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Molti prosecchi con… Giorgio Fontana

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Le bollicine rendono le cose più interessanti, e questo vale sia in senso letterale che metaforico. La banale acqua naturale prende più brio con un po’ di anidride carbonica, mentre una birra sgasata si rifiuta con fastidio; i programmi tv diventano molto frizzanti e l’atmosfera, quando si è carichi, si fa bella frizzantina.

Anche le interviste migliorano con le bollicine, così come gli intervistatori e gli intervistati. Ma i libri? Quelli devono essere frizzanti o possono rimanere semplicemente lisci? E cosa significa, per un libro, essere liscio? Ma soprattutto: è un complimento? Quante domande e, per fortuna, quante risposte nella nuova puntata di “Molte birre con…”, per la seconda volta consecutiva trasformatasi in “Molti prosecchi con…”

Dopo aver parlato di editoria americana con Giulio D’Antona, di criminalità organizzata con Simone Sarasso, di sciabattamenti del Novecento con Marco Rossari, di agenzie e riviste con Pastrengo, di racconti e Messico con Alessandro Raveggi e di Topolino e incomprensioni con Tito Faraci, oggi è il turno di Giorgio Fontana, autore, saggista, critico e premio Campiello, in libreria da qualche mese con Un solo paradiso, edito da Sellerio. Il romanzo, in brevissimo, racconta la storia di Alessio che si innamora di Martina, Martina che lascia Alessio e Alessio che precipita in un abisso di alcol, degradazione e autodistruzione.

Con l’allegria che ci contraddistingue, abbiamo bevuto anche questa volta il Col Fòndoconsigliatoci anche questa volta dagli amici de Il Seccoun luogo di grande eccellenza alcolica che offre una selezione dei migliori prosecchi italiani agli assetati viandanti. Andiamoci tutti, che magari incontriamo Giorgio Fontana proprio dietro al bancone.

Come per tutte le altre volte, Alberto Cocchi si è astenuto almeno parzialmente dallo sfondarsi di prosecchi e ha fotografato con maestria il progressivo degrado dei nostri lineamenti.

Primo prosecco

Molte birre con...Giorgio Fontana-4

Devo partire per forza da questa cosa: leggendo in giro varie recensioni sul tuo romanzo, ho notato che ci sono alcune costanti che tornano sempre. La prima è lo scarto tra questo libro e i due precedenti. E mi sembra che tale scarto acquisti significato di per sé, e non solo nella misura dei termini relati. Quindi, oltre al giudizio sul libro, si aggiungono e si intrecciano i giudizi sulla sua differenza dagli altri. Secondo te, in generale, la produzione di un autore deve avere una coerenza interna? E a te scoccia che Un solo paradiso venga interpretato anche a partire dai libri precedenti?

Sì, mi scoccia più che altro per un motivo: io ho sempre creduto che uno scrittore abbia solo un dovere, e cioè raccontare la storia che in quel momento per lui è assolutamente necessaria, con la lingua migliore possibile e al cento per cento delle sue forze. Se sacrifica questo principio per ripetere una ricetta che pensa che sia funzionale e valida, allora sta già sbagliando. Ma non è un discorso contro la serialità: se uno vuol fare un lavoro seriale, penso a Camilleri o Malvaldi, va benissimo. Ma io sapevo già, chiudendo il dittico precedente (Per legge superiore e Morte di un uomo felice) che non avrei avuto più niente da dire su quei temi. Lo sapevo mentre scrivevo la prima riga del primo libro. Poi è chiaro che lo scarto tra il romanzo di giustizia e quello esistenziale e d’amore è stato sentito come ancora più forte, perché è cambiato molto il registro. Tuttavia, di nuovo: e quindi? Non vedo davvero il problema.

Quando lo scrivevi ti immaginavi le reazioni future? E questo ha avuto un peso nella produzione del libro?

