
Ben Marcus, in un preciso istante della mia vita, mi si è presentato sotto forma di ancora di salvezza. Non che uno dei suoi libri mi abbia illuminato o aiutato in un momento difficile – ancora non avevo letto niente di lui – bastava semplicemente sapere chi era. No, non ha funzionato.
Era l’estate del 2011 e mi era stato proposto di fare un colloquio per seguire un progetto segretissimo, così segreto che al momento del colloquio ancora non avevo chiaro di che cosa si trattasse.
Il colloquio consisteva nell’aprire skype, puntarmi in faccia una telecamera e sottopormi a una serie di prove che mi venivano propinate. Tipo Giochi Senza Frontiere, ma a sfondo letterario. Il mio interlocutore – nonché ideatore del progetto – era un critico letterario piuttosto noto, accompagnato dalla sua fidanzata. Loro la telecamera non ce l’avevano e io ancora oggi mi domando che faccia avessero. Io, piazzata lì davanti e con dietro il muro bianco ricordavo più Aldo Moro che un candidato per un ipotetico ed entusiasmante lavoro.
La terza prova – quando di autostima non c’era più traccia – consisteva nel propinarmi una lista di dieci nomi e io dovevo dire che cosa mi dicevano. La lista arriva e la mia risposta – a quel punto la sincerità non era più un problema – è: niente, niente, niente, niente, niente, niente, niente, niente, niente, niente, ahhh Ben Marcus.
-‘Bene, conosci Ben Marcus, hai letto qualcosa di lui?’
- ‘No, lo conosco solo perché in Italia l’hai portato tu’.
Non sto a dilungarmi su come è andata avanti e nemmeno lo ricordo troppo bene. Ricordo che era il dieci agosto e quando mi è passato il giramento di coglioni aveva smesso di fare caldo da un bel pezzo. Sono passati quasi tre anni e adesso Ben Marcus finalmente l’ho letto.
Leaving the Sea è una raccolta di quindici racconti tristi, a volte teneri e surreali, molto spesso angoscianti, comunque bellissimi.
Mi dicono che sia il libro più ‘leggibile’ e ‘facile’ di Ben Marcus, ma è una lettura impegnativa, a cui sicuramente si deve arrivare preparati.
Che cosa affligge così tremendamente i personaggi di questi racconti? Perché sono tutti così tristi, insicuri, pieni di rimorsi? Il disagio, che assume molteplici forme storia dopo storia, è espresso con una lingua perfetta e delle frasi impeccabili, e va ben oltre la struttura sintattica, i racconti anche tradotti sarebbero altrettanto disturbanti.
Le storie sono molto diverse tra loro e allo stesso tempo si ha l’impressione che il protagonista sia sempre lo stesso, una variazione su un uomo medio che non vuole crescere, incastrato tra età adulta e un’eterna adolescenza.
In ‘What Have You Done?’ un uomo nasconde alla propria famiglia di avere una moglie e un bambino per paura di non essere accettato e apprezzato; in ‘Rollingwood’ un altro si trova a gestire il figlio neonato asmatico, mentre al lavoro viene licenziato e incolpato dalla ex moglie e trova sollievo solo nella solitudine; in 'The Loyalty Protocol', un terzo deve gestire i genitori anziani e il lavoro in una città costantemente sotto allarme. Le paure raccontate sono un denominatore comune costante e la maestria di Ben Marcus sta proprio nella capacità di descrivere personaggi così soli ed incapaci di comunicare con il resto del mondo che il lettore si trova ad empatizzare con loro, per quanto chi legge possa non rientrare perfettamente nella categoria uomini-medi-incapaci-di-crescere.
Ben Marcus, Leaving the Sea: Stories – 273 pp. Alfred A. Knopf. $25.95
PS: Ancora oggi ogni tanto rileggo la lista dei nomi: Dolores Prato, Giovanni Prati, Horace McCoy, Geza Csath, Franco Maria Ricci, Gabriele Mandel, Edmond Jabes, Bartolomeo Cattafi, Joel Bousquet, e, appunto, Ben Marcus. Li ho controllati uno per uno su Wikipedia per capire se mi avevano preso per il culo, ma a quanto pare esistono davvero. Poco dopo aver scritto questo articolo su Nazione Indiana ho trovato questo articolo su Dolores Prato. Chissà se anche di lei un giorno leggerò qualcosa. Vi dirò, l'idea che ci siano ancora così tanti scrittori che devo scoprire non mi dispiace affatto.
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