
Il giorno in cui la monarchia britannica si assicurava una discendenza lineare, e per di più maschile, il Guardian pennellava l'ennesimo coccodrillo artistico di Morrissey. Che il rapporto con la stampa inglese, ma non solo, con il cantante di Manchester non fosse dei più facili lo si è sempre saputo: dagli esordi quando i tabloid lo accusarono di promuovere violenze, anche sessuali, nei confronti dei bambini, oppure quando lo si tacciò di razzismo per aver sventolato una Union Jack ad un concerto dei Madness davanti a uno stuolo di skinhead venuti lì per contestarlo.
Più ricco e profondo, invece, il rapporto di Morrissey con la letteratura. Se da un lato sono arcinoti i suoi frequenti prestiti letterari (talvolta dei veri e propri taglia e incolla di sapore postmoderno) soprattutto da A Taste of Honey di Shelagh Delaney e By Grand Central Station I Sat Down and Wept di Elizabeth Smart, altrettanto noti sono gli scrittori che hanno ammesso di avere un debito molto cospicuo nei suoi confronti: da Douglas Copland a Matteo B. Bianchi, da Pier Vittorio Tondelli a J. K. Rowling.
Discorso a parte meritano i libri su di lui e sul gruppo che l'ha portato alla ribalta, The Smiths. Il primo, The Severed Alliance di Johnny Rogan valse all'autore una fatwa che ha ha pari, forse, solo in quella contro Salman Rushdie e i suoi Versetti Satanici. Scrivere un libro sugli Smiths e Morrissey è un'impresa difficilissima, non solo per l'ingombrante e castrante io che si vuole raccontare, ma soprattutto perché ogni lettore (ogni amante delle loro canzoni ) pensa di conoscere il significato ultimo e profondo di quelle parole, e di esserne in fondo il loro vero destinatario ("it should've been me / it could've been me"). Infine, scrivere oggi un libro sugli Smiths e Morrissey avrebbe il gusto di qualcosa di già detto, già letto, almeno dopo Songs That Saved Your Life di Simon Goddard e Saint Morrissey di Mark Simpson, e in attesa che il cantante pubblichi la sua attesissima biografia, più volte annunciate e più volte rimandata.
Arcana ha da poco dato alla luce l'ennesimo volume dedicato al gruppo pop-rock più amato e odiato della scena britannica degli ultimi trent'anni. The Smiths. A murderous desire. Testi commentati di Diego Ballani sceglie di raccontare la storia della band non cronologicamente né tematicamente, ma per singola traccia come se si trattasse di una compilation con tanto di bonus track.
Il libro sembra voler essere un compendio alla cifra stilistica degli Smiths, con aperture ad alcune canzoni più recenti della discografia di Morrissey solista, e tradurla per il pubblico italiano che forse non ne ha mai compreso fino in fondo la portata rivoluzionaria capace di segnare nel profondo la musica e la cultura di fine secolo, né il delirante umorismo che la pervade (gli italiani sono un popolo notoriamente privo di sense of humour, cui preferiscono il dileggio, la parodia).
Come ogni libro sugli Smiths che si rispetti finisce per parlare fondamentalmente delle liriche di Morrissey privilegiando l'aspetto letterario a quello musicale. E come ogni libro sugli sugli Smiths che si rispetti finisce per fare indossare a Morrissey una casacca che forse non gli appartiene, non del tutto almeno. Perché Morrssey, forse, più di tutti incarna l'ideale del queer, dell'identità ambigua e proteiforme, trasversale e mai uguale a se stessa, anche al costo di essere in contraddizione con se stessa.
Parlare della sessualità di Morrissey è come parlare del sesso degli angeli, o del segreto di Pulcinella. Ognuno ha una sua idea e tenta di incasellarlo in quella, anche quando l'evidenza nega ogni associazionismo di sorta. Bisogna tenerlo in mente quando si scrive un libro su Morrissey, se non si vuol deludere il proprio lettore ("There's always someone, somewhere, with a big nose, who knows").
Diego Ballani, The Smiths. A murderous desire. Testi commentati, Arcana 2013, pp. 256
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