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David Foster Wolfe

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L’immagine di copertina è di Kelly Sikkema.

Quella di oggi è una data che gli appassionati di letteratura non avranno difficoltà a ricordare: il decimo anniversario della morte precoce di uno degli scrittori più talentuosi e amati degli ultimi decenni, David Foster Wallace. Una ricorrenza che sicuramente le più importanti riviste di cultura e istituzioni letterarie, così come migliaia di appassionati in tutto il mondo, si preparano a celebrare per tributare a Wallace un ricordo proporzionale al suo enorme talento. Tra tre giorni invece, il 15 settembre, cadrà un altro anniversario tondo tondo, che probabilmente passerà più o meno inosservato: 80 anni dalla morte, anch’essa prematura, di un altro grande della letteratura statunitense: Thomas Wolfe. E se vi state chiedendo di chi sto parlando o avete immediatamente pensato all’autore del Falò delle vanità, scomparso pochi mesi fa, sappiate che non siete soli. Mi capita spesso, per non dire sempre, di parlare con amici, reali o virtuali, colleghi, conoscenti che stimo e con i quali condivido la passione per la lettura e vedere il loro sguardo perso nel vuoto quando nomino con entusiasmo quello che per me è uno dei grandi della letteratura americana del ‘900. Mi capita, sempre in quelle situazioni, di dover precisare che no, non sto parlando di Tom Wolfe, e che anzi non potrei immaginare due autori più diversi. Sto parlando dell’autore di O’Lost, un capolavoro senza se e senza ma, uno scrittore il cui genio è paragonabile all’indifferenza che – inspiegabilmente – prova per lui il lettore italiano, anche quello forte. Ma forse non siamo solo noi a fare confusione, dato che anche la pagina di Wikipedia in lingua inglese a lui dedicata precisa: “This article is about the early 20th-century writer. For the late 20th- and early 21st-century writer, see Tom Wolfe”.

Una chance di colmare questa lacuna il lettore italiano l’ha avuta nel 2014, quando Elliot ha dato alle stampe O‘Lost, la versione integrale del suo primo romanzo, uscito nel 1929 con il titolo di Look Homeward, Angel (in Italia edito per la prima volta da Einaudi con il titolo Angelo, guarda al passato). Il romanzo, capolavoro giovanile di Wolfe è una storia di formazione, fortemente autobiografica, ambientata nella provincia Americana dei primi del ‘900. Racconta la vicenda familiare di Eugene, alter ego del protagonista, che seguiamo nelle varie fasi della vita, dalla nascita nel 1900 (come l’autore) all’età adulta, in un meraviglioso affresco – corale per ambizione, lirico per lo stile –  di alcuni decenni di storia americana. Una saga famigliare con i toni dell’epopea, ricca di personaggi e vicende che non starò qui a descrivervi, se non per dirvi che è sicuramente uno di quei libri “da leggere”, ammesso che questa categoria abbia senso di esistere. Ma il punto di questo pezzo non è quello di convincervi a leggerlo – anche se sarebbe un successo che anche solo uno di voi decidesse di buttarsi nell’impresa – ma piuttosto di approfittare di questa doppia ricorrenza per abbozzare un parallelo, del tutto gratuito, azzardato e non necessario tra questi due giganti – parola banale, ma in questo contesto ricca di senso – della letteratura americana, Wallace e Wolfe. Scrittori così lontani, per epoche storiche, per stile, per fama. Uno sconosciuto ai più, un altro talmente di successo da poter essere nominato solo con le iniziali. Così lontani, dicevamo, eppure così vicini, almeno nella mia testa, per cinque motivi che vi elencherò ora, se avrete voglia di seguirmi.

