
Quadro Clinico:
A volte è una delle tipiche conseguenze a medio-lungo periodo di traumi forti, profondi, di quelli che – come si suol dire – ti segnano a vita. Altre volte è una reazione ad uno spavento improvviso, ad un shock che – paragonabile alla reazione d'allarme del combatti o scappa – si pone in contrapposizione all’urlo di paura. Il mutismo (non per incapacità fisiche ma per volontà psicologica) è ciò in cui si chiudono le persone che hanno subito delle rotture con la propria vita tranquilla causate da avvenimenti tragici e angoscianti. Così come si pone alla base delle teorie di management del dolore post-operatorio – per cui prima che fisicamente un paziente va curato psicologicamente – la relazione tra corpo e mente si pone alla base di quest’altra, di relazione, che a prima vista può sembrare contraddittoria: uno spavento così forte che non ci fa urlare – come la nostra discendenza animale dovrebbe farci reagire – ma ci pone nel silenzio, nel rifiuto di cercare aiuto, di farci sentire e, in questo modo, di essere salvati. Il bombardamento di Dresda del 1945 è uno di quegli avvenimenti che – per chi si è trovato lì sotto, sotto quel tappeto di bombe che parevano sabbia – non può che restarti nella mente se non anche nella pelle, sotto forma di schegge e detriti. Chi lo sa bene è Thomas Schell Sr. (Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino, Guanda, 2005)
Anamnesi:
Mentre suo nipote – un nipote che non ha mai visto né incontrato – è impegnato a fare i conti con un altro trauma, Thomas se ne sta rinchiuso in una camera da letto a condividere la casa con una donna che è sua moglie ma che lui non sente come tale, che non vuole come tale perché, ciò di cui ha bisogno, è una donna ed un figlio che non ci sono più e mai più ritorneranno. La notte tra il 13 e il 14 febbraio del 1945, Thomas si trovava a Dresda, sotto i bombardamenti. La stessa notte, nella stessa città, si trovavano sua moglie Anna e il figlio non ancora nato, lo stesso figlio a cui ora, in età anziana, si rivolge inutilmente scrivendo lettere che nessuno riceverà. Il silenzio conseguente al trauma diventa a poco a poco un mutismo da cui Thomas non riesce a separarsi. Thomas decide di non parlare più perché parlare vuol dire ricordare e ricordare vuol dire riportare a galla dei dolori che sono ancora vivi in una memoria che lui non vuole cancellare. Ma non c'è solo questo: parlare vuol dire anche esorcizzare e, di conseguenza, allentare dalla carica emotiva i ricordi che lo legano all'unica donna che ha amato in vita sua. La gente coraggiosa, quando il dolore psichico si fa insopportabile, intravede un'unica via d'uscita, Thomas invece è solo un vecchio spaventato che vive con il perenne peso di un'angoscia che lo blocca e lo ammutolisce. Se parlasse, Thomas potrebbe ripercorrere gli avvenimenti amari della sua giovinezza, per poi superarli e ricominciare finalmente a vivere. Se parlasse, Thomas supererebbe gli avvenimenti amari della sua giovinezza, rischiando così di superare anche quell’avvenimento dolce che era l’amore per Anna. Quando Thomas sposa sua moglie – la sorella della defunta Anna – lo fa solo perché questo è l'unico modo che ha per sentire ancora vicino la sua donna amata. È questo il maggior atto di debolezza, quel gesto che dimostra che Thomas vuole staccarsi dal suo passato ma non del tutto, solo da una parte – quella negativa, quella dolorosa – e quindi, trovandosi in una contraddizione insuperabile, crede bene che invece dell'urlo, la soluzione sia il silenzio. È quello che succede quando non si ha il coraggio di gridare e di chiedere aiuto. Nel momento in cui si preferisce restare nella puerile sicurezza dell'autocommiserazione per la propria miserabile condizione invece di andare avanti, si finisce col restarsene zitti, perché parlare è fatica, una fatica emotiva, e perché il silenzio – assieme al pianto – e il più atavico modo per destare attenzione. I traumi ti riportano ad uno stato infantile e, non per nulla, è un disturbo tipico dell'infanzia quello che affligge Thomas.
Diagnosi:
Mutismo selettivo da shock
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