No, ho continuato a scrivere obbedendo semplicemente al dovere della storia. Certo, non sono un essere a tenuta stagna, sapevo a cosa andavo incontro ed ero un po’ preoccupato, se devo essere sincero. Però che cosa faccio? Rinuncio perché ho paura delle conseguenze?

Anche perché il libro precedente ha vinto il Campiello.

Mi aspettavo occhi puntati e fucili puntati, e ci sta, è nelle regole del gioco.

Come prendi le critiche di questo tipo?

Scrollando le spalle, sinceramente. Tutto fa male nei primi cinque minuti, ma ormai ho anche un’età, e faccio questo lavoro da quasi dieci anni. Reagisco lavorando, ecco, che è la cosa migliore.

Un’ idea che sento dire abbastanza spesso è questa: smettetela di raccontare e scrivere le storie della vita di tutti i giorni, quelle già le sappiamo. Raccontate di supereroi, di avventure, di azione, di astronavi. Io non sono d’accordo, ma capisco il ragionamento: dammi qualcosa che non vivrei mai. Insomma: raccontare la vita normale sembra una diminuzione delle potenzialità della scrittura. Da quando in qua la semplicità è diventata qualcosa di deteriore?

Io non ho alcun pregiudizio su nessun tipo di soggetto. Non bisogna scrivere cose straordinarie per forza, né allo stesso tempo solo minimalismo. Dipende sempre dallo sguardo, dal punto di vista. E comunque questo lascia completamente in secondo piano il discorso della lingua, perché io posso raccontare una storia in apparenza molto semplice, illuminandola con una lingua e un punto di vista tale da far riscoprire dimensioni diverse e inedite. La storia del mio romanzo, una storia di innamoramento e disamore, l’avranno raccontata chissà quante volte, da Goethe in poi. Perché raccontarla ancora? Ma perché no? Si può sempre aggiungere un pezzetto in più. Poi uno può anche scegliere un soggetto roboante o spiazzante ma farlo malissimo.

Secondo prosecco

Molte birre con...Giorgio Fontana-1

Oh, ma parliamo di tristezza. Elio e le storie tese dicevano che la tristezza si misura in litri di lacrime. Nel tuo libro sembra che la tristezza si misuri in litri d’alcol. È interessante vedere come l’alcol, ma più che altro l’atto (sociale o individuale) di bere, sia un contenitore vuoto che tu puoi riempire come ti pare: la bevuta può essere un momento di allegria per addizione (tanti amici si incontrano insieme e brindano) o di tristezza per sottrazione (mi isolo dal mondo e mi ubriaco). Parliamo dell’alcol e del bere in generale come strumento narrativo per un autore.

Innanzitutto, tutta l’iconografia dell’autore che scrive da ubriaco, dell’ubriachezza creativa, quella buttiamola via, l’ho sempre considerata una troiata. Spesso da ciucco ti viene in mente un’idea che, la mattina dopo, capisci essere bruttissima. È impossibile scrivere da ubriachi, è impossibile soprattutto riscrivere da ubriachi.

L’alcol in questa storia è fondamentale: non è altro che l’espressione fisica dello stato di degradazione e di asocialità del protagonista. L’alcol per noi è un motore di chiacchierate, per lui è un modo di astrarsi da tutto ciò che è sociale. È la droga più infida di tutte: legale, diffusa ed è un rimosso della coscienza italiana, perché si tendono ad associare queste cose alle culture nord europee, ma in verità anche in Italia, nel nord in particolare, esiste la dimensione piagante dell’alcolismo silenzioso, che non viene quasi mai affrontata nella narrativa italiana, se ci pensi. Non ricordo grandi romanzi italiani sull’alcol.

A quattordici anni c’è chi va a comprarsi le Ceres, come facevo io, ma c’è pure chi va a comprarsi una bottiglia di grappa, poi magari se la beve tutta e muore. Anche una persona razionale, ragionevole e colta può scivolarci dentro, esattamente come può scivolare dentro all’impazzimento amoroso. Può capitare a tutti.