Prolissità

Torrenziali, debordanti, incontenibili, smodati, ipertrofici. Sono tutti aggettivi che si possono applicare indistintamente alla scrittura di questi due “irregolari” della letteratura americana di inizio e fine Novecento. Aggettivi che ci fanno intuire sin da subito quanto possa essere stata difficile la vita (o quantomeno il lavoro) degli editor che hanno avuto l’onore e l’onere di seguirli. È noto il rapporto tra Thomas Wolfe e Maxwell Perkins, anche grazie a un bellissimo libro di Andrew Scott Berg, pubblicato in Italia sempre da Elliot con il titolo di Max Perkins. L’editor dei geni, dedicato alla figura dello storico editor della Scribner e al suo rapporto con i “geni” che ha contribuito a lanciare: Fitzgerald, Hemingway e il nostro Wolfe. Nel 1929, quando Wolfe fece arrivare il suo ingombrante manoscritto, contenuto all’interno di uno scatolone, alla Scribner’s Sons, aveva già ricevuto sei rifiuti da altrettante case editrici. Perkins fu l’unico a dargli una chance, ma intervenne pesantemente sul testo originale, a partire dal titolo originale – O’Lost – che venne cambiato in Look Homeward, Angel. Spaventato soprattutto dalla diffidenza che un romanzo così lungo avrebbe suscitato sul mercato, Perkins tagliò circa un quarto della lunghezza originale, ottenendone 625 pagine e eliminando intere parti, come il prologo iniziale dedicato alla figura di Oliver Gant, padre di Eugene, ridotto da cento a tre pagine, e altre minori che a suo parere non avrebbero incontrato l’approvazione del lettore. In totale il manoscritto fu decurtato di un numero enorme di parole, che oscilla, a seconda delle versioni, tra le 66.000 e le 90.000. Ogni taglio comportava una sofferenza quasi fisica per l’autore, come si evince dagli scambi epistolari che tenne con il suo editor. Consapevole fin da subito della diffidenza che il suo manoscritto poteva suscitare con le sue 1.100 pagine (circa tre volte più lungo della media di un romanzo del tempo) Wolfe inviò una lettera di presentazione a Max Perkins nella quale affermava: «Credo non sia corretto dare per scontato che un libro molto lungo sia un libro troppo lungo». Come sappiamo, non lo convinse. Il sostanziale lavoro di tagli, sia su quest’opera che sul successivo Of time and river, quattro volte più lungo del manoscritto iniziale di O’Lost, alla lunga influenzò negativamente il rapporto tra i due. L’atteggiamento di Wolfe verso il suo editor fu infatti altalenante: inizialmente di riconoscenza e affetto per essere stato il primo ad aver creduto in lui, successivamente di disappunto per aver pesantemente alterato l’anima dei suoi romanzi. Di fronte alle continue richieste di tagliare, Wolfe accusò Perkins di svilire la sua opera con una frase passata alla storia: “cuts would have turned War and Peace into War and Nothing”.

Anche il rapporto tra David Foster Wallace e il suo editor Michael Pietsch, di Litte, Brown and Company, ai tempi della pubblicazione di Infinite Jest, fu attraversato da incomprensioni legate all’enormità del manoscritto di Wallace. Questo aspetto, come ogni aspetto della vita di DFW, è stato ampiamente sviscerato dopo la sua morte e ormai tutti sanno che Wallace era attento in maniera ossessiva a ogni singolo dettaglio, non solo in fase di editing ma anche di traduzione delle sue opere. Editing Wallace è un pezzo scritto da Pietsch, risultato di una chiacchierata con Rick Moody avvenuta nel 2009, a un anno dalla morte dello scrittore. Pietsch racconta di aver ricevuto da Wallace un enorme manoscritto, che tra l’altro corrispondeva a solo 2/3 del lavoro completo. Anche in questo caso la preoccupazione fin da subito fu rivolta al lettore e allo sforzo che IJ, per dimensione e stile, avrebbe richiesto. L’accordo di base tra i due era che Pietsch avrebbe affrontato ogni capitolo della monumentale opera chiedendosi se la storia potesse farne a meno. Wallace accettò molti tagli – la versione andata sugli scaffali, di oltre 1000 pagine, era già stata asciugata di 250 pagine – ma ne rifiutò altri fornendo spiegazioni a volte molto divertenti ( p. 82—I cut this and have now come back an hour later and put it back) e producendo articolate argomentazioni in caso di modifiche non accettabili, in particolare quando alteravano la struttura o la trama del romanzo: “We know exactly what’s happening to Gately by end, about 50% of what’s happened to Hal, and little but hints about Orin. I can give you 5000 words of theoretical structural argument for this, but let’s spare one another, shall we?”

La biografia di Wallace, uscita nel 2012 per Einaudi a firma di D.T. Max, svela come lo scrittore non fosse entusiasta dei tagli, nonostante la sua natura cortese gli impedisse di manifestarlo in maniera troppo forte. Vi basti sapere che in una lettera allo scrittore David Markson, che gli chiedeva spiegazioni su alcune parti non chiare del romanzo, Wallace rispose: “About the holes and lacunae, I bet you are right: the fucker’s cut by 600 pages from the first version”.

Genio

Quando uscì Look Homeward, Angel, nel 1929, Wolfe aveva 29 anni. Il libro ebbe una buona accoglienza da parte della critica, anche se non unanime – sulla New York Times Book Review Margaret Wallace ne parlò in toni entusiastici, definendolo “powerful, a book as has ever been made out of the drab circumstances of provincial American life” – ma ottenne soprattutto un grande successo di pubblico, vendendo 15.000 copie in un mese.

Wallace di anni ne aveva 34 quando uscì Infinite Jest, aveva combattuto con il suo capolavoro per dieci anni, sin dalla pubblicazione del suo primo romanzo La scopa del sistema. Infinite Jest, con le sue 1.100 pagine, la sua struttura matematica, le centinaia di note, fu un best-seller da 44.000 copie vendute entro la fine del primo anno di pubblicazione e lo consacrò come genio letterario ammirato da pubblico e osannato, anche se non all’unanimità, dalla critica.

