Lui è Giuseppe Ettorre, primo contrabbasso alla Scala
Se provo a pensare al verbo migliore da abbinare al concetto di cultura ho l’imbarazzo dell’univocità, più che della scelta. La cultura si fa e basta; non è, non si ha, non si chiede, non si impara, non si spreca. La fattitività insita in questa parolina la determina in quanto paradigma, e non si dà cultura senza il suo farsi. Un po’ come i francesi che per dire “piove” dicono “il pleut”, cioè che c’è qualcosa che piove, e quella cosa è la pioggia, in un circolo di cause ed effetti semantici e metereologici che si mangiano la coda manco fosse l’Uroboro.
Dunque, fare cultura.
Per fare cultura bisogna anzitutto sapere che cos’è, ma la sua identità, per quanto sfuggente, è per forza legata al come, quando, quanto e perché. E tutte queste belle variabili afferiscono a un unico grande concetto, quello del luogo. Ma non il luogo dello spirito delle quarte di copertina dei libri, proprio il luogo fisico, o virtuale che sia. Ci vuole una stanza, o un sito, in un palazzo, o in un server. Ci vuole una data, ci vuole della gente che si sbatte per farla e della gente che si sbatte almeno altrettanto per sentirla, o accoglierla, o cliccarci sopra. Ascoltare cultura fa parte della stessa pratica del farla, e qui arriviamo al secondo grande concetto, oltre al luogo, cioè la collettività. La cultura si fa in tanti e non deve essere parlata per forza; anche chi ascolta, chi recepisce fa e, soprattutto, si fa cultura. Se fossi al bar e non su Finzioni, tutto questo pippone lo riassumerei con: per fare cultura ci vuole un posto e della gente. Ed è su quello che vorrei concentrarmi.
Ci vuole un posto, allora. Non tutti i posti vanno bene, non tutti i sistemi funzionano. Io sono nato in una piccola cittadina in Romagna che mi ha coccolato fino alla mia università. Ci stavo bene ma poi, appena ho potuto, sono scappato a Bologna, perché a casa non volevo più rimanerci, mi annoiavo. Stessa cosa da Bologna, dopo la laurea, sono scappato a Milano. E qui mi sono fermato, perché a Milano me la lasciano fare, la cultura. Ci sono i posti per farla, e c’è anche il pubblico. Non parliamo per forza di libri, che letteratura/cultura è un binomio che spesso rischia di diventare un’equivalenza, idea poco salutare per entrambi i termini relati. Parliamo di teatro, piuttosto, per esempio. Milano è la migliore città d’Italia per i teatri, e non lo dico io, lo dice un sacco di gente che adesso andremo a raccontare. Perché, poi, se una città è fatta di vetro e cemento e asfalto, e può anche essere, non è certo raccontabile attraverso il vetro, il cemento e l’asfalto. È raccontabile, piuttosto, attraverso le persone che ci stanno dentro e che la fanno proliferare.
Io ne ho incontrate tre, questa volta, per chiedergli come funziona Milano attraverso le loro storie e quello che fanno. Il progetto si chiama #MilanInSight ed è un racconto molto più grande di me dove tantissime persone e personaggi raccontano la loro città. I tre fortunelli che si sono cuccati il sottoscritto sono Giuseppe Ettorre, primo contrabbasso della Scala e insegnante presso l’Accademia della Scala e la Scuola Musicale, poi Erica Del Bianco, attrice di teatro e cinema e Tommaso Amadio, co-direttore artistico del teatro dei filodrammatici di Milano e insegnante all’Accademia. Con loro ho parlato di teatro e del suo farsi, di musica e del suo farsi, di libri e letture e, soprattutto, di questa città in cui ci viviamo in tanti e di cui siamo innamorati in tantissimi.
Pronti? Via.
Giuseppe Ettorre, quando gli chiedo di Milano e di come funziona fare cultura a Milano per chi fa musica e teatro, mi risponde diretto così:
Il modo di lavorare qui alla Scala a Milano è davvero pari a quello dei grandi teatri europei. Da un punto di vista musicale è sempre stata una città ricettiva. Oltre alle grandi strutture, oggi esistono tante piccole realtà che continuano a fare musica.
È un momento storicamente difficile, oggi è più complicato trasformare la musica, il teatro in un lavoro ma moltissimi giovani scelgono Milano e non altre città perché almeno qui queste realtà esistono e puoi riuscire a fare il tuo lavoro e a suonare il tuo strumento. Era una città che offriva prima e che offre ancora tanto adesso ed è un ottimo punto di partenza per chi vuole spostarsi all’estero e vivere realtà musicali europee.
Ecco, questa è una cosa che mi interessa un sacco. Almeno qui le cose te le fanno fare, hai la possibilità di farle. E non è poco. Si potrebbe dire certo che è il minimo, e forse è vero, dovrebbe essere il minimo, ma non si può perorare contro la struttura e, intanto, prendiamoci quello che c’è di buono. E quello che c’è di buono me lo dice un po’ dopo Tommaso Amadio, e fa più o meno così:
Posso pensare a Milano in parallelo con altre città e oggi credo che questa sia la capitale del teatro e dell’evento dal vivo italiana. Perché ha tante realtà imprenditoriali strutturate e importanti che possono davvero creare un ambiente competitivo in senso positivo. È una città dove le cose possono ancora muoversi e realizzarsi grazie al confronto. Questo è il vero significato di miglioramento.
E questa è la parte professionale della questione. Chi vuole fare cultura e fare anche soldi con la cultura, che significa più o meno camparci e dunque avere la possibilità di dedicare il proprio tempo al farla, a Milano si trova bene o, almeno, riconosce la struttura adatta. Ma le città non sono le loro opportunità, al limite ne vengono agghindate. Le città sono le proiezioni e le introiezioni dei nostri sentimenti verso la collettività di persone con cui stiamo andando a fare sistema.
Come dite? È già finito? No, è finita la prima parte. La prossima volta continuiamo a raccontare Milano attraverso le sue voci e i suoi modi di prendere la cultura e farla sua. Adesso andiamo a prenderci un aperitivo sui Navigli, su.
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