Nel tuo libro ci sono ragazzi che escono in gruppo. Quando sono fuori, soprattutto quando Alessio conosce Martina, tu racconti una generazione molto colta, persone che non parlano di calcio e motori ma vanno a vedere mostre, musei, concerti, discutono di cose “alte”. Non è come quando sei con Tito al Secco a dire le minchiate.

 [Tito Faraci, presente come bevitore silenzioso, annuisce grevemente]

Che generazione è, questa? Dove l’hai vista, o incontrata?

Tieni conto che il libro, anche se non è mai detto, è ambientato all’incirca otto, nove anni fa, e sostanzialmente quella è un po’ la nostra generazione, e ci ho messo dentro argomenti non proprio autobiografici ma che si ispirano a me e alle persone che come me sono cresciute leggendo parecchio, facendo riviste, ascoltando tanta musica diversa eccetera. Poi, inevitabilmente, scrivendo un romanzo, soprattutto se è breve come questo, devi fare delle scelte su cosa si dicono i personaggi, quindi sicuramente ci sarà stato un momento della giornata in cui Alessio diceva cazzate incredibili, ma semplicemente non lo racconto.

Sulla generazione devo fare una precisazione, però: da un lato non voleva essere un romanzo strettamente generazionale, piuttosto una storia universale. Non ho nessuna intenzione sociologica, non me ne frega niente. Però la scelta di ambientare una storia di un amore di questo tipo nella contemporaneità mi interessava molto, perché mi sembra che stiamo vivendo uno stato di frammentazione totale del discorso amoroso. «Che parole posso usare per raccontare l’amore?», dice il narratore a un certo punto. Siamo assorbiti da cinismo e sarcasmo, che è una cosa tremenda, e quindi cerchiamo di liquidare i valori forti e le grandi passioni come troiate, perché ci ridiamo su, perché bisogna ridere per forza di tutto. Ridere è bellissimo, ma quando diventa un tic epistemologico per cui tutto deve essere passato attraverso il filtro del “tanto è una cazzata” e “fatti una risata”, ecco, lì comincia la mia linea di resistenza. Il protagonista si potrebbe liquidare in due parole: ripigliati, escine fuori, che cosa vuoi che sia.

Terzo prosecco

Molte birre con...Giorgio Fontana-5

Effettivamente è molto rilevante l’asimmetria tra la causa – Martina lo lascia – e l’effetto – la discesa nell’alcol e l’autodistruzione.

Ed è volutamente così!  Infatti, la reazione dei suoi amici è proprio quella di cui parlavo prima: all’inizio un po’ di sana comprensione, poi fastidio ed esortazioni a riprendersi, a scrollarsi di dosso la tristezza, infine abbandono.

Ma in una situazione del genere, un amico che cosa potrebbe fare?

Io volevo spingere il protagonista in un territorio in cui le buone ragioni, i buoni consigli e tutto il resto sono finiti, non contano più un cazzo. Alessio è così lontano, ormai, che anche standogli vicino diventa inutile, e ti arrendi. E la gente, anche giustamente, si arrende. È un personaggio volutamente urticante, ti viene di prenderlo a sberle.

Un’altra cosa interessante: il romanzo è ambientato una decina di anni fa, come dicevi, e questo mi sembra anche un modo per non metterci dentro cose prettamente contemporanee, tipo la tecnologia. Nello scrivere invece un romanzo ambientato nel 2017, il mondo è ancora raccontabile senza raccontare quella roba lì? Senza metterci Facebook, smartphone eccetera?

