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Caponatina Bufalino

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Atterrato di sottecchi nella natìa Sicilia, l’Uomo Senza Tonno, dopo baci e abbracci alla Famigghia nell’entroterra dove regnano colline e campagne arse del color del grano anche dove il grano non c’è, s’è diretto di filato a est e poi più a sud, a panarsi nella sabbia e a rosolarsi sotto il sole impenitente della costa ragusana.

L’agosto senzatonnico è trascorso tra scacce, pane-fatto-di-pane-vero, pomodori-che-sanno-di-pomodori e arancini come se diluviasse e tutto l’ambaradàn che un migrante può assumere in corpo quando ritorna temporaneamente 1000 km più a sud.

I profumi e i sapori siculi non potevano svanire una volta rimesso piede a Linate in una di quelle domeniche desertiche dall’umidità simile alla carta moschicida. E’ per questo che, con un pizzico di orgoglio terrone, l’Uomo Senza Tonno intona un’ode a uno dei piatti simbolo della cucina sicula, in cui melanzane e agrodolce imperano incontrastati. E l’ode si leva dalle pagine del Bufalino detto pure Gesualdo, rigogliosa penna sbocciata tardiva che ebbe i natali a Comiso, proprio nella provincia di Ragusa.

Con l’acqua del mare ancora nelle orecchie e un occhio sulla copertina di Diceria dell’Untore, io, cioè l’Uomo Senza Tonno, preparo una Caponatina Bufalino.

Afferro una melanzana che attraversava la mia cucina fischiettando sulle strisce pedonali. Qui non si fanno prigionieri, e la melanzana non fa eccezione. Dopo un quarto d’ora di torture, la seziono in cubetti più grandi di mattoncini Lego 3-4 anni e li metto in uno scolapasta ben salati per far loro spurgare il liquido amaro.

Durante la mezz’ora depurativa della melanzana, mi dedico agli altri ingredienti.

Estirpo due gambi di sedano verde, li taglio e li sbollento per qualche minuto per ammorbidirli.

Ravano nella dispensa e intercetto dei capperi sott’aceto. Belli, simpatici e sorridenti, mi notificano la loro volontà di prendere parte anch’essi alla festicciuola bufalina. Come dirgli di no? Li colgo e li accomodo accanto al sedano, di cui ho arrestato la cottura passandoli in acqua fredda post-sbollentamento.

Denocciolo una manciata di olive nere dell’entroterra siculo che hanno superato i controlli antiterrorismo dell’aeroporto di Catania, olive ben condite come solo i mastri olivari della Sacra Trinacria sanno fare, rassegnatevi, oh genti dell’altre parti del Globo.

Ci sono due cipolle rosse che danzano sulle punte sulle note del Notturno in mi bemolle maggiore di Chopin, pensano forse che, con i soffici rintocchi del pianoforte, mi possa ammorbidire risparmiandole. Nient’affatto. Le ghermisco e le taglio a fette grossolane. E non piango neanche.

Posso procedere con le cotture. Prima friggo le melanzane in un pentolino con olio di semi di girasole, ma solo dopo averle ben sciacquate e asciugate. Dopodiché, in una padella abbastanza capiente, soffriggo la cipolla in abbondante olio extra-vergine d’oliva, poi aggiungo i capperi, le olive, il sedano e della polpa di pomodoro. Lascio che gli amichetti qui leghino indissolubilmente sulla vivacità di una fiamma di fornello per una decina di minuti. Le melanzane, dopo aver assistito al party in padella, decidono che è giunto il loro momento di gloria e si fiondano sulla festante folla.

Prima però che tutto finisca, giunge il momento cruciale per la caponatina: l’Agrodolce. Riempio mezzo bicchiere con aceto di vino rosso e vi aggiungo un cucchiaino di zucchero grezzo di canna. Mescolo per bene e verso in padella con tutti i compari sfrigolanti e continuo la cottura finché l’aceto non sarà evaporato. Tolgo dal fuoco e aggiusto di sale.

Mi siedo a tavola, caponata a portata di forchetta, io e Bufalino ci guardiamo negli occhi, a nuantri ‘ni pari proprio bella sta mulinciana

Stay tuna.

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