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Fabio Viola – I dirimpettai

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La cosa che mi ricordo di più dei miei cinque anni di semiotica a Bologna, oltre alla quantità smodata di vino rosso da quattro soldi, è l’estrema difficoltà un po’ di tutti noi, nei primi anni, nel capire due concetti cardine di tutta la disciplina: il quadrato semiotico (ed evidentemente c’è qualcuno che non l’ha ancora capito) e l’istanza dell’enunciazione. L’istanza dell’enunciazione è una roba fuori di testa, talmente astratta da fare il giro e ritornare reale come un'incudine di ghisa.

In poche ed ermetiche parole: l’atto concreto di produzione del senso è ineffabile e non analizzabile, è un’astrazione pura che scontiamo prendendo per buono il fatto che il senso, semplicemente, si dà, noi ci siamo dentro fino al collo e non possiamo razionalizzarlo, visto che non esistiamo al di fuori di esso. Per costruire delle categorie d’analisi, allora, bisogna inventarsi un simulacro, un’istanza teorica che funge da enunciatore, il punto di partenza, l’io-qui-ora (di benvenistiana memoria) da cui si attualizza la narrazione e si mette in discorso l’enunciato. Non esiste niente del genere nella realtà, ovviamente, ma la teoria strutturalista e generativa ha bisogno di postularlo per trovare una fonte, un’origine logica dell’innesco dell’enunciato.

Bene, non si capisce un cazzo. Per intuire davvero la portata di questa idea (che è una bomba, secondo me), ci abbiamo messo tutti un bel po’ di tempo. Tuttavia, se avessimo avuto sottomano I dirimpettai, il nuovo romanzo di Fabio Viola, sarebbe stato tutto molto più semplice. Bisognerebbe dire all’Alma Mater di Bologna di adottarlo come testo di studio, sarebbe divertente. Comunque, dobbiamo spiegare perché.

idirimpettai Fabio Viola   I dirimpettai

Intanto la storia, in breve. Ci sono due uomini che lavorano in RAI e che vivono all’ultimo piano di un bellissimo appartamento romano. Sono gay, stanno insieme, quello più anziano è un pezzo grosso che ha coinvolto il più giovane nel giro giusto ma lo tratta come una pezza da piedi. Sono ricchi, sono snob, sono antipatici, sono cattivi, trattano male la servitù, trattano male i parenti e le vecchie, prendono per il culo Adriana Volpe, rompono il cazzo a Corrado Augias e liquidano Gianni Alemanno con un buffetto. Fanno ridere per l’assurdità della loro vita quotidiana e fanno venire il nervoso più o meno per lo stesso motivo. Poi succedono altre cose che lasciamo il piacere di scoprire durante la lettura. Tutta questa bella storia è raccontata da uno sguardo esterno, da un voyeur invisibile che chiama i due protagonisti “dirimpettai”. Li chiama “dirimpettai”, “il dirimpettaio giovane” e “il dirimpettaio anziano”. Niente nomi propri, niente ruoli.

Ecco, a questo punto ci sono molte cose da dire. Anzitutto che la parola “dirimpettaio” presuppone un doppio legame e abolisce una gerarchia di sguardi: per essere un dirimpettaio ci vuole qualcuno di cui essere dirimpettai; se io sono il tuo dirimpettaio, allora tu sei il mio. Ma se io ti guardo senza essere visto, senza che tu sospetti la mia presenza, allora tu sei il mio dirimpettaio e io, per te, non sono nessuno. Esisto solamente in quanto emanazione della categoria che ti definisce (quella di essere dirimpettaio e, dunque, dirimpettaio di qualcuno); sono l’istanza che presuppone il tuo essere dirimpettaio. Senza il voyeur che segue passo passo la giornata casalinga dei due protagonisti – perché, ovviamente, quando loro vanno al lavoro smettono di essere dirimpettai e, dunque, non vengono visti né raccontati – la vita di questa coppia così male assortita non sarebbe raccontabile, quindi in un certo senso non esisterebbe. I dirimpettai esistono solo nella misura in cui c’è qualcuno che li guarda e li racconta, che li mette in discorso, un io-qui-ora che li emana.

Il palazzo romano in cui vivono i dirimpettai è una metafora perfetta di un ecosistema narrativo: i suoi limiti coincidono con i limiti di campo dell’istanza dell’enunciazione (racconta solo quello che vede) e i personaggi sono definiti solo al suo interno e a partire dall’istanza teorica che li presuppone (se escono non sono più dirimpettai di nessuno, dunque non sono più loro). E Fabio Viola ha scritto il manuale di semiotica perfetto perché non ti spiega le cose, te le fa capire dicendo altro. E poi fa ridere un sacco, e non è roba da poco, vista la mattonaggine della materia. 

Fabio Viola – I dirimpettai – Baldini&Castoldi 2015 – 191 pagine – sedici euro

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