Nel prologo de L’ultimo lettore Ricardo Piglia scrive di un fotografo di Buenos Aires che, in un angolo della propria casa del quartiere Flores, ha realizzato un plastico della città, rendendola al contempo “vicina” e “lontana”. L’uomo, ci viene detto, ha “alterato i rapporti di rappresentazione” e confonde la Buenos Aires reale con la sua replica. Non solo. Il fotografo ha riprodotto nella contemplazione della città l’atto di leggere. Scrive Piglia: “L’arte è una forma sintetica dell’universo, un microcosmo che riproduce la specificità del mondo”. L’arte, dunque, è un frattale della realtà e quel diorama viene correttamente definito “una macchina sinottica”.
Davanti a una “macchina sinottica” il lettore e lo scrittore sbracano. Succede, per esempio, a Johann Moritz Rugendas, pittore tedesco, protagonista de Il pittore fulminato di César Aira, Fazi Editore.
Rugendas proviene da una famiglia di pittori specializzata nel dipingere le imprese belliche di alcuni sovrani europei. Quando tocca a lui, i tempi sono cambiati. Nel XIX secolo, le “imprese belliche” è il Sud America e ancora di più l’Argentina. Rugendas, insieme all’amico Krause, viaggia per quei territori con lo scopo di dipingere quanto “meritasse di essere dipinto”. I due lavorano secondo la dottrina della “fisiognomica della natura” di Alexander Von Humboldt: scompongono la natura in parti (19 parti) e la rimontano su tele che verranno successivamente stampate in serie dando ai futuri osservatori consapevoli un codice per decifrare nel modo più autentico possibile quegli ambienti esotici. Niente di nuovo, se ci pensiamo: un alfabeto, delle storie, alcuni scrittori e nella migliore delle ipotesi molti lettori. La bravura di Rugendas ci dicono essere la sua semplicità. Rugendas è stato in grado di raggiungere la semplicità. E la semplicità porta all’accessibilità, l’accessibilità alla diffusione, la diffusione al commercio, il commercio agli affari. L’arte di Rugendas, infatti, è al servizio di un mercato. Il mercato delle stampe che raccontano posti lontani.
La “macchina sinottica”, nel libro di Aira, è l’ambiente. I compendi di storie sono ovunque, laggiù. Il Sud America del XIX secolo è un gigantesco bigino per i due pittori viaggiatori europei. Diversi, loro. Al limite della contrapposizione. Rugendas un uomo in missione e talentuoso. Krause meno dotato e più flemmatico. L’ansia di vivere tutto, di vedere tutto e dunque di riprodurre tutto costa a Rugendas un pezzo di esistenza. Rugendas, in un certo senso, si mette in pericolo per leggere la realtà e raccontarla, disegnandola.
Fine degli spoiler.
Questo bel libro ha generato due considerazioni. La prima, agevolata dall’agitazione di Rugendas per i fatti da illustrare (Rugendas è il lettore-scrittore ingordo, quello che manda giù tutto in nome di non si è ben capito cosa, se fame di vita o vanagloria, avete presente questo tizio?), è di carattere personale e perciò poco importante: perché vogliamo leggere così tanto? Che senso ha leggere 40 libri all’anno – figuriamoci quelli che ne leggono 80, 90 oppure 100 – quando basterebbe leggerne bene un paio? Non esageriamo: basterebbe leggere bene alcuni autori. Un tizio* ha detto che in quattrocento anni si possono leggere al massimo un mezza dozzina di libri. E che non è importante leggere, ma rileggere.
Chissà. Veniamo allora alla considerazione numero due: si può davvero raccontare una storia o sarebbe meglio mostrarla?
In una delle – molte – pagine illuminanti del libro di Aira, i due protagonisti, poco impegnati nel dipingere perché in viaggio, hanno del tempo per teorizzare. Già notevole la contrapposizione tra elucubri e azione. Un classico. Ancora meglio, però, il ridimensionamento che applicano alla narrazione.
“Una scena, naturale o culturale, per quanto dettagliata, non diceva come ci si era arrivati, né qual era l’ordine delle apparizioni, né la concatenazione causale che aveva portato a quella configurazione. E giustamente, l’abbondanza di narrazioni in cui si era immersi si spiegava con il bisogno dell’uomo di sapere come erano state fatte le cose. […] Rugendas faceva un passo in più […] Suggeriva, per ipotesi, che la mancanza di narrazioni non implicasse alcuna perdita, in quanto la generazione presente, o una futura, avrebbe potuto sperimentare di nuovo gli stessi avvenimenti del passato, senza doverglieli raccontare, per una semplice combinazione dei fatti o sotto la loro imposizione; in entrambi i casi, comunque, l’azione sarebbe nata da una precisa volontà […] Era addirittura possibile che la ripetizione, in assenza di una narrazione, fosse più completa. Invece della narrazione, bisognava trasmettere […] l’insieme degli “strumenti” per poter reinventare, con la spontanea innocenza dell’azione, gli avvenimenti del passato”.
Quali sono i limiti delle narrazioni? Sopratutto delle narrazioni a posteriori, le narrazioni di cui necessitiamo per semplificare il mondo. Per classificare l’ignoto. Per giustificare deficienze varie. E ancora: quali sono i limiti delle narrazioni che ambiscono a caratteri obiettivi o esplicativi? Perché una ripetizione, in assenza di narrazione previa, diventa più completa? Bella domanda. Qualcuno potrebbe dire “fake news”. Non io. Io dico che – evviva! – sarà comunque una narrazione a salvarci.
Una delle grandi lezioni della letteratura latinoamericana è la ricollocazione al centro del lettore. L’elevazione del suo ruolo da mero ricettore a principio attivo del meccanismo lettura. Aira metta in bocca a un fotografo naturalista una critica alla teoria dell’impersonalità che fa il paio con parte del mondo letterario latinoamericano che conosciamo: metafisico, fantastico, magico. Pensiamo alla sospensione dell’incredulità – approccio proattivo del lettore – che fredda il pensiero critico per lasciarlo esplodere successivamente. Nel caso di Rugendas è lo stesso artista che, in lettura, avanza una critica al proprio sistema, all’impossibilità di sovrapporre riproduzione e oggetto. È sufficiente l’unicità di un punto di vista per invalidare, viziare, corrompere il sistema. Chissà, sono i prodromi dell’impressionismo come movimento, i tempi coincidono. Arriverà la fotografia a oggettivare nel tempo lo sguardo di un soggetto.
Addirittura più interessante è l’altro topos de Il pittore fulminato: la ripetizione.
Adolfo Bioy Casares nel suo romanzo L’invenzione di Morel ha mostrato come una riproduzione priva di narrazione consenta allo spettatore, all’osservatore o al lettore di applicarne una propria in grado di assumere piena autenticità. È il ricevente a scrivere la storia. A raccontarsene una. L’architettura di questa storia procede per sottrazione: la forma si sottrae alla materia e si reitera nel tempo. È una storia per sommi capi in loop. Resta una “combinazione dei fatti” in cerca di qualcuno che inventi un senso oppure un ordine oppure, appunto, una storia.
Se Rugendas avesse vissuto, disegnato e successivamente stampato queste tre immagini: “Salvini che brinda con un calice di vino bianco alla faccia di Saviano e dei 99 Posse (LOL)”, “Renzi con sguardo afflitto in conferenza stampa”, “Di Maio che esulta a pugno chiuso davanti al televisore sintonizzato su La7”, quali e quante narrazioni potremmo imbastire?
Oh. Wait.
* Questo tizio lo chiamano “uno”.
L'articolo L’Aira che tira sembra essere il primo su Finzioni Magazine.