
«Marco, perché vai così forte in salita?» «Per abbreviare la mia agonia»
(Marco Pantani a Gianni Mura)
Siamo tutti allenatori, durante i mondiali, e tutti giudici di un tribunale non appena l'occasione si presenta, non appena la cronaca ci offre la possibilità di dire la nostra opinione non richiesta e priva della voce giusta.
La vita di Pantani è e sarà sempre una vita discussa, chiacchierata. Sarà sempre sul filo del rasoio dove a destra c’è il campione e a sinistra il tossico dopato e basta uno spiffero di vento per cadere da una parte o dall’altra; anche lui era un po’ così, sul filo del rasoio tra lo sbruffone che sfreccia ai 300 all'ora in autostrada e il ragazzo timido e riservato che preferisce ascoltare anziché parlare, ma parlarne oggi, a dieci anni di distanza da un pomeriggio d’inverno con tanta ombra e molta solitudine, ha un sapore diverso.
Dubito che qualcuno di noi potrà mai stringere davvero tra le mani la verità su Madonna di Campiglio e sul 5 giugno 1999. E lo stesso vale per il pomeriggio del 14 febbraio 2004. Non più quasi estate ma pieno inverno; non più monti ma il mare di Rimini.
La vita di Pantani non è questo, è *anche* questo. Campiglio è un fiammifero lanciato prima di essere spento, Rimini un incendio che distrugge tutto. Il tutto è quello che c’era prima, ed è un tutto troppo grande e spettacolare per non ricordarsene dopo che il fumo se ne va.
I libri sui morti vanno tanto di moda. Si appoggiano sul sensazionalismo e sul pacchetto di fazzoletti di carta pronto per essere estratto come una spada dal fodero, si fanno grandi sui ricordi che inevitabilmente si abbelliscono con il tempo.
Questo libro no. Pantani era un dio (titolo ambiguo e forse provocatorio, e che può essere capito solo se si ascoltano le parole di un suo gregario) è uscito da qualche settimana per 66thand2nd, la casa editrice che ci ha abituato a bellissime biografie e storie sportive, ed è un libro pieno di ricordi e di sofferenza – a me qualche lacrima l’ha fatta pure scendere – ma che non ha niente a che vedere con quel tipo di ricordo mieloso che produce frasi stantìe e banali.
È un libro onesto, se fosse un uomo sarebbe un uomo tutto d’un pezzo; non privo di debolezze ma integro, pulito.
È un libro che ti fa sentire la pendenza del Mortirolo, quando racconta del Mortirolo, e l’accento romagnolo quando ti fa vedere Pantani che pedala sul Carpegna, alla ricerca di una risposta o della solitudine, o di quella fatica che tiene a galla solo le cose importanti.
Racconta la vita di Marco, da quando a 12 anni si presenta alla Fausto Coppi di Cesenatico e si iscrive, da quando inizia a pedalare con la Vicini grigio metallizzata con i cavi dei freni a vista.
Da lì è una vita fatta di salite e di discese, quelle della strada e quelle che la Strada gli mette davanti. Le giovanili, il giro d’Italia dilettanti, quando in salita non lo vede più nessuno e tutti capiscono che semplicemente non c’è molto da dire se non che è il più forte; il contratto con la Carrera, l’ingresso nel professionismo e la voglia di dimostrare che è piccolino e magro, ma non ha voglia di giocare.
Ci sono i ricordi di chi ha vissuto con lui i primi momenti, di chi l’ha seguito e l’ha visto, di chi ci ha creduto e di chi non ci credeva, che fosse così forte. Testimonianze che è bello leggere perché ci raccontano un lato diverso, privato, di Pantani. Un lato fragile e riservato, che non ha niente a che vedere con gli incidenti con le macchine grosse, le tinte ai capelli, meno visibile ma più veritiero, che poco gli fa sopportare la pressione attorno e che in un attimo lo fanno scivolare sul lato sinistro di quel filo. Marco Pastonesi è bravissimo a presentarci Marco, prima che Marco diventi “il Panta”, a mostrarci le pieghe della sofferenza, quelle che nascono prima del dolore e che sono difficili, a volte, da vedere.
Appassionarsi a Pantani e ai suoi 34 anni è facile. Lo è anche per chi non è un vero appassionato di ciclismo (tipo me), lo è anche per chi non ha ancora capito cosa sia un rapporto (tipo me, di nuovo). Basta guardare certe tappe, io quando guardo certe tappe del 1998 mi alzo in piedi, seduta non riesco a starci, mi viene il fiatone e inizio a camminare per il salotto, come se non sapessi come andrà a finire, come se non conoscessi le braccia di Pantani che si alzano e come se non conoscessi il suo urlo, che è una liberazione.
Dal 1999 tutto cambia. Ci sono le ipotesi di complotto, una provetta che anziché essere infilata nella valigetta viene messa in tasca; ci sono i giri di scommesse clandestine e qualcuno che dice, la vigilia del 5 giugno, che è bene scommettere sulla sconfitta di Pantani, che è sicuro che non sarà lui a vincere. E c’è la caduta, molto più dolorosa di quella alla Milano – Torino del 1995, perché riguarda la mente, e abbraccia la depressione, perché alimenta le paranoie e fa crescere i demoni.
Io non so dove stia la verità, so che certe discese sono inevitabili, ma che affrontarle da solo ti fa sentire molta più aria gelida in faccia e addosso, non basta un quotidiano piegato tra la maglietta e la pancia, e credo che al Pirata sia successo proprio così.
Si è chiuso in una stanza fatta di giudizi e di paure e non è più riuscito ad uscirne. Dopo saranno in molti a piangerlo, ma rimane il rimpianto per qualcosa che poteva essere fatto e un sacco di zone torbide che non sono state chiarite.
In Pantani era un dio, Marco Pastonesi, firma della Gazzetta dello sport, parte dall’inizio e procede per gradi, proprio come si deve fare quando si vuole raccontare una storia per bene. Gli affluenti della storia sono i ciclisti del passato, le storie delle corse, le pendenze di certe montagne. Marco Pantani è il protagonista, ma è il protagonista di una storia datata, che ha già visto passare scalatori e gregari, bugiardi e arroganti.
Con uno stile che appassiona, Pastonesi mentre ci parla di Marco ci parla di tutto il ciclismo, e ci ricorda del perché, ogni anno, ci ritroviamo davanti alla tv a guardare quegli uomini vestiti in modo così buffo, uno dietro l’altro e poi tutti insieme e poi di nuovo uno dietro l’altro, mentre fanno fatica ad arrivare da un punto ad un altro, mentre ci chiediamo perché (e come) la fatica sia così bella.
Marco Pastonesi, Pantani era un dio, 66thand2nd, 2014.
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