invidiare, di sani principi morali, con una bella moglie, ben voluto dalla comunità e nato per essere il re della Savana. Provate voi a competere con un fratello così.
Succede, succede in parecchie famiglie, se non in tutte, e quel confronto lì si porterà dietro ogni rivalsa, ogni ambizione, ogni desiderio, ogni bisogno, ogni difetto, ogni sofferenza. Un po’ come Ivan Karamazov che con il suo bisogno di fede, la sua estrema sensibilità camuffata da cinismo, la sua acuta intelligenza, non vorrebbe altro che essere Alëša, il Mufasa dei Karamazov: così come Dimitri, il primogenito, incarna da solo, e in misura diversa, le caratteristiche dei due fratelli. A volte si vorrebbe solo essere l’altro, e possedere quello che l’altro ha ottenuto, voluto e amato. Gli adulti del futuro sono prodotti dalla stessa famiglia di provenienza, ecco perché i destino dei Karamazov è già scritto: «C'è una forza che resiste a tutto! Quella dei Karamazov… la forza dell'abiezione dei Karamazov». Un po’ come le maledizioni lanciate nella culla da bambini, quelle che ci porteremo fino alla tomba.
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