Quando, alla tenera età di 27 anni, ho scoperto che il pronome sé può mantenere l'accento anche se accompagnato da stesso, ho subito pensato alla maestra Irene.
La maestra Irene era la mia severissima maestra di italiano delle elementari, una specie di Spezzindue nostrana con l'accento romagnolo e un vistoso porro sulla guancia con tanto di pelazzi sopra. La maestra Irene era l'incubo di tutta la sezione, ma era impeccabile e preparata, e se oggi riesco a mettere insieme due parole senza troppi sgarri lo devo principalmente a lei. Ecco, se mai avessi scritto, in un tema delle elementari, sé stesso con l'accento, la maestra Irene mi avrebbe fatto una lavata di capo di quelle epocali, con le labbra tremolanti e i pelazzi a ritmo. Eppure, sono moltissimi i grammatici a ribadire quanto questa regola sia fasulla e, per citare il linguista Adriano Colombo, «fastidiosa in sé stessa».
Questa digressione nei miei trascorsi scolastici solo per dire una cosa, e cioè che pensare alla maestra Irene e alla sua regola-non regola del sé stesso senza accento mi ha fatto capire una cosa importante: tutti sbagliano, perfino i maestri.
Lo dice anche Andrea De Benedetti, e lo afferma, bontà sua, addirittura nel sottotitolo del suo libro La situazione è grammatica, che infatti recita «Perché facciamo errori. Perché è normale farli».
A dispetto delle sue centoquaranta pagine scarse, il volume è un nutrito compendio di tutti gli errori e strafalcioni più comuni nei quali incappiamo noi italiani, corredato da esaustive spiegazioni sul perché la norma prescrive una cosa piuttosto che l'altra. Se il vostro animo grammar nazi sta già applaudendo vi sedo subito: l'autore è tutto tranne che un maestrino in erba, e il suo obiettivo non è certo tirarsela o, peggio, fornire strumenti utili al prossimo per farlo. De Benedetti, molto semplicemente, ci mostra la nostra lingua per quella che è: una lingua tanto bella quanto dispettosa, a volte perfino burlona, la lingua in cui «staccato si scrive tutto attaccato e tutto attaccato si scrive staccato», dotata di regole difficili da trangugiare proprio perché spesso poco raziocinanti.
Ed è lì, in quell'intercapedine tra la norma e l'uso che inciampa l'errore, quel povero diavolo che, se e quando commesso, ha risvolti ben più gravi sul piano sociale che non su quello prettamente comunicativo, perché «se sbagliare è nella nostra natura, gioire degli altrui sbagli e correggerli con accanimento è uno dei fondamenti della nostra cultura».
Con garbo e cortesia, De Benedetti ci dice dunque di piantarla con il Requiem innanzi all'accento sbagliato o alla regola violata: l'errore è l'elettrocardiogramma della lingua, è ciò che ci fa capire che la lingua è viva e ruspante, il «principale indicatore della vitalità di un idioma». È certo legittimo tutelare l'italiano e difenderlo dai tanti pigroni e noncuranti che lo vilipendono; ma prendere la lingua, impagliarla ed epurarla da ogni sbaglio, vorrebbe dire renderla la lingua di nessuno. E questo, fidatevi, sarebbe ben più grave di un congiuntivo cannato.
La situazione è grammatica è insomma un libro tutto dedicato agli amanti della nostra adorata lingua. A chi la ama, però, al punto da accettarne capricci ed evoluzioni, a chi ha voglia di darle il braccio e accompagnarla ovunque vada. A chi la ama, pertanto, più di sé stesso. E l'accento mi sa tanto che lo mantengo, con buona pace della maestra Irene.
Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio, la torre di Pisa.
(Gianni Rodari, Il libro degli errori)
Andrea De Benedetti, La situazione è grammatica, Einaudi, 2015
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