I due romanzi vendettero benissimo, a dispetto della loro mole che aveva spaventato i rispettivi editor, ma soprattutto crearono enormi aspettative intorno ai loro autori, i quali vennero celebrati come i più talentuosi della loro generazione, ricevendo entrambi l’appellativo di Genio, con tutto il suo ingombrante carico di aspettative.

Fisicità

Come anticipato all’inizio, qui parliamo di due giganti della letteratura americana, in senso letterale. Thomas Wolfe era alto quasi due metri, 1,99 per l’esattezza. Aveva delle mani grandissime, che gli impedivano, stando alle sue dichiarazioni, di utilizzare una macchina da scrivere, motivo per cui la sua mano destra era segnata da un callo perenne dovuto all’ininterrotta attività di scrittura. Una stazza che veniva spesso paragonata alla sua personalità sregolata e eccessiva. Anche DFW, del quale abbiamo molto più materiale fotografico, viene spesso descritto come alto, impacciato, dalla fisicità imponente, un big american guy. Celebre la descrizione che Lipsky fornisce del loro primo incontro, quando fu inviato da Rolling Stone per un’intervista (che confluirà poi in un libro, edito in Italia da Minimum Fax con il titolo Come diventare se stessi): «David era alto quasi un metro e novanta, e quando era in forma pesava novanta chili. Aveva gli occhi scuri, la voce dolce, un mento da cavernicolo, una bocca adorabile, con le labbra a punta, che era il suo tratto migliore. Camminava con l’andatura molleggiata dell’ex atleta: un movimento ondulatorio che partiva dai talloni, come se ogni fisica fosse un piacere.» Erano due dei quali non possiamo immaginarci la fisicità eccessiva senza collegarla alla penna strabordante e al genio incontenibile. Erano due impossibili da ignorare.

Morte precoce

Thomas Wolfe morì il 15 settembre 1938, poche settimane prima del suo trentottesimo compleanno, al Johns Hopkins Hospital di Baltimora, dove venne ricoverato per le conseguenze di una polmonite trascurata e degenerata in tubercolosi. David Foster Wallace morì il 12 settembre 2008, a 46 anni, impiccandosi ad una trave della sua casa di Claremont, in California, in seguito a una depressione che lo affliggeva da anni.

In entrambi i casi, la loro scomparsa produsse un grande effetto nella società, soprattutto letteraria contemporanea, come possiamo intuire anche dagli elogi di due dei più importanti scrittori del tempo, rispettivamente William Faulkner e Jonathan Franzen. Alla morte di Wolfe, Faulkner disse che era scomparso quello che poteva essere considerato il miglior autore della sua generazione, mentre Franzen definì Wallace a “huge talent, our strongest rhetorical writer”.

La morte precoce ha anche contribuito, soprattutto nel caso di DFW, alla creazione di un mito letterario, spingendo lettori e critici a chiedersi quale altro contributo questi geni prematuramente scomparsi avrebbero potuto dare alla letteratura mondiale.

Alter ego cinematografico

Se non stupisce che sia stato dedicato un film alla vita di David Foster Wallace, visto l’enorme hype creatosi negli anni intorno alla sua persona, è più sorprendente che una produzione statunitense, con un cast di primo piano, abbia riguardato un autore meno mainstream come Wolfe. In entrambi i casi ad accomunarli non è tanto l’esistenza del biopic in sé, ma la scelta dell’attore chiamato a interpretarli, scelta che ha fatto storcere il naso agli appassionati, se non addirittura infuriare i fan. Per vestire gli abbondanti panni di Thomas Wolfe nel film dedicato al suo rapporto con Max Perkins (Genius, 2016) è stato scelto Jude Law, ritenuto inadeguato da molti, anche solo per la sua altezza del tutto standard (meno di 1.80 m). I tentativi di Law di calarsi in questo personaggio sgraziato e esagerato hanno portato la critica a definirlo ridicolo e a bollare l’interpretazione come la peggiore della sua carriera. Ancora più ardua è stata la sfida per Jason Segel, chiamato a calarsi nei panni, per molti sacri, dello scrittore più amato dell’ultimo decennio nel film The end of the tour, la storia dei cinque giorni passati insieme a DFW da David Lipsky, il giornalista di Rolling Stone inviato nel 1996 ad intervistare l’autore, reduce dal clamoroso successo di Infinite Jest. La scelta di Segel – da tutti conosciuto per il suo ruolo nella serie How I met your mother o come protégé del regista e produttore di commedie demenziali Judd Apatow – ha lasciato interdetti i fan, ma la sua interpretazione è stata più convincente di quanto ci si poteva aspettare, spingendo alcuni critici a vedere in questo film un punto di svolta nella sua carriera.

La volontà di questo articolo, che potrà sembrare ad alcuni stravagante, è di approfittare di una doppia ricorrenza come questa per rubare un po’ della luce di Wallace – non me ne vogliate, continuerà a splendere! – per illuminare uno scrittore oscuro ai più. Per ispirare qualche lettore, qualcuno che magari i libri di DFW li ha letti e riletti tutti, a dirsi: conosciamolo, questo Thomas Wolfe.

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