È uscita questa settimana, martedì 25 agosto, negli Stati Uniti, la prima biografia completa di Joan Didion, The last love song. Edita da St. Martin's, si tratta di un lavoro monumentale, ben 752 pagine, firmato da Tracy Daugherty, già autore della biografia di Donald Barthelme.
Cosa sappiamo finora di questa biografia? La prima cosa da precisare è che la Didion non ha partecipato alla realizzazione del lavoro, né lo hanno fatto le persone a lei più vicine, amici, parenti o collaboratori stretti. La biografia è quindi frutto di un lavoro di ricerca che ha messo insieme interviste storiche, materiali d’archivio, registrazioni, qualche lettera.
La seconda cosa è che ovviamente la bio della Didion è inscindibile da quella del marito e compagno di tutta la vita, John Gregory Dunne, che emerge come co-protagonista di tutto il racconto.
La bio è il primo resoconto completo della vita della Didion sin dall’infanzia, diviso in nove capitoli che raccontano macro fasi della vita della scrittrice: l’infanzia agiata a Sacramento, gli studi a Berkley, gli esordi come giornalista a New York con il famoso stage di un mese vinto presso la rivista Mademoiselle e poi il passaggio a Vogue, il matrimonio con Dunne nel 1964, il trasferimento in California e la vita e i party nella casa sulla spiaggia a Malibu, l’adozione di Quintana Roo nel 1966. Fino alle vicende recenti della perdita del marito e della figlia, narrate dalla Didion nelle sue ultime opere, The year of the magical thinking e Blue Nights (in Italia editi entrambi da Il Saggiatore con i titoli L’anno del pensiero magico e Blue Nights).
Ma oltre a queste vicende note a chiunque conosca l’autrice, Daugherty si concentra anche su alcuni aspetti meno dorati della vita e del matrimonio della Didion, elencati in questo pezzo uscito su Vulture che riassume le cose migliori che si possono trovare in questo libro: aspetti quali la relazione con Noel Parmentel, suo compagno e mentore prima di conoscere Dunne, e le sue dichiarazioni su come la Didion non sapesse accettare un rifiuto e avesse un’ambizione smisurata; le burrasche che caratterizzarono i primi anni del matrimonio con Dunne, invidioso del successo della moglie, e addirittura un pettegolezzo riportato dal compagno di Christopher Isherwood su una latente omosessualità di Dunne; i drink di troppo e l’armadietto delle medicine della loro casa di Malibu descritto dalla producer hollywoodiana Julia Phillips nel suo memoir bestseller You’ll Never Eat Lunch in This Town Again; i problemi con l’alcol di Quintana e le possibili conseguenze sulla sua salute, un argomento che la Didion non affronta se non marginalmente in Blue Nights.
Quando si è iniziato a parlare della prima bio della Didion, ricordo di aver pensato che l’impresa dell’autore fosse alquanto ardua, per due motivi. Il primo è che è difficile affrontare la vita di una scrittrice che ormai è diventata un mito e un’icona, l’ultima celebrità letteraria come l’ha definita in un recente articolo New Republic.
Non c’è dubbio infatti che si possa parlare di una Didion-Mania, che è sempre esistita ma sta conoscendo sicuramente una nuova vita sul web, una fascinazione che unisce gli indiscutibili metriti letterari della scrittrice alla coolness innata della donna, coolness consacrata recentemente dalla scelta della stilista Phoebe Philo di avere la Didion come protagonista della campagna pubblicitaria Spring Summer 2015 di Céline. Un’icona che la Didion è stata brava a creare negli anni, costruendo la sua immagine quasi come un brand, dosando le apparizioni e le confessioni sulla sua vita privata.
E qui arriviamo al punto due. Il secondo motivo è che se è difficile parlare della vita di Joan Didion, lo è ancora di più farlo meglio di Joan Didion. Una scrittrice che ha sempre messo un po’ di se stessa nel suo modo di fare giornalismo, muovendosi tra reticenza e confessione con una grazia e un’essenzialità che rende il suo stile memorabile e fa di lei “la scrittrice in lingua inglese dalla più bella prosa” secondo Michiko Kakutani. Una scrittrice che nel saggio Goodbye to All That ha raccontato i suoi anni newyorchesi, compreso il momento del crollo durante il quale si ritrovava a piangere “in elevators and in taxis and in Chinese laundries”. Una che nel primo pezzo che scrisse su Life (poi raccolto in The White Album) raccontò che aveva deciso di andare alle Hawaii “in lieu of filing for divorce.” Una i cui lavori meglio riusciti sono i memoir in cui racconta le perdite più personali che una donna possa subire – pensate a The year of the magical thinking che le è valso il National Book Award per la non fiction nel 2005 – e lo fa senza mai lasciare che il carico emotivo prenda il sopravvento sulla sua prosa.
Motivo per cui la fonte principale della biografia di Daugherty pare essere proprio ciò che la Didion ha scritto di sé. È quello che lei ha voluto farci sapere di sé e il modo in cui ce lo ha raccontato che rimarranno nella mente dei lettori, più di qualsiasi biografia. Sulla Didion non si hanno risposte assolute e probabilmente nemmeno questo libro ce le saprà dare: fu autrice di riferimento per il femminismo ma rimase sempre estranea al movimento? fu repubblicana e snob o progressista? fu una madre assente? Quello che non possiamo smettere di fare è ammirare la fragilità del suo corpo e la forza della donna, pensare a lei come “sopravvissuta” a due lutti che avrebbero minato chiunque, scrittrice lucida e cristallina nonostante tutto, splendida ottantenne con un maglioncino nero e un paio di occhialoni di Céline.
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