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Gli Aristodalloway

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Gli elementi fondamentali de Gli Aristogatti sono essenzialmente due: i suoi protagonisti, e ciò che rappresentano. Una ricca e piacente ereditiera, munita di prole ma priva di marito, e un immigrato italiano – almeno nella versione nostrana – apparentemente nullafacente. 

Condita di romanticherie e sentimentalismi di ogni tipo – ricorderete il paragone di ispirazione shakespeariana tra gli zaffiri e gli occhi di Duchessa – la trama del cartone Disney targato 1970 si potrebbe sintetizzare in: storia d’amore in grado di abbattere qualunque barriera socioeconomica, con successivo «e vissero tutti felici e contenti». 

Escludendo qualunque tipo di romanticismo, invece, la sinossi risuonerebbe più o meno così: un gatto randagio, povero ma ricco di amici, emigrato a Parigi dall’Italia – ripeto, nella versione italiana – riuscirà ad accalappiare una ricca ereditiera, dalla quale si farà mantenere fino alla fine dei suoi giorni. Lo so, per chi è cresciuto con Gli Aristogatti, per chi conosce e canta a memoria ogni canzone, sia in italiano che in inglese, per chi – e qui mi rivolgo soprattutto alle donzelle – si è sciolto di fronte ai complimenti romantici da zoticone di Romeo, assolutamente attraente proprio perché rude – l’omm addà puzza della Disney – l’idea di ridurre una relazione sentimentale a un semplice inganno e utile economico sarebbe una tragedia.

Per tale motivo, dimenticheremo da qui all’eternità quest’ultima parte, e continueremo a pensare a Duchessa e Romeo come all’emblema di un amore che non conosce ostacoli, che siano questi una grammatica folkloristica o un appartamento un po’ troppo rustico. Se la Disney ci ha insegnato che il lieto fine è in fondo possibile, che la differenza sociale potrebbe non scalfire le ambizioni dei singoli, La Signora Dalloway, scritto da Virginia Woolf nel 1925, ha il compito di riportarci sul pianeta Terra.

Clarissa potrebbe essere una Duchessa non disneyzzata, una ricca inglese snob – ammetto di averlo pensato anche della gattina, che però è francese – che ha preferito sposare un pragmatico membro della Camera dei Lord, decisamente più elegante e cordiale, rifiutando quello che probabilmente sarà poi l’amore di una vita, il sentimentale e rude Peter Walsh, non riuscito a concludere nulla.

Possiamo pensare a Duchessa come a una Clarissa Dalloway politically correct; d’altra parte il film della Disney è stato prodotto, realizzato e distribuito in pieno periodo sessantottino, tra contestazioni giovanili, rivendicazioni sociali ed estremo bisogno di eguaglianza. Nel momento storico più a sinistra nel secolo scorso, Gli Aristogatti hanno rappresentato, quindi, l’utopia più utopica del mondo Disney. In una sorta di My Fair Lady al contrario – al di là del papillon, il comportamento di Romeo non verrà mai nobilitato, ma semplicemente accettato – lo zoticone volgarotto si innamorerà nella bella aristocratica di turno – e fin qui tutto bene – mentre lei sarà travolta dall’approccio pittoresco di un gatto di borgata, che non saprà a memoria Shakespeare, ma sarà comunque in grado di adulare una donna, di riconglionirla al punto tale da spingerla a condividere con lui il patrimonio ereditato (quest’ultima è la versione preferita dai più cinici).

Sul fronte Woolf, c’è più struggimento, più tensione sociale: sposare Richard Dalloway, ricco e di buone maniera, o Peter, scontroso, geloso e in perenne sofferenza sentimentale, e non gradito a papà? Oppure scegliere Sally, l’amica di infanzia, amata come mai nessun altro? La scelta di Clarissa sarà ciò che di più lontano possa concepire la mente di Duchessa.

Non tutto è perduto, però, miei dolci sentimentali! Sì, Richard è il vincitore dell’ardua sfida, ma l’esistenza della signora Dalloway sembra essere legata a quella di un giovane ex soldato della Prima Guerra Mondiale, profondamente provato dall’esperienza bellica. Anche qui, al di delle differenze socioeconomiche, i due saranno accomunati da un destino comune, un senso di morte, inquietudine e insoddisfazione. Da una parte lui, Septimus, diventato apatico dopo aver assistito alla morte di un amico in battaglia, sposo di una donna che non mai amato – i ricordi più belli sono legati a un amore giovanile che gli permise di conoscere Shakespeare, anche qui molto presente – e lei, Clarissa, malata da tempo e in lotta con i fantasmi del passato.

I due epiloghi, quello letterario e quello cinematografico, sembrano essere decisamente sovrapponibili, anche se distanti per clima e atmosfera: al lieto fine disneyano, con tanto di foto ricordo a casa di lei e un Romeo ormai membro della famiglia Bonfamille – nome particolarmente esaustivo – si affianca l’elegante festa che Clarissa ha organizzato nella propria abitazione, durante la quale lo psicologo William Bradshaw riporterà alla padrona di casa il triste suicidio di un veterano di guerra, Septimus. Sarà il momento in cui il legame tra Clarissa e il giovane, serpeggiante per tutto il libro, diventerà tangibile, l’attimo in cui la nostra protagonista proverà una forte connessione col suicida, dopo un pomeriggio passato a distogliere il pensiero da Peter Walsh. Mondi lontani, eppure vicini.

Insomma, vari modi per dire la stessa cosa, un po’ come Romeo che personalizza Shakespeare: «l'occhi tua so' du' zaffiri splendenti, che mandano raggi caldi e seducenti», in sostituzione al dialogo di quei due ragazzini estremamente famosi in preda a furori adolescenziali: «e se davvero gli occhi di lei, gli occhi del volto, fossero stelle?»

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