Ho incontrato Joachim Meyerhoff al Salone del Libro di Torino. Ero tremendamente preoccupata perché l'intervista era fissata alle 11 del giorno successivo alla festa della Minimum Fax, ed ero preoccupata di non sentire la sveglia, non ricordarmi cosa volessi chiedere e anche che leggesse nei miei occhi la mia voglia di un cuscino.
Invece è andato tutto bene e sono state delle bellissime chiacchiere (voglio ringraziare Francesca, sua editor, per la traduzione e la gentilezza).
Joachim Meyerhoff è un attore teatrale molto famoso in Germania, la sua terra di origine. Ha scritto un romanzo che si intitola Quanto tutto tornerà ad essere come non è mai stato, (edito Marsilio e di cui potete leggere QUI) che gli è valsa la candidatura all'Ingerborg Bachmann Preis e al Deutscher Buchpres, i due maggiori premi letterari tedeschi.
Quando si pensa alla letteratura tedesca si pensa a una letteratura con una certa tradizione alle spalle, importante, una letteratura quasi pesante. Questo libro, pur essendo solo in apparenza un libro ironico, riesce a trattare temi come la solitudine, la famiglia e la disgregazione della famiglia anche con una dose di leggerezza. Sta nascendo una nuova generazione di autori che provano a svecchiare la letteratura tedesca, o meglio lo stereotipo della letteratura mitteleuropea?
Non credo ci sia una vera e propria nuova corrente, o un nuovo modo di fare letteratura. Posso parlare per me, ovviamente, e per la mia opera. Esiste ancora questo modo di percepire la letteratura tedesca con molta serietà, però ritengo che il leggero e pesante siano assolutamente intrecciati tra loro, indissolubilmente. Vanno di pari passo. Per me è importante raccontare il "pesante" attraverso la battuta e lo spirito, e forse questo è dettato anche del mio lavoro di attore.
Una cosa che ho notato, in generale, non solo nella tua opera, è il bisogno, da parte degli scrittori, di parlare di sé, di attingere alle storie personali, ombelicali. Mi sembra ci sia quasi un'incapacità, negli ultimi 15-20 anni soprattutto, di inventare totalmente una storia, come se fosse assolutamente necessario (o più facile) guardare dentro di sé, anziché fuori. Per te è più facile partire dal dentro? O il tuo lavoro di attore, che è un lavoro di interpretazione dell'esterno, ti porta a preferire il raccontare il non-reale e la finzione?
Per me inventare è re-interpretare qualcosa che ho già vissuto, in qualche modo. Anzi, il contrario. Inventare è un modo per tornare a qualcosa di mio, qualcosa che ho vissuto. Cerco di mescolare realtà e finzione, partendo dalla finzione e piano piano tornando all'autobiografico. Succedono cose buffe, per esempio quando ho scritto un capitolo del libro che per me era assoluta finzione. L'ho fatto leggere a mio fratello e gli ho chiesto se pensasse fosse un buon pezzo, sottolineando che l'avevo inventato. Lui ha esclamato: "No! è successo davvero!" E questa è una cosa che mi è capitata diverse volte nel corso della stesura di questo libro. Io ricordo le atmosfere del mio passato, e ci scrivo sopra, e piano piano scrivo cose di finzione, che diventano poi reali, tornano a essere reali. L'atmosfera del mio ricordo mi fa avvicinare sempre di più a quello che è successo, e questo attraverso la finzione.
In questo libro la casa della famiglia protagonista è al centro di un ospedale psichiatrico, è cioè circondata da una serie di edifici che accolgono i malati che il padre di Josse, direttore del centro, segue e cura. Durante le storia si può sentire e percepire chiaramente che malattia e "sanità" convivono insieme. Gli stessi protagonisti, che non sono pazienti del centro, hanno tutti, in diversi momenti, una curva verso la malattia, o meglio dei tratti del loro carattere che li rendono più vicini ai "dementini", come li chiamano i personaggi, che a loro stessi. Credi che anche nella vita sia così? Convivono insieme le due cose?
Assolutamente sì, credo sia così. Ogni famiglia ha la propria dose di malattia dentro di sé, solo che si cerca di coprire, di reprimere, si tende cioè a voler apparire perfetti e tracciare una linea retta, anziché accomodarsi su onde e dislivelli, con il risultato che ad un certo punto la pentola salta in aria e c'è un'esplosione. Crediamo sia possibile tenere repressa ogni cosa "anormale" o fuori dagli schemi, ma è impossibile, alla fine qualcosa salta. Io nella mia famiglia ero il più piccolo ed ero quello che ha visto con più prepotenza tutte queste imperfezioni scoppiare e cadere addosso a me. Ma mi è anche piaciuto tantissimo, perché mi ha permesso di sviluppare un certo tipo di umorismo e di capire che non era solo drammatico, ma anche divertente. Non solo vedere la mia famiglia, ma anche conoscere e passare del tempo con i pazienti di mio padre. Era una sorta di paradiso nell'inferno.
L'ultima domanda. Il nostro blog ha come motto "la letteratura è noiosa, leggere è fico". Cerchiamo cioè di trattare con leggerezza contenuti pesanti, ed anche per questo mi è molto piaciuto il tuo libro. Flirtare però è una cosa seria, e insomma, con quale personaggio letterario flirteresti e usciresti a cena?
Che bella domanda! Deve essere un personaggio, vero? Perché per diversi anni sono stato letteralmente innamorato di Sylvia Plath e per me era assolutamente inconcepibile che fosse morta, volevo incontrarla e conoscerla. Attorno a 21 anni ero assolutamente convinto che poteva essere la donna della mia vita. Ma tu mi chiedi un personaggio e quindi fammi pensare [pensa e passa un minuto buono prima che risponda].
Forse è più facile se penso al mio campo, il teatro, e dico Antigone. Era una donna estremamente interessante. La sto portando in scena in questo periodo, interpreto Creonte, un personaggio maligno ed molto razionale, mentre lei è matura ma estremamente libera, vive il momento, è molto attaccata all'ora e adesso. Ho la sensazione che se uscissi a cena con lei succederebbe qualcosa, a quel tavolo. Non so cosa, ma qualcosa succederebbe, non si tratterebbe di stare semplicemente seduti a cena, e credo sarebbe molto divertente!
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