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Puškin e Emerson: due insoliti ignoti

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Aleksandr Puskin 1 Puškin e Emerson: due insoliti ignotiÈ un peccato che Puškin sia morto a 40 anni. E non lo diciamo per tutti i capolavori che avrebbero visto la luce se fosse vissuto qualche anno di più; la verità è che ci sarebbe tornato comodo che fosse morto a 27 anni, come Jimi Hendrix e compagnia cantante, per poter dire senza timore di essere contraddette: Puškin era una rockstar! Dai guai con le donne ai problemi più seri con le istituzioni, tutto lo rende una sorta di dandy ante litteram. Diamine, stiamo parlando di un uomo morto in duello per amore! Jim Morrison avrebbe pagato per fare una fine del genere (Mick Jagger probabilmente ci spera ancora…). Ma soprattutto stiamo parlando del capostipite della letteratura russa così come la conosciamo oggi. Dostoevskij ha detto "Siamo tutti usciti da Il cappotto di Gogol"; bene, non ci sarebbe stato nessun cappotto senza Il cavaliere di bronzo di Puškin, benché oggi si faccia quasi fatica a trovare il nome del poeta tra gli scaffali della narrativa straniera.

Insomma, dobbiamo rendere giustizia a Puškin, perché è un dato di fatto che se prima di lui in Russia c’era poco, dopo è cambiata ogni cosa. Spieghiamoci meglio.

L’universo letterario russo prima dell’Ottocento era abitato da noiosissimi monaci il cui compito era per lo più quello di copiare le sacre scritture in paleoslavo – esiste, croce sul cuore, ed è una lingua paragonabile circa al nostro latino. La parola scritta era sempre legata a doppio filo a quella divina, e c'era poco da fare. Sicuramente di "fiction" (nel senso stretto del termine) neanche l'ombra. Un bel giorno del Seicento Pietro il Grande, omone di due metri per due, torna dall’Europa deciso a occidentalizzare la sua Russia, infestata da patriarchi ortodossi barbuti e pigri: e così, sbarbati, i russi hanno cominciato ad andare a teatro e persino a leggere qualche riga di quella blasfemia che era la letteratura.

Ecco, Aleksandr Sergeevič Puškin nasce nel 1799, dopo che la rivoluzione culturale di Pietro ha avuto un secolo per assestarsi e, anche se in molti si stavano finalmente cimentando nella nobile arte della letteratura, la maggior parte si limitava a scopiazzare poesie e prose della Francia del tempo. E in questo clima europeizzante, dove tutto galleggia ma poco spicca, esplode l'opera-dinamite di Puškin: il nostro poeta non solo crea la lingua, originale e verace, con cui far parlare la Russia, ma anche – e soprattutto – va a inventarsi qualcosa che non ha nulla a che vedere con la vecchia Europa, qualcosa che affonda le proprie radici nella sola madre terra Russia e non accetta compromessi con storie letterarie di altri paesi. È Puškin il primo a scrivere della natura, della gente, dell’anima russa. Siccome poi il nostro scrittore è uno di quei geni “multitasking”, non si cimenta in un solo genere originale, ma scrive un po' di tutto: c’è il suo capolavoro, l'Evgenij Onegin – che i russi citano a memoria mentre fanno colazione – che è un poema in versi; ma scrive anche drammi storici, liriche, racconti, piccole tragedie, insomma: chi più ne ha più ne metta (ricordate: in soli quarant’anni di vita!). L’influenza del giovane scrittore nella società del suo tempo era innegabile. Puškin sgambettava allegro fra i circoli letterari e ristoranti alla moda, si prodigava in consigli a destra e a sinistra – pare abbia suggerito trame di capolavori a gente come Gogol’; faceva proprio una vita da Vip ottocentesco. Ma ovviamente, la pena del contrappasso era proprio quella di essere una rock star nel paese sbagliato, ovvero la cara Russia zarista, dove non solo c’era una commissione per la censura, ma i suoi testi per sicurezza venivano letti direttamente dallo zar – il quale probabilmente aveva annusato il potenziale rivoluzionario che soggiaceva sotto tutta la sua opera.

