I detrattori di Lena Dunham, quelli che la accusano di essere stata avvantaggiata dal suo status di figlia di artisti della upper-middle class newyorkese, le rinfacciano soprattutto una cosa: Lena Dunham ama guardare il suo ombelico e parlare solo di quello. Ovvio che, essendo questa la recensione di un’autobiografia, è di questo che stiamo parlando, ma se conoscete un po’ la Dunham e l’avete seguita fino a qui saprete che la narrazione ombelicale è caratteristica di tutta la sua produzione artistica.
La spinta a raccontarsi, che è poi diventata bisogno compulsivo di farlo, le arriva in una serata tra amiche nel periodo immediatamente successivo alla laurea all’Oberlin College, periodo nel quale, indecisa su cosa fare da grande, vendeva vestiti per bambini a prezzi esorbitanti in un negozio di Tribeca, servendo (e facendolo pure male) clienti come Gwyneth Paltrow. Una di quelle sere la Dunham, ridendo con le sue compagne di lavoro e di privilegi Isabel e Joana mentre si preparavano per l’ennesimo evento al quale non erano state invitate, si è detta:
Perché questa storia non la raccontiamo? La storia di figlie del mondo dell’arte che cercano (senza riuscirci) di essere all’altezza dei successi dei loro genitori, incerte sulle loro passioni, ma sicure di volere la gloria.
Quella sera nacque Delusional Downtown Divas, una webserie amatoriale che parlava della vita di tre ragazze newyorkesi aspiranti artiste; una delle tre, aspirante scrittrice, era Lena.
Poi ci fu Creative Nonfiction, il suo primo film nel quale "la scena in cui ho perso la verginità è raccontata piuttosto fedelmente". Poi Tiny Furniture, il secondo lungometraggio scritto, girato e interpretato dalla Dunham che racconta la storia di una ragazza neolaureata in cinema e senza prospettive, che torna a casa dai suoi – un loft a Tribeca – e del rapporto con la madre fotografa.
E poi Girls, che conosciamo tutti, la serie HBO sulle vicende di un gruppo di ventenni di Brooklyn alle prese con svariate problematiche affettive, sessuali e professionali. La protagonista, Hannah Horvath, è un’aspirante scrittrice che nella prima puntata della serie viene scaricata (economicamente) dai suoi genitori, che le intimano di camminare sulle sue gambe. È ancora una volta Lena, e l’episodio nel quale i suoi le dicono di trovarsi qualcosa da fare per mantenersi è raccontato anche nel libro, creando un corto circuito tra la protagonista di Girls e l’autrice del libro sul quale già si scherza in rete.
Non male per una ragazza che a 28 anni si è già raccontata con molti dei mezzi a disposizione di un’artista, diventando presto avvezza all’esibizionismo e mettendosi a nudo sullo schermo e sulla carta.
Per cui, quando mi è stata data la possibilità di fare una serie televisiva, ho fatto quello che facevo da quasi cinque anni con produzioni molto più "indipendenti": mi sono spogliata e ci ho provato.
Ma come mai l’ombelico della Dunham è (e rimane) così interessante da aver incollato davanti allo schermo centinaia di migliaia di persone e averle fruttato un contratto di 3,5 milioni di dollari con Random House?
Per almeno tre motivi. Il primo è che l’ombelico di Lena Dunham è un po’ l’ombelico di tutte noi, o delle nostre amiche, sorelle, colleghe, e se non lo è, assomiglia tanto al ricordo che abbiamo del nostro ombelico di qualche anno fa.
E per questo scatta il meccanismo dell’immedesimazione, non delle proprie esperienze di vita ma delle relazioni con se stesse e con gli altri, che è poi l’unico motivo per il quale si può parlare di questo libro come di qualcosa a metà tra un memoir e un manuale di self help. Non aspettatevi capitoli dal titolo "Come evitare di andare a letto con un uomo che non vi piace" o "Come trovare il lavoro dei vostri sogni ad un giorno dalla laurea". Non ci sono quasi mai consigli diretti ed espliciti. Se di manuale si può parlare è perché leggendo delle cose improbabili che la Dunham ha detto flirtando o della sua attrazione per gli idioti, direte : è successo anche a me, o mi sta succedendo ora, o potrebbe succedermi domani.
Se quello che ho imparato potrà esservi di una qualche utilità o risparmiarvi di fare sesso quando avete la sensazione che sarebbe meglio tenervi le scarpe ai piedi nel caso foste assalite dall’irrefrenabile desiderio di scappare proprio mentre lo state facendo, allora sarà valsa la pena di commettere ogni mio singolo errore.
Il secondo motivo è che Lena Dunham è divertente e la sua scrittura è brillante (e brillante è la traduzione di Tiziana Lo Porto). È divertente la divisione del libro in argomenti "capitali" della vita di una donna (amore e sesso, corpo, amicizia, lavoro); sono divertenti i titoli dei capitoli (roba come Prendi la mia verginità. No dico sul serio, prendila e Chi ha spostato il mio utero?), ed è divertente la sua propensione a ritrarsi in modi inclementi o grotteschi. La Dunham non è sempre buona con se stessa, non si risparmia niente, si espone tantissimo. Ma alla fine è evidente che si piace. Non siamo così anche noi?
Il terzo motivo di questo interesse, e la Dunham ne deve essere consapevole, è che il memoir è spudorato (ovvero, che denota mancanza di pudore). Certo, l’autrice regala scorci della sua adolescenza hipster e privilegiata nella scena artistica newyorkese dei primi anni ’90, cose tipo la sua consapevolezza di essere femminista ancora prima di diventare donna o la consulenza di Dimitri, il veggente della madre. Ma quello che rende questo libro diverso da una biografia auto-celebrativa, scritta per farsi bella buttando qua e là qualche esperienza infelice al fine di rendersi credibili, è che la Dunham racconta cose che non vorreste che nessuno a parte la vostra migliore amica o la vostra ginecologa sapessero di voi, ma che fanno parte della vita fisica di una donna di vent’anni. Tutto quello che accade intorno alla sua vagina – principale organo emozionale, secondo il memoir di Susanna Kaysen citato dall’autrice - ci viene svelato con un’onestà che lascia spiazzati e a volte infastiditi. Dalla prima volta che si è masturbata a otto anni nel bagno dei suoi genitori, a quella in cui ha guardato dentro alla vagina della sua sorellina, dalla prima mestruazione al racconto dettagliato di un’ecografia con successiva diagnosi di endometriosi. È come se non ci fosse un filtro tra quello che accade nel suo corpo e noi che la leggiamo, come se la Dunham, «abituata a vivere in un mondo compulsivamente privo di segreti», stesse scrivendo il suo diario.
E dunque sì, la Dunham è una scrittrice sicuramente ombelicale, sotto-ombelicale e estremamente fisica. Può raccontare tutto, superando il pudore e il disagio, forse perché tutto è inventato o ingigantito; lei stessa confessa in più punti del libro di essere una narratrice inaffidabile o di aver reso ricordi suoi cose che in realtà non le sono mai accadute. Poco importa, le esperienze che sono uscite dalla sua vita o dalla sua testa creano un’immagine di lei che ormai è di dominio pubblico e che l’ha esposta a critiche ma l’ha anche resa la voce di una generazione. Or at least a voice, of a generation (per completare il cortocircuito iniziato all’inzio di questa lettura).
Lena Dunham, Non sono quel tipo di ragazza, Sperling & Kupfer, 2014. Traduzione di Tiziana Lo Porto.
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