Se vuoi raccontare l’oggi, devi usarli per forza. Se io racconto di un trentenne oggi, dovrei metterci una grande parte di messaggistica online e tutto il resto. Qualche tempo fa è uscito un articolo di Cristiano De Majo su Rivista Studio, anche in risposta all’intervista di Carlo Mazza Galanti a Michele Mari, sul rapporto tra gli scrittori, la tecnologia e il presente in cui vivono. Non sono d’accordo con nessuno dei due. Io non sento l’obbligo di confrontarmi con il presente, ma nemmeno ne sento il rifiuto. Continuo a pensare che uno scrittore debba fare il cazzo che gli pare, quindi tutti questi discorsi mi provocano una nausea infinita. Ma è ben vero che se uno deve raccontare la contemporaneità, allora è indispensabile che affronti questi aspetti. Io ho fatto un passo indietro non per ragioni di snobismo, ma per banale praticità, nel senso che non mi sentivo in grado di raccontare l’uso della tecnologia nel rapporto sentimentale.

Ma questo significa forse che non si può fare?

No, no, assolutamente. Sono io che…

Scusami, mi spiego meglio. Mi pare innegabile che una lettera d’amore scritta a mano e bagnata con una lacrima amara sia molto più, come dire, letteraria, o romantica, o adatta, se vuoi, rispetto a una mail. Forse raccontare temi universali come questo usando strumenti tecnologici e contemporanei può essere svilente?

Secondo me no. Il problema è che le lettere scritte a mano esistono da tanto tempo, mentre le mail da troppo poco, ce le abbiamo davanti alla faccia tutto il giorno e ci sembrano nuove, poco letterarie e svilenti, appunto. Non lo sono, ma è molto difficile trovare la lingua giusta per raccontarli. Sarà molto interessante vedere come se la caveranno quelli che sono nativi digitali davvero. Io sono cresciuto, letterariamente e non, nel mondo analogico.

Quarto prosecco

Molte birre con...Giorgio Fontana-7

Dicono che scrivi in vecchio stile, che sei uno scrittore “classico” (prima racconti gli anni di piombo, poi l’amore wertheriano); è vero? È questo che ti rende “classico”? Ed essere classico è un complimento?

L’aggettivo classico è ambiguo. Per me pertiene soltanto ai Classici. Se guardo agli autori che mi hanno influenzato, soprattutto italiani, molti sono… eh no, però, non è nemmeno tanto vero. Forse è per l’uso della lingua che faccio, cercando di renderla limpida e lineare, più chiara possibile, e forse perché ho sempre tenuto a distanza avanguardie e postmodernismi. Per questo mi sento di appartenere a un filone di moderni e non postmoderni. Ma non lo vedo né come un complimento, né come una cosa polverosa o deteriore.

Una cosa che tutti i tuoi libri hanno in comune è Milano, e spesso si dice che Milano diventi addirittura una protagonista vera e propria, come se fosse un personaggio. Ecco, a me sembra che qui Milano sia piuttosto un sidekick del protagonista, l’aiutante, un personaggio mimetico.

Non ci avevo mai pensato. Diciamo anzitutto che in questo romanzo ho provato a fare uno scarto in più. Negli altri, Milano era lì, molto presente ma semplicemente lì, da sfondo. Qui invece sembra cambiare secondo lo stato d’animo del protagonista. Ha quasi una sorta di evoluzione espressionista, in un certo senso. L’idea del sidekick è interessante, perché quasi gli fa da spalla.

E da enabler.

È una spalla che poi si trasforma in supercattivo, nell’arcinemico. All’inizio lo aiuta, poi lo espelle.

Ultimo prosecco

Molte birre con...Giorgio Fontana-3

E adesso? Dopo il dittico e dopo questo scriverai roba che non c’entra ancora un cazzo?

Scriverò roba che non c’entra ancora un cazzo.

Evvai!

È troppo presto per dire che cosa, soprattutto per me. Sto lavorando su diversi tavoli, probabilmente tornerà Milano, ma in un’altra maniera. Ma sì, continuiamo fieramente nella terra in cui ogni libro ha il suo destino, lavoriamo duro e spacchiamoci le ossa.

cover

Giorgio Fontana – Un solo paradiso – Sellerio editore – 208 pagine – quattordici euro

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