
In quella Normandia lì, a visitare i sotterranei dei bunker parzialmente sommersi d’acqua, ricoperti di sabbia, pieni di sterpaglie, ci sono stato un mese. Poi a Cherbourg ho preso il treno e son tornato a casa. In treno ho guardato per l’ultima volta la cartina dell’esercito americano che consultavo ogni giorno per cercare le batterie, e mi son messo a leggere un libro che ho trovato in una libreria specializzata a Bayeux. Il libro si intitola Le mur de l’Atlantique: vers une valorisation patrimoniale? Scritto da Christelle Neveux e, son certo, mai tradotto in italiano.
Mi son messo a leggerlo perché, dopo un mese, cercavo ancora una risposta. La domanda era: perché diamine sono così affascinato dall’Atlankiwall, da un’opera che l’Europa vuole dimenticare, che nessuno ha interesse a scoprire, valorizzare, al limite abitare?
Io ecco, leggendo questo testo, devo dire, ho mica trovato la risposta. Ho trovato solo un’altra domanda. Il testo, quello di Christelle Neveux, è stato molto utile per comprendere che oggi, 70 anni dopo lo sbarco, l’Atlantikwall non è scomparso fisicamente, ma non è diventato altro che una rovina. Vero è vero: ci sono alcuni bunker, per lo più i più grossi e sofisticati, che sono diventati musei a cielo aperto, tipo la Batterie Todt a Calais, la batteria di Longus sur Mer o quella di Azeville, ma in generale al di là del turismo americano i bunker non hanno ancora motivo di abitare le coste e le città di tutta Europa. Eh, mi son detto, i bunker sono stati costruiti dai cattivi, da un esercito che rappresentava il male, il nazismo, mica è difficile capire che nessuno voglia saperne niente. Allora poi ho pensato: che diavolo è un monumento? Facevo fatica a concepire un monumento come un reperto storico. E dai che è vero che ha a che fare col tempo, mi son detto, ma forse ha più a che fare con la memoria. Sarà mica uno strumento per ricordare, ho pensato? Eh, sarà.
Le piramidi, i templi delle antiche civiltà sud americane, per esempio, ho pensato che anche quelli, quelle strabilianti bellezze architettoniche, non è che sian state costruite seguendo parametri di lavoro, come dire, umanitari. Per edificare le piramidi son morti migliaia di schiavi, e per costruire i templi Maya, Aztechi o Incas neanche a parlarne di caschi anti infortunistici o di sindacati. Per non parlare della costruzione di San Pietroburgo, edificata per volontà dello Zar da migliaia di contadini morti nelle paludi della Neva. Allora cos’è, cos’è che fa la differenza, perché milioni di turisti stan lì col naso per aria e la bocca aperta a mirare la sfinge e i templi? Paul Virilio e Christelle Neveux lo spiegano, a ben guardare. La differenza è il tempo.
Oggi, ancora, gli europei non sono pronti ad accettare che i bunker, le basi sottomarine, le stazioni radar e le rampe di lancio dei razzi V2 siano un monumento, perché, ancora oggi, quell’epoca lì, quell’esercito lì, è meglio lasciarli stare. Sfortunatamente il testo di Christelle Neveux non mi ha spiegato perché, dopo un mese passato in Normandia, ancora oggi, ogni volta che entro in una stazione ferroviaria, vado in gita in campagna, al mare o faccio una passeggiata in città, ogni volta che intravedo un massiccio muro di cemento, una torretta di acciaio, ogni volta che mi accorgo che non lontano da me c’è un pezzo dell’Atlantikwall, in tutta Europa, io ecco, io resto col naso per aria e la bocca aperta.
L'articolo Pezzetto 5. In cui torno a casa con una domanda. sembra essere il primo su Finzioni.