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Phil Klay | Fine missione

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Photo credit: Thomas Griffith.

EPW: Prigioniero di guerra. IED: Ordigno esplosivo improvvisato. CASEVAC: Evacuazione dei feriti. SVBIED: Ordigno esplosivo improvvisato trasportato da veicolo suicida. Perfino la mensa ha perso il suo nome in favore di un acronimo: DFAC, Dining Facility. Il glossario che contiene decine di sigle, chiude il libro meglio di un epilogo narrativo. Uno dei protagonisti del libro, una volta tornato a studiare negli Stati Uniti, dice a una compagna di corso: «La lingua è una tecnologia. Mi hanno addestrato a usarla per aumentare la letalità della mia squadra». La guerra moderna – la “guerra asimmetrica”, la guerra “post-nazionale” – ha smarrito del tutto il lessico mitico e poetico così come ogni sfumatura epica. La guerra combattuta nelle città roventi dell’Iraq è fredda e tecnologica, inumana nella forma e nel contenuto. Raccontarla non è impresa da poco.

Ci ha provato Phil Klay, scrivendo dodici racconti che hanno vinto il National Book Award 2014. Tuttavia Fine missione non è tanto un libro sulla guerra, quanto un lungo e articolato racconto delle difficoltà che i soldati incontrano nel parlare, discutere e raccontare la loro esperienza bellica. Phil Klay lo sa, perchè ha servito nei marine in Iraq dal 2007 al 2008. In un bell’articolo pubblicato sul New York Times invita il lettore a colmare la distanza che si crea in patria fra veterani e civili. I primi, reduci vessati da esperienze terribili più grandi di loro spesso sono incapaci di dar voce a sentimenti e a ricordi traumatici; mentre i secondi si proteggono dietro ai ringraziamenti e agli adesivi appiccicati sui paraurti perché hanno paura di apprendere mostruosità difficilmente digeribili. Questa distanza, piena di silenzio e rimozione, separa sempre più noi civili dalla guerra, rendendoci incapaci di comprenderla e di essere consapevoli della sua natura distruttrice. «Ritenendo la guerra un fenomeno inesprimibile a parole» scrive Phil Klay «ci sottraiamo alla responsabilità di raccontarla».    

41jC79L9SyL. SY344 BO1,204,203,200  Phil Klay | Fine missioneI protagonisti dei dodici racconti differiscono tra loro per grado, estrazione sociale, corpo militare, provenienza, età e personalità. Eppure la guerra, mettendo loro addosso un’uniforme e coinvolgendoli come nessuna esperienza ha mai fatto prima, li rende un unico soldato. Non conta che questo soldato sia ancora in missione o sia tornato a casa, il suo desiderio di condividere quanto ha vissuto è straripante, ma deve fare i conti con emozioni soffocanti e fronteggiare un mondo che è incapace di ascoltare davvero. Nemmeno la tecnologia può fornire una testimonianza adeguata. I video di guerra su Youtube, realizzati con le videocamere portatili di ultima generazione, non possono restituire il vortice di emozioni in cui la guerra risucchia gli uomini. In uno dei racconti, un veterano guarda sullo schermo di un PC le immagini confuse di una battaglia girate in Iraq, e alla domanda «Tu sei stato in battaglia. È proprio così?» risponde: «Naa»; per poi aggiungere: «con la videocamera non è la stessa cosa».

Alla constatazione che la guerra sia inesprimibile, Phil Klay risponde con un libro scarno e al tempo stesso densissimo. Scarno perché l’ambientazione è minimale, un mero scenario che fa da sfondo agli eventi. Come se l’autore fosse consapevole che i lettori di mezzo mondo hanno ben presente grazie a telegiornali, film, documentari e serie TV l’estetica della guerra in Iraq. Ma scarna è anche la descrizione della battaglia: l’atto bellico non è momento cruciale della narrazione ma diventa evento pregresso, presente soltanto sottoforma di ricordo nella mente dei soldati. Al contempo, il libro è denso perché il lettore riesce a percepire in ogni pagina l’enorme carico di vissuti di ogni soldato: una massa turbolenta che ricorda un profondo lago di montagna, trattenuto a stento da una diga crepata. E il punto in cui inizia il crollo – vale a dire il punto in cui il blocco viene rimosso e l’esperienza di guerra viene effettivamente raccontata – è proprio il dialogo, il legame che i reduci creano attraverso mille difficoltà (quando ci riescono) con il mondo esterno. Lo stesso libro di Phil Klay è un tentativo simile, ennesima testimonianza che l’arte, e la scrittura nello specifico, è il mezzo più adatto per scongiurare il dilatarsi della distanza che divide gli esseri umani, civili o militari che siano, grazie alla potenza del suo vocabolario emozionale e alla capacità intrinseca di creare connessione.

I soldati di Fine missione non hanno affatto terminato la loro missione, bensì sono in procinto di iniziarne un’altra, ben più difficile: il ritorno alla vita dopo aver incontrato la morte e l’orrore. Sono stati riassegnati (Redeployment è il titolo originale della raccolta) a un nuovo teatro di guerra, dove dovranno combattere per raccontare le proprie storie e per non cadere nell’oblio. Il mondo che li accoglie con superficiale riconoscenza è così distante dall’Iraq – il “paese fottuto”, come lo chiamano più volte i soldati – e così disabituato a discutere di guerra che il passaggio non può che essere traumatico. Ascoltare le loro voci e immaginare la guerra è compito nostro; altrimenti, come ci ricorda James Hillman nel suo saggio Un terribile amore per la guerra, «non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo». Se potessimo farlo attraverso cento capolavori letterari di questo calibro, l’incombenza sarebbe più rosea del previsto.

Phil Klay, Fine missione, Einaudi, 2015. 

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