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Heidi, cioè una canzone dei Blues Brothers, di Francesco Muzzopappa

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La foto di copertina è di Fancycrave

Francesco Muzzopappa ha superato se stesso scrivendo un nuovo romanzo, Heidi, a poco più di un anno di distanza dal precedente, Dente per dente, sempre per Fazi Editore. Se vi piace ridere ogni pagina, beh, posate lo schermo da cui state leggendo queste parole e andate nella vostra libreria di fiducia a comprare sto libro.

Che fate, siete ancora qui?

Ok, immagino di dovervi dire un paio di cose su Heidi, allora. Donna in carriera, 35 anni e un lavoro come direttrice dei casting per un’azienda che seleziona personaggi televisivi, o per meglio dire si trova a scegliere gente da mandare allo sbaraglio in tv, Chiara ha un paio di problemi improvvisi: il primo, il padre malato di demenza selettiva viene cacciato dall’ospizio in cui si trova, il secondo è il nuovo capo, un coglione patentato. Si può dire coglione? Sì dai, diciamolo.

Parlo di “problemi improvvisi” perché poi ci sono quelli quotidiani, riassumibili nella frase: vivere è complicato. Mischiando i problemi di Chiara, chiamata Heidi dal papà che la confonde con la bimba del cartone animato che guardavano insieme quando era piccola, con il campionario di casi umani che si vede sfilare davanti agli occhi ogni giorno, Heidi è un insieme di situazioni paradossali sulla vita d’ufficio e sulla vita in generale, tanto a Milano quanto in ogni parte dello stivale (che espressione demodé!).

Se conoscete Milano perché ci avete vissuto o studiato (come il sottoscritto) o perché la vita per qualche ragione vi ha fatto posare il posteriore in quella città, il romanzo di Francesco Muzzopappa non potrà che farvi utilizzare qualche espressione da Milanese Imbruttito® per esclamare “per Bacco e Diana, è proprio così!”

Ad un certo punto, il capo di Chiara le impone di proporre dei format, cioè dei “tipi di programma” da vendere alle televisioni. Lei non l’ha mai fatto, non è il suo mestiere, va da sé che cada nel panico. Tanto da compromettere il pessimo rapporto che ha già col padre? Chissà. Tanto da mandare in vacca (cogliete la metafora malgara) il rapporto con il badante del padre, che soprannomineremo Peter? Sta a voi scoprirlo.

Non vorrei parlavi ulteriormente della trama, perché poi non è quello che ci interessa, a noi interessa leggere cose belle e soprattutto addormentarci con un sorriso. Detta così sembra che il libro ci faccia il solletico e poi la ninna nanna. No, è un romanzo che sa mescolare momenti di elevata ilarità, mi sento di citare The Office per quanto riguarda alcuni momenti di imbarazzo infra-ufficio, ma anche situazioni familiari, intime, personali così tangibili da farvi venire gli occhi lucidi, se siete il genere di persone a cui vengono gli occhi lucidi quando leggete qualcosa di vagamente inerente alla vostra vita personale (coff coff).

Leggendo, la domanda che ci dobbiamo porre, cioè che Muzzopappa ci pone, è: perché lavoriamo?

La risposta di Muzzopappa è racchiusa nelle immortali parole con cui Elwood Blues apre il concerto al Palace Hotel Ballroom a Chicago, Illinois, durante il film Blues Brothers:

We do sincerely hope you’ll all enjoy the show, and please remember people, that no matter who you are, and what you do to live, thrive and survive, there are still some things that make us all the same. You, me, them, everybody, everybody.

Parte la canzone, prima strofa: Everybody needs somebody. Parte il ritornello: I need you you you.

Fossi un battutista, direi Everybody needs some Heidi.

Poi certo arriva l’amore, qualcuno da baciare, lo zucchero e compagnia cantante, ma prima di tutto ci sono gli altri. Ed è così, senza gli altri nemmeno un eremita potrebbe essere un eremita.

Più continuiamo a dividerci, più siamo soli e più vediamo gli altri come mezzi per un fine. E se invece c’è qualcosa che possiamo cercare per dare un senso alla ripetitività del nostro tempo, è creare rapporti, sinceri il più possibile, con gli altri, sostiene Muzzopappa.

Ben inteso che gli altri sono scemi tanto quanto lo siamo noi, hanno difetti e tutte le debolezze che volete, ma del resto siamo stati impastati soffiando dell’alito nel fango, non nei diamanti. (Appunto personale su un film di fantascienza: civiltà aliena ma cristiana in cui il dio della bibbia ha impastato gli abitanti di quel pianeta con i diamanti e in virtù di ciò ricavano straordinari poteri, tra cui l’abilità di far apparire i cerchi nel grano sulla Terra…)

È così anche nel mondo dello showbiz descritto in Heidi. Ci sono “boss” in ogni ambito dello scibile umano, ci sono Guinness World Record da creare ed abbattere, ci sono saltimbanchi che possono schiacciare 15 noci con una mano sola per salvare la propria famiglia dalla povertà (davvero? Davvero!), youtuber diventati influencer per merito di intercessioni mariane, ma tutto questo perde il già misero senso che ha se quando provi ad addormentarti, non trovi un motivo per svegliarti il giorno dopo.

Questo se vogliamo cercare una vena seriosa. Se invece ci piace soltanto ridere col paraocchi, cosa che comunque non mi sento di giudicare, gustiamoci l’elenco inverosimilmente verosimile di sbandati e perditempo che riempiono le giornate di casting di Chiara.

Visto che prima abbiamo volato alto, ecco Andy Sonora, il ventriloquo del sedere (pag 70)

Lui e il suo pupazzo Tony, un tenero paperotto canterino dall’ampio repertorio country si esibiscono in un gustoso sketch a due. Il becco di Tony è in perfetto sincrono con gli sfiati bassi di Andy, molto abile nel modularli musicalmente, proponendo canzoni intramontabili in un numero che farà il giro del mondo. Lo ringrazio per l’esibizione, faccio aerare il locale e lo segnalo sia a The Voice che a Colorado.

Io direi che qui c’è tutto. Molte recensioni di Heidi parlano di “satira del mondo televisivo”, che è corretto. Mi permetto di aggiungere: satira sugli spettatori. Garbata, immateriale ma aguzza, come un peto di un ventriloquo.

Non è finita, ma concludo, con uno dei format che Chiara propone al capo: Non sapevo di essere Anna (pag 165):

Alberto Moravia si chiamava Alberto Pincherle, Italo Svevo era lo pseudonimo di Aron Hector Schmitz, Lewis Carroll era Charles Lutwidge Dodgson. In tanti decidono di usare nomi d’arte, per darsi lustro o nascondere la propria identità. Ma conosciamo davvero il nostro nome? E se ne avessimo un secondo a nostra insaputa? Quasi di noi si chiamano Flavio, Renzo, Luciana o Anna senza nemmeno saperlo? (…)

Ci siamo capiti.
Da qui la domanda: che ci fate ancora qui?

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