Sarà stato per questo che il tenero imperatore gli proibisce per tutta la vita di uscire dai confini della sua madre patria?

 Puškin e Emerson: due insoliti ignotiPeccato in effetti che non abbia potuto farsi un giro in America, sarebbe stato bello vedere cosa si sarebbero detti lui e un altro Vip americano del suo tempo, Ralph Waldo Emerson. Anche sentendo il nome di Emerson il lettore che non è cultore della materia magari rimarrà un po’ spaesato. Eppure è il fondatore di quel circolo che a Concord ha visto fiorire i primi capolavori americani di, tanto per snocciolare due nomi, Henry David Thoreau, Louisa May Alcott, Nathaniel Hawthorne. Il movimento letterario nato tra un biscotto e un pasticcino nel salotto della casa di Emerson si chiama Trascendentalismo – una versione tutta americana del Romanticismo europeo, nonché il fondamento della letteratura americana moderna. Tutto – tutto - quello che c’è alla base di questo movimento l’ha teorizzato lui. Il caso (o il canone?) vuole che la cricca di artisti suoi seguaci abbia riscontrato una fama più solida e longeva di lui. Come Puškin, anche Emerson ai suoi tempi era un Vip a tutto tondo, noto e amato. Emily Dickinson lo ammirava a tal punto che quando il filosofo andò a tenere un seminario ad Amherst si dice che la poetessa non avesse avuto il coraggio di scendere in soggiorno per andare a conoscerlo. Ma questi sono solo pettegolezzi, torniamo al punto: la verità è che prima del Trascendentalismo – e quindi prima del nostro filosofo – anche in America, come in Russia, c'era poco niente da leggere.

I padri fondatori, come i monaci russi, avevano scritto principalmente trattati religiosi o, quando proprio erano in vena di esser leggeri, diari sul travagliato viaggio verso il New England, sulla santa perfezione delle colonie puritane, sulla pericolosità degli indiani indiavolati. Solo nel Settecento, finalmente, nasce un input letterario, questa volta sulla falsa riga dei masterpiece della buona vecchia Inghilterra. Ma il bello deve ancora venire. Con il cambio di secolo e soprattutto con l’indipendenza dalla corona inglese l’America, in un certo senso, nasce; comincia allora a diffondersi una forma di nazionalismo artistico che presto, in letteratura, si traduce nel Trascendentalismo, che non ha più nulla a che fare con Shakespeare o Milton ma parla proprio in americano. Il manifesto del movimento si chiama Nature (un nome che è tutto un programma) e indovinate un po’ chi l’ha scritto? Proprio lui, il nostro Emerson, che dà il via a tutti quei nodi fondamentali dell’identità letteraria della sua terra. Il punto di partenza è proprio il suolo americano, con la sua wilderness e i suoi spazi immensi: “America – dice Emerson – is a poem in our eyes”. Bisogna attingere dalla natura americana perché è un tesoro prezioso che quei dinosauri di europei non hanno mai né visto né immaginato.  La scrittura deve sgorgare da un’esperienza personale, senza far conto di esempi o stereotipi altrui: ciò che è vero è ciò che l’individuo ha dentro di sé.

Ode alla natura, ottimismo, autonomia, self-reliance. Ecco le parole chiave di Emerson e di tutta la letteratura americana – e dell’America: da Walt Whitman ad Alice Munro sono tutti usciti dal salotto di Emerson.

È dura relegare due personalità della grandezza di Emerson e Puškin nel minuscolo spazio vitale di un articolo. Ma l’assaggio che abbiamo offerto al lettore vorremmo servisse da promemoria: allora diamo a Cesare quel che è di Cesare e, quando leggiamo qualsiasi romanzo, novella o poesia made in America/Russia, ricordiamoci dei nostri due insoliti ignoti. Perché solo così possiamo rendere giustizia a chi ha dato una voce letteraria a quelle terre che in tanti poi hanno cantato.

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